Tortura

Cospito rischia seriamente di morire, il tempo sta per scadere: è necessario revocare il regime del 41 bis, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria

Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi.

Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».

Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: Per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.

La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire:può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.

Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis,applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.

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7 GENNAIO 2023
ALESSANDRA ALGOSTINO, DOCENTE DI DIRITTO COSTITUZIONALE, UNIVERSITÀ DI TORINO
SILVIA BELFORTE, GIÀ DOCENTE DI ARCHITETTURA, POLITECNICO DI TORINO
EZIO BERTOK, PRESIDENTE CONTROSSERVATORIO VALSUSA
DON ANDREA BIGALLI, PARROCO IN FIRENZE, REFERENTE DI LIBERA PER LA TOSCANA
MARIA LUISA BOCCIA, PRESIDENTE DEL CRS (CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO)
MASSIMO CACCIARI, FILOSOFO
GIAN DOMENICO CAIAZZA, AVVOCATO, PRESIDENTE UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE
DON LUIGI CIOTTI, PRESIDENTE DEL GRUPPO ABELE E DI LIBERA
GHERARDO COLOMBO, GIÀ MAGISTRATO, PRESIDENTE DELLA GARZANTI LIBRI
AMEDEO COTTINO, PROFESSORE DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO NELLE UNIVERSITÀ DI TORINO E UMEÅ (SVEZIA)
GASTONE COTTINO, ACCADEMICO ED EX PARTIGIANO, GIÀ PRESIDE FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA, UNIVERSITÀ DI TORINO
BENIAMINO DEIDDA, MAGISTRATO, GIÀ PROCURATORE GENERALE DI FIRENZE
DONATELLA DI CESARE, DOCENTE DI FILOSOFIA TEORETICA, UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA
DANIELA DIOGUARDI, UDI (UNIONE DONNE ITALIANE), PALERMO
ANGELA DOGLIOTTI, VICE PRESIDENTE CENTRO STUDI SERENO REGIS
ELVIO FASSONE, GIÀ MAGISTRATO E PARLAMENTARE
LUIGI FERRAJOLI, FILOSOFO DEL DIRITTO
GIOVANNI MARIA FLICK, GIÀ PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
CHIARA GABRIELLI, DOCENTE DI PROCEDURA PENALE, UNIVERSITÀ DI URBINO
DOMENICO GALLO, MAGISTRATO, GIÀ PRESIDENTE DI SEZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
ELISABETTA GRANDE, DOCENTE DI SISTEMI GIURIDICI COMPARATI NELL’UNIVERSITÀ DEL PIEMONTE ORIENTALE
LEOPOLDO GROSSO, PRESIDENTE ONORARIO DEL GRUPPO ABELE
FRANCO IPPOLITO, PRESIDENTE FONDAZIONE BASSO
ROBERTO LAMACCHIA, AVVOCATO, PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA GIURISTI DEMOCRATICI
GIAN GIACOMO MIGONE, DOCENTE DI STORIA DELL’AMERICA DEL NORD NELL’UNIVERSITÀ DI TORINO, GIÀ SENATORE
TOMASO MONTANARI, DOCENTE DI STORIA DELL’ARTE, RETTORE DELL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI SIENA
ANDREA MORNIROLI, COOPERATORE SOCIALE, NAPOLI
MONI OVADIA, ATTORE, MUSICISTA E SCRITTORE
GIOVANNI PALOMBARINI, MAGISTRATO, GIÀ PROCURATORE GENERALE AGGIUNTO PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE
MICHELE PASSIONE, AVVOCATO IN FIRENZE
VALENTINA PAZÉ, DOCENTE DI FILOSOFIA POLITICA, UNIVERSITÀ DI TORINO
LIVIO PEPINO, PRESIDENTE DI VOLERE LA LUNA E DIRETTORE EDITORIALE DELLE EDIZIONI GRUPPO ABELE
ALESSANDRO PORTELLI, STORICO E DOCENTE DI LETTERATURA ANGLOAMERICANA ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA
NELLO ROSSI, MAGISTRATO, GIÀ AVVOCATO GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE
ARMANDO SORRENTINO, AVVOCATO, ASSOCIAZIONE ITALIANA GIURISTI DEMOCRATICI, PALERMO
GIANNI TOGNONI, SEGRETARIO GENERALE DEL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI
UGO ZAMBURRU, PSICHIATRA, FONDATORE DEL CAFFÈ BASAGLIA DI TORINO
PADRE ALEX ZANOTELLI, MISSIONARIO COMBONIANO

Per aderire all’appellohttps://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6

* Fonte/autore: il manifesto

Cucchi

Due carabinieri, un uomo e una donna, condividono la consapevolezza di un segreto terribile: i loro superiori hanno massacrato di botte un giovane e scaricato la colpa del pestaggio sulla polizia penitenziaria, poi il ragazzo è morto. L’uomo e la donna sono estranei al massacro e parlandone si riconoscono nella reciproca umanità, alla fine si innamorano e si sposano. Ma non finisce come nelle favole. Vengono minacciati, insultati, impauriti affinché non parlino con quella sorella che continua imperterrita a esibire la foto del ragazzo pestato a morte, che non si dà per vinta davanti al potere in divisa che uccide sicuro di rimanere impunito.

È QUESTA LA NUOVA STORIA, un po’ rosa e molto nera, che è emersa ieri platealmente all’udienza per la morte di Stefano Cucchi, processo bis davanti alla I corte d’Assise del Tribunale di Roma che vede questa volta imputati non i poliziotti della penitenziaria, scagionati nel primo processo, ma cinque carabinieri allora in forza alla stazione di Tor Vergata, tre dei quali sono ora accusati di omicidio preterintenzionale. I due carabinieri che hanno testimoniato ieri contro i loro superiori di allora si chiamano Riccardo Casamassima e Maria Rosati e sono in effetti i due testimoni chiave che hanno consentito ai pm di riaprire il caso Cucchi.

