Stragismo & Strategia della tensione

Secondo Meloni il partito di Almirante ha avuto un ruolo nel combattere la violenza politica. Le cronache e le sentenze raccontano una cosa assai diversa

 

Le radici di Fratelli d’Italia affondano nella storia del Msi. Un concetto ribadito tanto da Meloni quanto dal presidente del senato La Russa. Quest’ultimo nel giugno scorso ha affermato che la fiamma nel simbolo di FdI «è rimasta come segno di continuità dal Msi».

Nel dicembre 2022 Meloni aveva invece dichiarato che il partito degli ex collaborazionisti di Salò avrebbe «avuto un ruolo molto importante nel combattere la violenza politica e il terrorismo».

È questo il punto centrale dello scontro con Paolo Bolognesi. Il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna ha affermato che, come indicano le ultime sentenze, «le radici» dell’attentato «affondano nella storia del postfascismo italiano. In quelle organizzazioni nate dal Msi negli anni cinquanta: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale». Radici che «oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di governo».

Da quel momento si è scatenata un’aggressione mediatica che, aperta dall’attacco di Meloni, si è ben guardata dall’entrare nel merito, utilizzando il collaudato metodo della delegittimazione. Così i megafoni-stampa governativi lo hanno accusato di strumentalizzazione e attacchi ingiustificati nonché di essere stato parlamentare del Pd (come se questo cancellasse la storia della sua famiglia colpita o ne dovesse censurare la parola).

L’uscita di Federico Mollicone contro la verità storica sulla strage ha chiuso il cerchio. Vediamo, con i riscontri documentali e giudiziari, quale questione ha posto Bolognesi.

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Paolo Bellini, principale imputato nell’ultimo processo di Bologna, ha affermato in aula che dal 1972 era «infiltrato – in Avanguardia Nazionale – per conto di Almirante. Lo scopo era informarsi per vedere e capire se c’erano persone facinorose e collegamenti con l’estremismo. Se si fosse arrivati al terrorismo io sarei dovuto arrivare fino a là». Il problema è che ieri Bellini «l’infiltrato» era in contatto diretto con i vertici del Msi e oggi Bellini l’imputato è condannato in appello come esecutore della strage. Insieme a lui le carte d’archivio discusse a processo hanno individuato Mario Tedeschi, senatore del Msi, come uno dei depistatori/mandanti dell’eccidio alla stazione.

Non sono solo questi i personaggi che rappresentano le radici di cui parla Bolognesi.  Carlo Maria Maggi, esponente di Ordine Nuovo, rientrò nel 1969 nel Msi seguendo il suo capo Pino Rauti. Fu membro del Comitato centrale del partito e candidato al parlamento nelle elezioni del 1972. È stato condannato per la strage di Brescia del 28 maggio 1974.

Anche Paolo Signorelli seguì Rauti e tornò nel Msi nel Comitato centrale. Vi rimase fino al 1976. È stato condannato per banda armata e assolto per la strage di Bologna e per gli omicidi dei giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio. Suo nipote, omonimo del nonno, era fino a poche settimane fa il capo ufficio-stampa del ministro Francesco Lollobrigida (cognato della premier e marito della capo-organizzazione di Fratelli d’Italia, Arianna Meloni). Signorelli junior si è dimesso dopo il caso delle telefonate con Fabrizio Piscitelli (ultras e narcotrafficante ucciso il 7 agosto 2019) insieme al quale si produceva in insulti antisemiti.

Carlo Cicuttini era il segretario della sezione del Msi di Manzano al momento della partecipazione alla strage di Peteano che uccise tre carabinieri. Cicuttini li aveva attirati sul luogo dell’attentato con una telefonata alla locale caserma. Il Msi, lo mostrano le carte dell’inchiesta del giudice Casson, raccolse 32.000 dollari per farlo operare alla corde vocali nel timore che venisse identificato dalla voce registrata dai militari. Almirante, rinviato a giudizio per favoreggiamento, evitò il processo avvalendosi di un’amnistia prima dell’inizio del dibattimento.

Dal Msi si staccarono figure chiave della stagione eversiva come Stefano Delle Chiaie (fondatore di AN) o Franco Freda e Delfo Zorzi entrambi processati per la strage di piazza Fontana. Il primo riconosciuto capo del gruppo ordinovista veneto responsabile del massacro del 12 dicembre 1969, il secondo assolto.

Giuseppe Dimitri (scomparso in un tragico incidente) fu dirigente di AN e Terza Posizione (TP). responsabile di un deposito di armi a Roma condiviso con i NAR di Fioravanti e Mambro fu condannato per banda armata. Divenne consulente del ministro per l’agricoltura Gianni Alemanno.

L’ex dirigente di TP, Marcello De Angelis (condannato per banda armata, poi parlamentare di Alleanza nazionale) l’anno scorso fu protagonista di un’uscita pubblica sulla strage di Bologna che gli costò il posto di portavoce della Regione Lazio guidata da Rocca.
Il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha chiamato come suo capo della segreteria tecnica Emanuele Merlino, figlio di quel Mario Merlino protagonista delle inchieste per la strage di piazza Fontana, poi assolto definitivamente.

La foto della presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo con il terrorista di Bologna Luigi Ciavardini è ormai nota. Sicuramente più della partecipazione, nel gennaio 2007, dell’allora senatore La Russa ai funerali del terrorista Nico Azzi che il 7 aprile 1973 tentò una strage sul treno Torino-Roma e fornì le bombe a mano che cinque giorni dopo uccisero il poliziotto Antonio Marino durante un corteo del Msi a Milano. Sono queste le «radici che non gelano» che Bolognesi ha indicato. E con queste si devono fare i conti.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella incriminava 3 neofascisti per la strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Due giorni una bomba alla stazione di Bologna con 85 morti

Il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella chiudeva la sentenza-ordinanza sulla strage neofascista del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Nella conferenza stampa del giorno dopo lo stesso Vella dava notizia del rinvio a giudizio di tre imputati. Si trattava di Mario Tuti, Piero Melentacchi e Luciano Franci membri del gruppo toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario, una delle sigle dell’eversione nera nate all’indomani dello scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo del novembre 1973.
Nel 1992 tutti saranno definitivamente assolti dalla Cassazione. Ancora oggi, per lo Stato italiano, non esiste colpevole.
Fino al 1 agosto 1980 quella era, nell’immaginario collettivo, la strage di Bologna poiché aveva colpito un treno nella provincia della città. Così la chiamò Pasolini nella sua celebre invettiva civile «Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974».

Meno di 48 ore dopo l’incriminazione dei neofascisti per l’Italicus, la strage di Bologna avrebbe cambiato luogo di riferimento spostandosi nel cuore della città; facendo 85 morti e 200 feriti; scrivendo un nuovo tragico capitolo del romanzo nero della Repubblica. Per il massacro del 2 agosto 1980 la Corte d’Assise d’Appello ha confermato, nel luglio scorso, la condanna di Paolo Bellini (neofascista, ’ndranghetista e collaboratore del Ros dei carabinieri), Piergiorgio Segatel (all’epoca capitano dei carabinieri) e Domenico Catracchia ovvero l’amministratore del condominio di via Gradoli a Roma (di proprietà di tre società riconducibili al Sisde) dove nel 1981 i Nar installarono una loro base.

I tre si aggiungono ai neofascisti Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini (condannati definitivamente), a Gilberto Cavallini (condannato in appello) e ai mandanti/depistatori individuati in Licio Gelli e Umberto Ortolani (capi della P2); Federico Umberto D’Amato (capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno), Mario Tedeschi (senatore del Msi e direttore de Il Borghese).

A cinquant’anni di distanza la strage dell’Italicus racconta molto di ciò che avvenne prima e dopo quel 4 agosto 1974. Anticipa lo stretto legame tra manovalanza neofascista e P2 (con quest’ultima che «svolse opera – scrive la Commissione presieduta da Tina Anselmi – di istigazione agli attentati e di finanziamento dei gruppi della destra extraparlamentare toscana»); narra dei depistaggi eseguiti da alti esponenti degli apparati di forza e dei servizi segreti; rievoca l’apposizione del segreto di Stato da parte di due Presidenti del Consiglio (Spadolini nel 1982 e Craxi nel 1986) di fronte alle richieste di documenti da parte della magistratura; ricorda che la strage fu preceduta (come quella di piazza Fontana) da una serie di attentati sulle linee ferroviarie (29 gennaio Silvi Marina, nei pressi di Pescara; 9 febbraio treno Taranto-Siracusa; 21 aprile Vaiano, provincia di Pisa); che seguì la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) e che venne seguita dall’attentato a Terontola (9 gennaio 1975).