«All’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva coinvolto in prima persona – ha spiega Casamassima disfacendosi d’un colpo dell’aura di eroe – ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali e di coprire gli autori di illeciti. E vergognandomi di ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di testimoniare». In realtà gli ci sono voluti anni di angherie e, si immagina, di notti insonni e tormentate. Ieri ha però deciso di «vuotare il sacco», come suol dirsi, di rompere una volta e per sempre la congiura del silenzio durata anni, la paura di ritorsioni, che del resto erano già state usate per metterlo alle strette, screditarlo, impedirgli di parlare ai magistrati.

QUELLA SERA di metà ottobre 2009 – ha raccontato – il maresciallo Roberto Mandolini entrò nella caserma di Tor Vergata, e prima di andare a rapporto dal comandante Enrico Mastronardi disse «che c’era stato un casino, un ragazzo era stato massacrato di botte dai ragazzi». Il ragazzo massacrato era il 32enne Stefano Cucchi, mentre per i massacratori il termine «ragazzi» sta ad indicare, spiega, che si trattava «dei nostri», carabinieri dunque. Questo sentì il carabiniere Casamassima. Poi Maria Rosati, all’epoca appuntato gli raccontò di una conversazione ascoltata da lei tra il comandante della stazione e il maresciallo Mandolini. «Maria – ha raccontato Riccardo Casamassima – mi rivelò che Mandolini e Mastronardi stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei stava lì perché fungeva da autista del comandante e capì il nome “Cucchi” ma visto che la vicenda non era ancora nota, deduco che quando ci fu questo colloquio il ragazzo fosse ancora vivo».

Stefano morì il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo l’arresto e le botte. Casamassima ebbe poi un’ulteriore conferma di ciò che era successo parlando con il figlio del comandante Mastronardi, Sabatino, maresciallo anche lui e suo amico. «Sabatino venne in caserma, si portò la mano sulla testa e, parlando della morte di Cucchi, disse che non aveva mai visto una persona così messa male. Lo aveva visto la notte dell’arresto quando Cucchi venne portato a Tor Vergata».

ILARIA CUCCHI, dopo l’udienza, punta il dito senza più timore verso il maresciallo Mandolini. «è lui il principale responsabile – dice – e ricordo bene quando venne in aula nel primo processo, quello sbagliato, a raccontarci la storiella che quella era stata una serata piacevole e che Stefano era stato anche simpatico. Adesso è il processo giusto e si parla di pestaggio. Ogni volta in quest’aula ho la pelle d’oca».

FONTE: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO

Le relazioni di servizio redatte dai carabinieri sullo stato di salute di Stefano Cucchi nelle ore immediatamente successive al suo arresto sono state modificate e per una c’è addirittura il sospetto che sia stata falsificata. Una manomissione della quale i vertici dell’Arma sarebbero stati a conoscenza ma sulla quale non sarebbe però mai stata aperta un’inchiesta.

La rivelazione arriva nel corso del processo bis per la morte del giovane geometra romano deceduto all’ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. A parlare sono due militari dell’Arma, Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, estensori dei due verbali. Colicchio è il carabiniere presente nella caserma di Tor Sapienza al momento dell’arrivo di Cucchi il 16 ottobre di nove anni fa accompagnato dal personale della stazione Roma-Appia. «Trascorsi circa venti minuti – annota Colicchio – Cucchi suonava al campanello di servizio presente nella cella e dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia». La relazione ha lo stesso numero di computer di una seconda versione, decisamente più leggera, nella quale si spiega che «Cucchi dichiarava di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio». Sentito dal pm Giovanni Musarò, il carabiniere ha riconosciuto la firma in calce ai due verbali, ma ha ammesso che la seconda versione non corrisponde al vero.

Stessa cosa per quanto riguarda le annotazioni firmate dal carabiniere Di Sano. Nella prima il militare scrive: «Alle 9.05 circa giungeva presso questa stazione personale della Casilina addetto ai ritiro del detenuto. Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato a salire le scale». Un verbale troppo dettagliato, stando a quanto riferito in aula da Di Sano, che per questo sarebbe stato invitato a modificarlo. La versione finale afferma che «Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (privo di materasso e di cuscino) ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza».

Da sottolineare, infine, quanto dichiarato nel 2009 ai magistrati dal carabiniere scelto Pietro Schirone secondo il quale «era chiaro che Cucchi era stato menato». Versione confermata ieri in aula da Schirone.

FONTE: IL MANIFESTO

Pochi giorni fa il pm Enrico Zucca è stato sottoposto a un durissimo attacco mediatico e istituzionale per avere ricordato alcune antipatiche verità riguardanti il G8 di Genova del 2001. Nel Palazzo non piace che si ricordino le vicende di quel tragico luglio e soprattutto i processi che ne sono seguiti.

Ma non esiste al momento un silenziatore abbastanza efficace da cancellare i fatti e ora tocca alla Corte dei Conti ricordarci la disfatta morale, politica e anche economica causata dai responsabili istituzionali con la loro scellerata gestione del dopo G8. La magistratura contabile ha condannato 28 persone – fra personale medico-sanitario e appartenenti a polizia, carabinieri e polizia penitenziaria – a risarcire i circa sei milioni di euro pagati alle parti civili nel processo per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto e solo un malizioso cavillo normativo – definito a suo tempo «irragionevole» dal procuratore ligure Ermete Bogetti – ha impedito di contestarne altri 5 per il danno alla reputazione dello Stato. Il pm, nel chiedere la doppia condanna, aveva specificato che le violenze sui detenuti a Bolzaneto «hanno determinato un danno d’immagine che non ha pari nella storia della Repubblica».