Rammenta, infine, di un falso propalato dal padre della destra di ieri e di oggi: Giorgio Almirante. Il segretario del Msi (all’epoca alle prese con la richiesta di autorizzazione a procedere approvata dal Parlamento contro di lui per ricostituzione del partito fascista) annunciò al capo dell’Ispettorato Antiterrorismo Emilio Santillo l’attentato dell’Italicus 19 giorni prima della strage, accusandone i gruppi della sinistra extraparlamentare: «Siamo stati in grado – disse Almirante alla Camera il 5 agosto 1974 – di comunicare il mattino del 17 luglio al dottor Santillo che un attentato era in via di preparazione alla stazione Tiburtina. L’informazione era inesatta solo per un particolare di notevole importanza, perché si parlava del Palatino, il treno Roma-Parigi, e non dell’Italicus. Io fui in condizioni di mandare un biglietto al dottor Santillo e di farlo seguire da una telefonata. Gli mandai un biglietto nel quale erano indicati i nomi dei presunti organizzatori dell’attentato. So per certo che quei tre indiziati o presunti indiziati o presunti colpevoli o presunti organizzatori appartengono a gruppi extraparlamentari di sinistra operanti in Roma e più esattamente all’Università di Roma».

A pulire gli occhi da queste falsità ci penserà la «Piazza bella piazza» cantata da Claudio Lolli a Bologna il giorno dei funerali delle vittime, quando le alte cariche democristiane dello Stato saranno sonoramente contestate da una massa di popolo consapevole della vera matrice dell’eccidio.

Dopo mezzo secolo di impunità resta anche un’ultima evocativa immagine: quella del ferroviere Silver Sirotti che, in servizio sull’Italicus, tentò di spegnere le fiamme dell’incendio per salvare le vite dei passeggeri e morì travolto dal fuoco. Vittima aggiunta della strage come era stato nel dicembre 1969 un altro ferroviere, Giuseppe Pinelli, morto innocente nella Questura di Milano all’alba del primo capitolo del romanzo nero della Repubblica.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Nel 50/o anniversario della strage davanti alla Questura di Milano del 17 maggio 1973, quattro morti e 45 feriti, erano usciti lo scorso anno due volumi: Un castello di morti per un colpo di stato di Francesco Lisanti (edizioni La Vita Felice) e L’estate del golpe di Stefania Limiti (Chiarelettere).

NEL PRIMO si era puntualmente ricostruita l’intera vicenda scadenzata sulle inchieste giudiziarie e i processi, concludendo con le parole con cui la Corte di Cassazione nel 2005 affermava come «indubitabile» che «l’attentato» fosse «stato voluto, organizzato e realizzato da Ordine Nuovo», ritenendo Gianfranco Bertoli niente più che uno strumento, che nascose «i nomi dei mandanti per timore e per vincoli di omertà». Una verità storica, dato che oltre alla condanna all’ergastolo dello stesso Bertoli, arrestato in flagrante, nei processi successivi non si erano accertate altre responsabilità. Nel libro di Stefania Limiti, si era, invece, cercato più analiticamente di inquadrare la strage nel contesto dei tentativi di sovvertimento delle istituzioni democratiche. Identico il giudizio su Bertoli.

ORA È LA VOLTA de Il bombarolo. La strage dimenticata di via Fatebenefratelli di Paolo Morando e Massimo Pisa (Feltrinelli, pp. 384, euro 22), teso a indagare in profondità la figura di Gianfranco Bertoli ripercorrendo le sue vicissitudini carcerarie, mettendo allo scoperto i rapporti epistolari e personali, analizzando i suoi scritti, fino alla morte avvenuta il 28 novembre 2000, a sessantasette anni, a Livorno, da semilibero. La domanda che i due autori alla fine si sono posti è relativa alla sua identità: fascista o anarchico? Anarchico come lui intese proclamarsi fino alla fine dei suoi giorni.