Sono parole molto dure ma anche molto simili a quelle scritte dai giudici di Cassazione il 5 luglio 2012 nella sentenza che ha condannato in via definitiva 25 funzionari e dirigenti di polizia nel processo Diaz: «(…)una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociandosi così da una condotta che aveva gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero e di rimettere in libertà gli arrestati, avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze».

Non vanno poi dimenticate le parole spese dalla Cassazione nel motivare il no alla richiesta di affidamento ai servizi sociali presentata da Gilberto Caldarozzi, condannato nel processo Diaz e oggi vice direttore della Direzione investigativa antimafia; la Cassazione in quel documento biasima il «dirigente di polizia, tutore della legge e della legalità che si presta a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici» e ricorda, con riferimento alla Diaz, «il clamore provocato dalla vicenda e il conseguente discredito internazionale caduto sul nostro paese».

Dovremmo tenere a mente tutti questi passaggi ogni volta che si parla di dignità e credibilità delle nostre forze di polizia, l’una e l’altra gravemente danneggiate dalle scelte compiute dai vertici istituzionali non solo durante ma anche dopo il G8 del 2001. La Corte europea per i diritti umani ha rimarcato come nel processo Diaz «la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria»…

Che c’è di peggio, per un apparato dello Stato, di un giudizio del genere?
Il capo della polizia Franco Gabrielli l’altro giorno ha definito «oltraggiose» le affermazioni di Enrico Zucca, tutte riprese da sentenze passate, sulla debole «statura morale» della nostra polizia, dimostrando di non aver compreso, o di non voler accettare, la dura verità che scaturisce dal G8 di Genova. In quei giorni e negli anni successivi fino a oggi, con l’inopinato reintegro dei condannati nel processo Diaz, abbiamo assistito a un pervicace rifiuto di tutelare l’onorabilità dei corpi di polizia nell’unico modo possibile: ammettendo le proprie colpe, allontanando i responsabili degli abusi, facendo opera di prevenzione (do you remember i codici sulle divise?), chiedendo scusa – ma davvero, non con la mezza e tardiva frase di Antonio Manganelli – a tutti, proprio a tutti: le vittime dirette delle violenze, i cittadini italiani, i lavoratori onesti dei corpi di polizia.

Oggi è troppo tardi e la credibilità perduta è tutta da ricostruire: perciò ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni di Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende.

FONTE: Lorenzo Guadagnucci , IL MANIFESTO

*Comitato Verità e Giustizia per Genova

Che fu «tortura», perpetrata su donne e uomini inermi e spesso feriti, lo ha definitivamente stabilito, poco più di cinque mesi fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto a 61 persone recluse nella caserma di Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova, il diritto ad essere indennizzate dallo Stato italiano. Ora la Corte dei conti del capoluogo ligure a sua volta ha condannato 28 esponenti delle forze dell’ordine e personale medico sanitario a risarcire lo Stato per i danni materiali (ma non quelli d’immagine davanti al mondo) causati all’Italia da quella barbarie.

Tra i poliziotti, i carabinieri, gli agenti e i dirigenti della polizia penitenziaria, i medici e i sanitari che dovranno restituire ai cittadini italiani 6 milioni di euro in totale, ci sono anche personaggi come il dottor Giacomo Toccafondi, coordinatore delle attività sanitarie del sito penitenziario di Bolzaneto, il generale Oronzo Doria, ex capo area della Liguria dei poliziotti penitenziari chiamato al pagamento – in via sussidiaria – di 800 mila euro, e l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma, Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dap, che, sempre in via sussidiaria, dovrà pagare un conto di circa un milione di euro. Sabella, raggiunto dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza.

Una condanna che segue di poco quella inflitta a fine gennaio, dagli stessi giudici contabili della Liguria, all’ex comandante del VII Reparto Mobile di Bologna, Luca Cinti: 50 mila euro per i danni di immagine causati alla Polizia per alcuni arresti eseguiti in Piazza Manin, sempre durante le giornate del G8 di Genova.

Nella sentenza di ieri la Corte ha accolto solo in parte la richiesta della procura, formulata durante l’udienza di un anno fa, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro per i danni patrimoniali recati alle 252 persone che transitarono in quei giorni nelle celle di Bolzaneto, e altri 5 milioni per il danno di immagine all’Italia. A conti fatti, il danno reale è stato poi quantificato in “soli” 6 milioni, che graveranno soprattutto sui vertici delle istituzioni coinvolte. Coloro che, secondo i giudici, «erano necessariamente consapevoli delle violenze commesse», quelle fisiche e quelle psichiche commesse su persone inermi, minacciate di morte e di stupro.

Dal punto di vista penale il processo per le violenze di Bolzaneto si era concluso con 33 prescrizioni, 8 condanne e 4 assoluzioni, ma le amministrazioni di appartenenza degli imputati avevano dovuto ugualmente risarcire le parti civili. Ma da un altro punto di vista, come aveva sottolineato in udienza la procura contabile, quei giorni di Genova «hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica». Ecco perché a pagare è stato condannato anche Alfonso Sabella, malgrado la sua posizione giudiziaria fosse stata archiviata. L’ex dirigente Dap infatti avrebbe dovuto controllare e vigilare per evitare abusi. Tanto più in una situazione così inusuale, con una caserma trasformata di fatto in carcere.

Durante l’udienza di un anno fa, il procuratore contabile Claudio Mori aveva però spiegato come fosse più facile punire per danno d’immagine il dipendente pubblico che lascia il posto di lavoro per recarsi al bar di fronte l’ufficio piuttosto che gli agenti e i militari protagonisti delle violenze di Genova. «Con l’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile – aveva spiegato Mori – forse si andrà oltre». E invece nel conteggiare il risarcimento dovuto allo Stato la Corte dei Conti non ha inserito il danno d’immagine. Quello, continueremo a pagarlo tutti, cittadini e istituzioni italiane.

FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO

«Arditi parallelismi e infamanti accuse che qualificano soltanto chi li proferisce». Reagisce male, il capo della polizia Franco Gabrielli, alle parole pronunciate dal sostituto procuratore della corte d’Appello di Genova Enrico Zucca che durante un’iniziativa dell’ordine degli avvocati su Giulio Regeni aveva detto: «I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?».

La sua però è una difesa d’ufficio un po’scontata e retorica: «Noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno, noi sappiamo riconoscere i nostri errori – ha detto Gabrielli durante un’iniziativa ad Agrigento in ricordo di Beppe Montana, poliziotto ucciso dalla mafia nel 1985 – Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne, su tutto il territorio nazionale, garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità».

EPPURE, NEANCHE UN ANNO fa in un’intervista a Repubblica Gabrielli affermava a chiare lettere che durante il G8 del 2001 nella caserma di Bolzaneto venne praticata la «tortura» e che se fosse stato al posto di Gianni De Gennaro si sarebbe «dimesso». Lui che nell’aprile 2016 venne spostato velocemente dalla prefettura di Roma al vertice della polizia proprio per dare manforte ad un governo che annaspava davanti alla Corte di Strasburgo chiamato a difendersi per le violenze alla Diaz. «La nottata non è mai passata – disse Gabrielli nell’intervista – A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori».

Sei mesi dopo, uno dei protagonisti di quella storia, Gilberto Calderozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e otto mesi per aver attestato il falso e coperto omertosamente le violenze e le torture inferte dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz divenne il numero due della Direzione investigativa antimafia.

IERI PERÒ, al solito bailamme sollevato dalle destre e dai sindacati delle forze dell’ordine – i funzionari di polizia parlano addirittura di «rischio disordini» – il presidente della Prima commissione del Csm, Antonio Leone, ha chiesto l’apertura di una pratica sul caso «per valutare gli eventuali profili di incompatibilità», anche se il vicepresidente Giovanni Legnini si è limitato a definire quella di Zucca «una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata». Mentre il ministero di Giustizia ha acquisito la registrazione integrale del convegno dell’ordine genovese degli avvocati.

Ma l’ex pm del processo Diaz – che considera «normale e doveroso» l’accertamento dei fatti da parte degli organi competenti – insiste sul punto: «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza». E ancora, riferendosi al caso Regeni: «Se noi violiamo le convenzioni, è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici. Il mio messaggio di ieri era: crediamo in primis noi ai principi, prima di pretendere che ci credano altri». I genitori di Giulio, il ricercatore torturato e ucciso al Cairo che non ha ancora ottenuto verità e giustizia, hanno voluto esprimere «la nostra stima e gratitudine al dott. Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato».

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Enrico Zucca

D’ALTRONDE IL PROCURATORE della Corte d’Appello genovese non ha fatto altro che fotografare la realtà. Lo ricorda Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, quando dice che Zucca «evidenzia qualche problema reale, non sta inventando niente». E lo ricorda Magistratura democratica con una nota in cui osserva «che le pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei diritti dell’uomo hanno qualificato i fatti di Genova in termini di tortura e hanno censurato il nostro Paese per non avere posto in essere quegli adempimenti procedurali – tra cui la sospensione dal servizio dei responsabili – necessari per prevenire e reprimere il delitto di tortura». «Sulla base di queste premesse condivise», la corrente democratica dell’Anm ritiene dunque «che non possa qualificarsi oltraggioso per le forze dell’ordine ribadire l’incidenza di quella grave vicenda sulla credibilità delle istituzioni», dentro le quali, «si collocano le forze di polizia con il loro quotidiano e indispensabile lavoro, nella legalità e a tutela della legalità».

Solidarietà a Zucca è stata espressa anche da Pap, Leu, e da numerosi giudici, legali, studiosi e cittadini comuni che hanno sottoscritto un appello – e invitano a firmare (appellozucca@altreconomia.it) – affinché si applichino le indicazioni prescritte nelle condanne Cedu per Diaz e Bolzaneto.

FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO

Vedi anche sul sito del Comitato verità e giustizia per Genova
un piccolo elenco delle promozioni

Durante un convegno organizzato dall’Ordine degli avvocati ieri a Genova, dal titolo «La tutela degli italiani all’estero. Una storia tragicamente emblematica: Giulio Regeni», il sostituto procuratore della Corte d’Appello di Genova Enrico Zucca, non ha usato toni granché concilianti.

IL MAGISTRATO dei procedimenti legati ai fatti del G8 di Genova nel 2001, relativo ai fatti della Diaz, è infatti intervenuto nel dibattito specificando che «i nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?».

Non solo, perché Enrico Zucca – che indagò sulla mattanza della Diaz e che trovò una straordinaria resistenza da parte delle forze di polizia (refrattarie a collaborare prima, ad ammettere i propri errori dopo e anzi a inquinare il procedimento, basti pensare alla sparizione delle due bottiglie molotov dall’ufficio reperti della questura di Genova) – ha affondato il colpo, inserendo la vicenda di Genova in un’ottica più globale: «L’11 settembre 2001 e il G8 – ha affermato – hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche».