Le testimonianze provenienti dall’ambiente neofascista che hanno attestato l’appartenenza di Bertoli all’estrema destra sono state numerosissime, da Vincenzo Vinciguerra (condannato per la strage del 31 maggio 1972 di tre carabinieri a Peteano), che ha sostenuto che fosse nulla più che un infiltrato nei gruppi anarchici, a Martino Siciliano, ordinovista e amico di infanzia di Delfo Zorzi, che lo ha identificato come «un uomo di Carlo Maria Maggi», il «reggente» di Ordine Nuovo nel Triveneto (condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia), a Piero Battiston de La Fenice di Milano, a Ettore Malcangi. Giovanni Ferrorelli delle Sam (Squadre d’azione Mussolini) ricordò anche che Franco Freda nel carcere di San Vittore «ci disse che bisognava portare rispetto a Bertoli perché era un uomo da considerare di destra». Per tutti era sempre stato «un buon camerata».

CARLO DIGILIO, l’armiere di Ordine Nuovo, confessò addirittura di aver addestrato Bertoli a Verona un paio di mesi prima di compere l’attentato in via Fatebenefratelli, insieme a altri due ordinovisti, Francesco Neami e Giorgio Boffelli, un mercenario, amico di vecchia data dello stesso Bertoli. Un racconto che non venne ritenuto pienamente attendibile dai giudici d’appello e della Corte di Cassazione, che assolse gli imputati seppur per insufficienza di prove.

Ma Gianfranco Bertoli fu soprattutto una pedina in mano ai servizi, certamente nel Sifar (Servizio informazioni difesa forze armate), a partire dal 22 novembre 1954 dove operò anche come reclutatore, poi nel Sid (Servizio informazioni difesa) almeno fino al giugno 1971, nome in codice «Negro», sigla IR031 (così nel suo fascicolo), come testimoniato dall’ammiraglio Mario Casardi al vertice del Sid nel 1974.

Che Bertoli si sia in carcere avvicinato all’ideologia anarchica, come supposto dagli autori, rimane, a tutt’oggi, possibile quanto un fatto secondario rispetto agli avvenimenti di cui è stato protagonista, data la loro valenza politica. Un ben strano anarchico che, in punto di morte, volle funerali religiosi, confessarsi, ricevere la comunione e avere il crocefisso nella bara.

* Fonte/autore: Saverio Ferrari, il manifesto

BRESCIA 1974 – 2024. Due imputati ancora sotto processo. Nel 2017 la sentenza definitiva contro Ordine Nuovo

 

Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina Calzari, Alberto Trebeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda. Sono i nomi delle otto vittime della strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio del 1974, un martedì, durante un comizio antifascista organizzato dal sindacato. Poi ci sono anche cento feriti. E sette inchieste giudiziarie diverse, per un totale di sedici processi. Più altri due, che cominceranno nei prossimi giorni. Trentadue nel complesso gli imputati. E una sola sentenza passata in giudicato, con la condanna all’ergastolo di un medico veneziano, Carlo Maria Maggi, leader di Ordine Nuovo nel nord-est, morto ai domiciliari nel 2018, e di Maurizio Tramonte, spia del Sid, alias «Fonte Tritone».

LA STORIA, raccolta in un fascicolo da un milione di pagine scritto dai pm Francesco Piantoni e Roberto Di Martino, è quella di un intreccio complesso ma saldissimo tra destra eversiva e pezzi dello stato, forze dell’ordine, servizi segreti, apparati della Nato definiti «deviati». Tutti insieme con l’obiettivo di minare la democrazia italiana, frenare la crescita del movimento operaio e favorire una svolta autoritaria: è la strategia della tensione, materia che gli storici hanno ben chiara da decenni ma che a livello giudiziario si è sempre persa in un labirinto indagini fatte male o troppo tardi, silenzi e depistaggi. Sulla strage di Brescia la matrice neofascista è stata fissata dalla sentenza Conforti emessa dalla Corte d’assise d’appello (bis) di Milano il 22 luglio del 2015 e poi definitivamente validata dalla Cassazione il 20 giugno del 2017.

GIOVEDÌ, a Brescia, comincerà il processo contro Marco Toffaloni, 66 anni, residente in Svizzera dove si fa chiamare Franco Maria Muller. All’epoca della strage aveva 16 anni, frequentava il liceo a Verona ed era soprannominato «Tomaten» perché era solito arrossire. Nella primavera del 2011, l’ex ordinovista padovano Giampaolo Stimamiglio riferì ai magistrati bresciani una conversazione avuta tempo prima con Toffaloni. «Anche a Brescia gh’ero mi». Anche a Brescia ero io. Così gli avrebbe detto. Da qui è partita l’ultima inchiesta, che adesso approda davanti al giudice del tribunale dei minori, perché Toffaloni, nel 1974, ancora non era maggiorenne. Secondo gli investigatori, tra le altre cose, c’è una foto che lo ritrare in piazza della Loggia subito dopo l’esplosione.