GIÀ IN PASSATO ZUCCA aveva criticato l’operato della polizia con riferimento ai fatti di Genova, sottolineando la straordinaria continuità di «quella» polizia con quella più attuale, a causa dei mancati provvedimenti disciplinari e di una più generale analisi di quanto accaduto.

L’incontro genovese ha visto la partecipazione di Paola e Claudio Regeni, oltre all’avvocato della famiglia, Alessandra Ballerini. «Dal 14 agosto, nel momento stesso in cui il premier Gentiloni ci ha detto che l’ambasciatore sarebbe tornato al Cairo in Egitto, ci siamo sentiti abbandonati dal nostro paese. È arrivata come una tegola sulla testa», ha spiegato Paola Regeni madre di Giulio, il ricercatore universitario italiano rapito e trovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto.

«SIAMO DECISI ad andare avanti anche a piccoli passi», ha spiegato poi il padre di Giulio, Claudio Regeni, aggiungendo che «combattiamo per Giulio ma anche per tutti quelli che possono trovarsi in situazioni simili a quelle che lui ha vissuto».

L’avvocato difensore della famiglia Alessandra Ballerini ha poi ricostruito i depistaggi e la vicenda: «Il corpo di Giulio parla da solo e si difende da solo. Siamo arrivati a nove nomi delle forze di polizia implicati».

FONTE: Simone Pieranni, IL MANIFESTO

Due condanne in un solo giorno provenienti da Strasburgo confermano ancora una volta l’uso della tortura nelle carceri italiane, reato per il quale lo Stato non ha mai chiesto scusa alle vittime e non ha mai punito i responsabili (ma non li ha neppure sospesi durante l’inchiesta e il processo, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo).

Sono 63 in totale le persone che, da recluse, hanno subito violenze fisiche e psicologiche da parte di autorità di polizia: due durante la detenzione nel carcere di Asti nel 2014, quando vennero sottoposte a maltrattamenti di vario tipo da parte di cinque agenti penitenziari, e 61 a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova. A tutti loro la Cedu ha riconosciuto ieri un indennizzo che va dai 10 mila agli 88 mila euro a testa (a seconda delle gravità delle violenze subite e della «conciliazione amichevole» eventualmente già pattuita con il governo italiano), condannando così Roma al pagamento complessivo di 4 milioni e 10 mila euro per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

«A GIUDIZIO DELLA CORTE, i giudici nazionali hanno fatto un vero e proprio sforzo per stabilire i fatti e individuare i responsabili», scrive la Cedu, ma a causa della lacuna normativa di allora i torturatori sono rimasti impuniti. Il problema, sul quale i giudici di Strasburgo ovviamente non si soffermano ma che viene sottolineato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, è che il reato di tortura rischia di rimanere impunito in alcuni casi anche in futuro, perché la legge entrata in vigore il 18 luglio scorso che introduce finalmente quella fattispecie di reato nell’ordinamento italiano è volutamente contorta e difficilmente applicabile.

Anche se il ministro Orlando un paio di giorni fa si è detto convinto che la nuova legge abbia recepito le direttive della Cedu contenute nella sentenza Cestaro del 2015 e ha spiegato che comunque il testo ha bisogno di essere applicato per verificare eventuali «elementi di fragilità normativa», caso in cui, ha detto, «non escludiamo una riflessione».

DOPO LA CONDANNA del giugno scorso per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz, i giudici di Strasburgo riconoscono ad altre 61 persone, alcune delle quali arrestate proprio durante quell’irruzione, il diritto ad essere risarcite per le violenze subite «dagli ufficiali di polizia e dal personale medico» a Bolzaneto, una delle due caserme, insieme a Forte San Giuliano, adibite a centri temporanei di detenzione dei manifestanti “rastrellati”. Per due giorni, le vittime vennero «aggredite, picchiate, spruzzate con gas irritanti, subirono la distruzione degli effetti personali e altri maltrattamenti – ricorda la Corte – Mai avrebbero ricevuto adeguate cure per le ferite riportate, e la violenza sarebbe continuata anche durante le visite mediche», oltre a non aver potuto contattare familiari, avvocati e consolati.

Per questi fatti «la procura di Genova indagò 145 tra poliziotti e medici, di cui 15 vennero poi condannati a pene tra i 9 mesi e i 5 anni di reclusione». Ricorda la Corte che successivamente «dieci di loro hanno beneficiato di una grazia, tre di una completa remissione della pena detentiva e due di una remissione di 3 anni; quasi tutti i delitti sono stati prescritti».

Undici dei ricorrenti davanti alla Cedu hanno già accettato di ricevere dal governo italiano 45 mila euro per una «conciliazione amichevole» e perciò hanno diritto ad un risarcimento minore. Ma a nessuna delle tante vittime dei torturatori di Genova, sottolinea Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum del 2001, «a 16 anni dai fatti, dopo varie condanne italiane e internazionali, non è ancora arrivata alcuna parola di scusa a nome dello Stato da parte dei suoi massimi rappresentanti, primi tra tutti il presidente della Repubblica. Una vergogna nella vergogna».

FORSE PERFINO più importante e incisiva è la seconda sentenza emessa ieri dalla Cedu, perché è la prima volta che viene riconosciuta la tortura in un “regolare” carcere italiano e l’Italia viene condannata sia per il delitto in sé «(aspetto sostanziale») che per quanto riguarda la risposta delle autorità nazionali (aspetto procedurale)».

In questo caso, il governo dovrà risarcire con 88 mila euro ciascuno, due detenuti del carcere di Asti o i loro familiari (i torinesi Andrea Cirino e Claudio Renne, quest’ultimo morto in una cella a Torino nel gennaio scorso), per le torture subite nel dicembre 2014 da cinque poliziotti penitenziari, tutti assolti dal tribunale di Asti per mancanza di reato specifico. E perché «malgrado le sanzioni disciplinari imposte», ritenute dalla Cedu, «non sufficienti», gli agenti «non sono stati sospesi durante l’inchiesta o il processo».

Due sentenze che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, considera «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia».

FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO

Pagheranno gli ideologi della «guerra al terrore», vittoria senza precedenti. E stavolta il Dipartimento di Stato non muove obiezioni

Nel novembre 2002 Gul Rahman, cittadino afghano rifugiato in Pakistan, è morto assiderato in un «buco nero», una delle carceri segrete gestite dalla Cia in Afghanistan.

Nell’agosto 2017 due psicologi assoldati dalla Cia sono stati costretti a risarcire i famigliari. Il risarcimento da parte degli psicologi, chiamati dalla Cia a ideare, modellare e perfezionare il sistema di interrogatori e torture dopo l’11 settembre, è una novità assoluta, nota Kate Clark sul sito dell’Afghanistan Analysts Network.

E apre le porte a possibili, nuove cause legali. Che potrebbero coinvolgere, dopo molti anni di impunità, anche i funzionari governativi responsabili di abusi e torture. Che a volte hanno condotto alla morte. Come nel caso di Gul Rahman.

LA SUA STORIA PRENDE una svolta improvvisa e drammatica il 29 ottobre del 2002. Fuggito in Pakistan dopo l’invasione americana con la moglie e le quattro figlie per sfuggire alla guerra, quel giorno Gul Rahman raggiunge Islamabad per un controllo medico.

Lì incontra Ghairat Bahir, genero di Gulbuddin Hekmatyar, il leader dell’Hezb-e-Islami, il gruppo armato che, fino a pochi mesi fa, ha condotto una guerriglia contro il governo di Kabul. Entrambi vengono sequestrati da agenti americani e pachistani e poi trasferiti in Afghanistan.

Mohamed Ben Soud
Mohamed Ben Soud

Finiscono in uno dei tanti «buchi neri» della guerra al terrore. Luoghi occulti, gestiti dai servizi segreti, dove gli interrogatori diventano abusi e torture. A loro capita un carcere poco distante dalla capitale Kabul, in seguito noto come «Cobalt».

Subiscono una serie di torture. Il genero di Hekmatyar sopravvive. Gul Rahman rimane stecchito sul pavimento di una cella, dopo due settimane di abusi da parte di un team che include anche uno psicologo, John «Bruce» Jessen.

L’AUTOPSIA E IL RAPPORTO interno della Cia dicono che sia morto probabilmente per ipotermia, «in parte causata dall’essere stato costretto a stare sul nudo pavimento di cemento senza pantaloni», oltre che per «disidratazione, mancanza di cibo, immobilità» dovuta a catene troppo corte.

Nessuno ritiene di avvertire la famiglia. Che lo cerca dappertutto. Invano. A lungo. Fino a quando, nel 2010, arriva un’inchiesta dell’Associated Press: è stato ucciso in Afghanistan, dopo essere finito nelle mani Cia.

GUL RAHMAN è rimasto vittima delle tecniche di interrogatorio messe a punto da due psicologi, James Mitchell e John «Bruce» Jessen. Assoldati dalla Cia, i due hanno messo le loro competenze medico-professionali al servizio della «guerra al terrore». Un paradigma politico-militare in cui siamo ancora immersi.

Suleiman Abdullah
Suleiman Abdullah

Dal raggio globale: intentata nell’ottobre 2015 dall’American Civil Liberties Union (Aclu), la causa contro gli psicologi oltre ai famigliari di Gul Rahman riguarda due sopravvissuti alle torture. Hanno condotto vite molto diverse, in luoghi molto distanti tra loro, prima di finire nello stesso buco nero afghano. Si tratta di Suleiman Abdullah Salim e Mohamed Ahmed Ben Soud.

IL PRIMO, PESCATORE, è nato a Zanzibar, in Tanzania. Sequestrato dalle forze di sicurezza keniane e dalla Cia nel marzo 2003 a Mogadiscio, in Somalia, dove lavorava e si era sposato, sottoposto a interrogatori feroci in Kenya, è finito poi nella stessa prigione di Gul Rahman, Cobalt, nei pressi di Kabul.

Come lui, è stato brutalmente torturato. Trasferito nel maggio 2003 in un altro buco nero della Cia in Afghanistan, Salt Pit, vi è rimasto per 14 mesi, in isolamento.

NEL LUGLIO 2004 è stato condotto nel carcere interno alla base aerea di Bagram, 40 km a nord di Kabul, gestita dalle forze americane. È stato rilasciato soltanto il 17 agosto 2008, quando è stato accertato che «non pone alcun pericolo alle forze armate americane o ai loro interessi in Afghanistan».

Per la Cia era pericoloso anche Mohammed Ahmed Ben Soud, un dissidente libico trasferitosi in Pakistan, dove è stato sequestrato dalla Cia nell’aprile 2003, su suggerimento di Gheddafi. Finito nello stesso buco nero fuori Kabul, Cobalt, è stato torturato per un anno, nudo, incatenato al muro, in isolamento, in una cella sotterranea, ficcato in una scatola ampia meno di mezzo metro, appeso a una sbarra, immerso nell’acqua gelida, privato del sonno. Nell’aprile 2004 è stato portato in un’altra prigione segreta afghana gestita dalla Cia.

Gul Rahman
Gul Rahman

MAI INCRIMINATO formalmente, nell’agosto 2005 è stato spedito in Libia e imprigionato per altri cinque anni, fino al rovesciamento del regime di Gheddafi. Oggi Mohammed Ahmed Ben Soud vive con la famiglia a Misurata. Suleiman Abdullah Salim vive a Zanzibar. Gul Rahman è morto.

Sono soltanto 3 dei 119 nomi inclusi in un rapporto sul programma di tortura e rendition (trasferimenti forzati) della Cia, redatto dal Comitato sull’Intelligence del Senato statunitense e pubblicato nel dicembre 2014. Di questi, almeno 59 avrebbero subito torture.

Qualcuno, come Mohammed Ahmed Ben Soud e Suleiman Abdullah Salim, ha deciso di chiedere conto delle sofferenze fisiche e psicologiche subite. Con i famigliari di Gul Rahman e con l’aiuto dell’Aclu i due hanno chiamato in causa gli psicologi responsabili delle tecniche di interrogatorio.

Finora, come spiega in modo dettagliato Kate Clark, simili tentativi erano finiti nel vuoto, a causa della necessità di proteggere la «sicurezza nazionale» e i «segreti di Stato». Ma la pubblicazione del rapporto del Senato americano, in cui sono elencate nero su bianco alcune delle torture della Cia, ha fatto venire meno quel pretesto.

Secondo quanto riportato dall’Aclu, a differenza che in passato questa volta il Dipartimento di giustizia americano non ha ostacolato la causa.

E GLI PSICOLOGI, dopo aver opposto obiezioni su obiezioni, hanno preferito trovare un accordo, prima che il processo, previsto per il 5 settembre, avesse inizio. La somma concordata per il risarcimento è segreta. A ben vedere è poco importante. Quel che conta è il cambiamento significativo, celebrato dall’Aclu.

L’esito della causa, ha sostenuto Laden Dror, avvocato dell’American Civil Liberties Union, «è un ammonimento per chiunque pensi di poter torturare impunemente». Perfino nei buchi neri della Cia in Afghanistan.

***

Le loro «tecniche» approvate dal Dipartimenti di giustizia di Bush

Secondo quanto scrive l’Aclu sulla base del decisivo rapporto sulle torture della Cia redatto dal Comitato sull’intelligence del Senato americano, James Mitchell e John «Bruce» Jessen, «basandosi sulla loro esperienza come psicologi e su esperimenti condotti sui cani negli anni Sessanta…», «hanno suggerito che i prigionieri della Cia dovessero essere psicologicamente distrutti infliggendo loro acuti dolori e sofferenze mentali e fisiche». Per i due psicologi, indurre uno stato di «inutilità acquisita» avrebbe eliminato ogni resistenza nei detenuti.

Il loro programma, nota l’Aclu, «non prevedeva soltanto la tortura sui prigionieri, ma esperimenti su di loro».
Mitchell e Jessen non si sono limitati a teorizzare l’utilità della tortura, ma l’hanno anche praticata: oltre ai tanti successivi, hanno personalmente condotto il primo interrogatorio della Cia che seguiva le loro «tecniche di interrogatorio avanzate», contro Abu Zubaydah.

Nessuno dei due «aveva alcuna esperienza negli interrogatori, né una conoscenza specialistica su al-Qaeda, sul terrorismo, o alcuna rilevante conoscenza regionale, culturale o linguistica». Eppure, le loro tecniche di interrogatorio sono state approvate dal Dipartimento di Giustizia, sotto la presidenza Bush.

Per mettere in pratica e ridefinire il programma di interrogatori, per ben otto anni la Cia «ha pagato i due psicologi, e l’azienda da loro fondata, decine di milioni di dollari».

La loro responsabilità è enorme: Mitchell and Jessen «hanno definito le violente procedure, le condizioni e il trattamento crudele imposto sui prigionieri durante il loro trasferimento e nella successiva detenzione, e orchestrato gli strumenti di tortura e i relativi protocolli, hanno personalmente torturato i detenuti e addestrato il personale della Cia nel gestire le tecniche di torture».

In evidente conflitto di interessi, avevano inoltre il compito «di valutare l’’efficacia del programma da cui traevano enormi profitti».

FONTE: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO

«Dai un calcio al G8» era intitolato il torneo che vedeva fronteggiarsi Attac Italia e Attac Francia il 18 luglio 2001 in Piazza Fontana Marose a Genova. Con tutte quelle reti una partita ci stava bene. Quando erano arrivati i poliziotti Attac Francia vinceva 2 a 1. Per questo, nella speranza i «nostri» pareggiassero, gli agenti avevano chiuso un occhio e consentito continuasse la partita.

UN CLIMA di relativa disponibilità come quello che si respirava il giorno successivo in occasione del corteo dei migranti, mi racconta Roberto Mapelli ¬ presidente dell’associazione culturale Punto rosso e presente a Genova 2001 con Attac Italia. Poi il buio. Il 20 luglio Roberto Mapelli, fermato per identificazione, finisce nella caserma di Bolzaneto insieme a Mark Christopher Harrison.

Entrambi sono stati malmenati, tanto che l’Harrison, ripetutamente colpito alla testa, fatica a reggersi in piedi e finisce col perdere i sensi. Al loro arrivo una persona in divisa grigia grida «frocio di merda, comunista bastardo, appena entri ti spacco la faccia».

MAPELLI È IL PRIMO A SALIRE i tre gradini di Bolzaneto e ad attraversare due file di agenti tra insulti e sputi. All’ingresso è condotto in una stanza con Mark Harrison, Roberto Michele, due ragazze tedesche e un ragazzino italiano. E a riceverli due energumeni dall’accento romano in divisa. Urla, canti fascisti, confusione, euforia nei corridoi, carabinieri e poliziotti che corrono. «Bastardi», «ebrei», «troie» rivolto alle donne, sono il benvenuto. Chi chiede di andare in bagno nel percorso per arrivarci riceve calci e pugni dagli agenti.

Gli energumeni iniziano dal ragazzino, vestito di nero, un black block a loro dire. Gli battono la testa al muro, lo colpiscono alla nuca, con la fronte che, a ogni colpo, batte contro la parete, fin quando il ragazzino crolla a terra dove continua a ricevere colpi in testa e alle costole. Hanno tutti avuto incubi nei mesi successivi i torturati di Genova, mi dice Mapelli a proposito di quel che è rimasto. E terribili per molti sono ancora i contatti, sebbene occasionali, con le forze dell’ordine, che generano attacchi di panico.

CHI È MORTO SUICIDA anni dopo, chi ha avuto un aneurisma che ha portato alla paralisi, chi ha subito traumi cronici gravi con conseguente abbandono della professione, chi ha interminabili incubi, chi disturbi post traumatici da stress e depressioni. Due terzi dei dimostranti di Genova era alla prima grande manifestazione, ricorda Mapelli, e molti, la maggioranza, in manifestazione non ci vanno più.

LA REPRESSIONE ha funzionato e di quei giorni si parla per le violenze e non per le decisioni ratificate e che hanno dato origine al nostro presente. E anche di questo si è parlato ieri sera in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in occasione di «Pensare Genova luglio 2001». Per quanto riguarda le conseguenze processuali di quelle giornate, il governo italiano ha riconosciuto le proprie colpe nei confronti di sei cittadini torturati nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001 e gli verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali. Lo ha reso noto la Corte europea dei diritti umani in due provvedimenti in cui «prende atto della risoluzione amichevole tra le parti» e stabilisce di chiudere i casi.

CONTA POCO che appena sei dei 65 cittadini italiani ed europei abbiano accettato questa transazione. Certamente – come riferisce Laura Tartarini, legale di una ventina di persone tra le vittime della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto – «Quella che offre lo stato è una cifretta. Ha accettato chi, tra cui due dei miei assistiti, ha necessità economiche e personali. Per gli altri il ricorso continua».
L’avvocato afferma «sono passati 16 anni e non mi stupisco che alcuni di loro decidano di accettare l’offerta. Ma lo stato si sta comportando in modo davvero poco consono, tanto che gli accordi in sede civile davanti ai giudici di Genova ancora non si trovano. Questo accordo certo non rappresenta una soddisfazione morale».

«ALCUNE DELLE PARTI CIVILI costituite per il processo sui fatti di Bolzaneto» racconta Sara Busoli, avvocato di alcune di queste nel processo G8/Bolzaneto, «hanno fatto ricorso, in due successive tornate, alla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo). Nel dicembre 2015 e gennaio 2016 il Governo italiano ha fatto pervenire due analoghe proposte per il regolamento amichevole della vertenza proponendo sostanzialmente di rinunciare al ricorso in cambio di un risarcimento forfettario a ciascuno dei ricorrenti».

E, continua l’avvocato, «Nella proposta il governo rappresentava il fatto che oramai era in via di approvazione una legge per perseguire il reato di tortura e che per altro lo stato italiano avrebbe adempiuto ai suoi doveri attraverso adeguate indagini e provvedimenti successivi che avrebbero condotto all’identificazione e la condanna dei responsabili ad una pena proporzionata ai delitti commessi. Alcuni dei ricorrenti hanno, legittimamente, ritenuto di accettare la transazione, chiudendo definitivamente un capitolo triste e doloroso della loro vita. Altri, direi la maggioranza, hanno scelto di continuare l’azione intrapresa rifiutando la transazione, ritenendo che qualunque proposta poteva essere presa in considerazione soltanto dopo l’effettiva approvazione della legge e dopo la verifica del contenuto effettivo della medesima. Il comportamento tenuto dallo stato e dai suoi rappresentanti fino a quel momento – dice Busoli – non testimoniava certo a favore della loro credibilità. Mi pare che l’iter della legge sulla tortura e i contenuti proposti, diano purtroppo loro ragione. Al contrario, casi come quelli di Cucchi e Aldrovandi hanno dimostrato quale fosse e quale sia lo stato delle cose e le relative vicende giudiziarie hanno ribadito le medesime risposte da parte dello stato».

IL GIORNALISTA Lorenzo Guadagnucci, picchiato alla Diaz da uomini che ancora non hanno un nome, è uno di quelli che ha rifiutato il risarcimento. «Ho rifiutato» ha dichiarato «perché il ricorso alla Corte di Strasburgo non l’ho fatto per avere un risarcimento economico ma perché credo che il governo italiano debba fare i conti con le proprie responsabilità, che sono avere negato giustizia alle vittime di Genova, non avere preso sul serio gli abusi commessi, non avere fatto nulla per prevenire il ripetersi di tali violazioni in futuro». «Per quanto mi riguarda» conclude Sara Busoli, «rappresento nel ricorso alla Cedu quattro parti civili già costituite nel processo penale in Italia e nessuno di loro ha accettato la transazione. Tre di loro venivano dalla Diaz, la quarta era giovanissima all’epoca ed è stata portata a Bolzaneto quasi per caso. Lei è quella che mi ha stupita di più. Mi ha chiesto tempo per pensare, poi mi ha chiamata quasi scusandosi per il fatto che proprio non le sembrava giusto accettare».

FONTE: Stefano Valenti, IL MANIFESTO

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