IL 18 GIUGNO, invece, in corte d’assise sarà la volta del processo a Roberto Zorzi, 68 anni, residente a Seattle dove gestisce un allevamento di dobermann chiamato «il Littorio». La procura è convinta che sia stato lui in persona a piazzare la bomba in un cestino sul colonnato della piazza. C’è una testimone che fa il suo nome, Ombretta Giacomazzi, che negli anni ’70 frequentava molto da vicino gli ambienti dell’eversione nera. Stando a quanto ha raccontato agli inquirenti, il 19 maggio del 1974, nel giorno del funerale del suo fidanzato Silvio Ferrari (morto pochi giorni prima per l’esplosione di una bomba che stava trasportando in Vespa), Toffaloni e Zorzi erano a Brescia. Sarebbero stati loro a scrivere un volantino che in quei giorni girava in città: «Comunichiamo alla popolazione che entro il mese di maggio gravi attentati saranno posti in azione». Dieci giorni dopo una bomba esplose davvero.

SE ANCORA LA GIUSTIZIA non ha completato il suo percorso, la strage di Brescia certo non si può definire un vero e proprio mistero. Lo dice Arnaldo Trebeschi, 89 anni, che quel 28 maggio era in piazza della Loggia, dove vide morire suo fratello Alberto e sua cognata Clementina Calzari. «È vero che sono ancora in corso dei processi, ma la verità c’è – sostiene -. Ci sono i nomi di due dei responsabili: Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, anch’essi della destra eversiva. La firma certa della strage è quella neofascista». Oggi, per il cinquantesimo anniversario, a Brescia ci sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ci sarà una messa, ci saranno otto rintocchi di campana, ci sarà un minuto di silenzio. Ci sarà la memoria là dove negli ultimi anni non sono mancate le provocazioni. Nel 2022, infatti, la sezione giovanile locale di Fratelli d’Italia ha scelto di intitolare il proprio circolo a Pino Rauti. Che per la strage fu imputato e assolto. Restano le parole della Cassazione che nel 2017 lo ha definito «uno degli esponenti di punta dell’estrema destra italiana dell’epoca, con il quale sia Tramonte che Maggi risultavano collegati».

* Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto

Questa è una storia sbagliata che inizia cinquant’anni fa (7 aprile 1973, dopo domai l’anniversario), si consuma in una settimana (12 aprile 1973), riemerge nel gennaio 2007 e arriva sullo scranno più alto del Senato

 

Questa è una storia sbagliata che inizia cinquant’anni fa (7 aprile 1973, dopo domai l’anniversario), si consuma in una settimana (12 aprile 1973), riemerge nel gennaio 2007 e arriva sullo scranno più alto del Senato. Una storia conosciuta ma da ripassare.

Il protagonista si chiama Nico Azzi, iscritto al Msi fin dagli anni Sessanta poi tra i capi fascisti milanesi nella tristemente nota piazza San Babila ed infine approdato sulle sponde de «La Fenice» gruppo legato ad Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti (padre dell’attuale sottosegretaria alla Difesa) e responsabile della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Il 7 aprile 1973 Nico Azzi sale sul treno Torino-Genova-Roma camuffato da militante di sinistra, mostrandosi platealmente ai passeggeri con una copia di «Lotta Continua». Poi entra nel bagno e inizia ad armeggiare con una bomba che intende far esplodere facendo ricadere la responsabilità sui «rossi», rilanciando così la matrice artatamente costruita per la strage di Piazza Fontana e per gli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma. L’ordigno invece gli esplode tra le mani e lo ferisce. Il bombarolo viene arrestato e identificato come fascista.

Il 12 aprile 1973 il Msi organizza a Milano un corteo non autorizzato con la presenza di Ciccio Franco e i suoi «boia chi molla» di Reggio Calabria. La manifestazione marcia verso la Prefettura, «rea» di aver vietato il raduno, ed è guidata dai «federali» locali: Franco Maria Servello, Franco Petronio e Ignazio Benito La Russa.

Finisce con scontri tra polizia e neofascisti culminati con il lancio di bombe a mano (ad opera di Vittorio Loi e Maurizio Murelli) che uccidono l’agente di Ps Antonio Marino. A fornire le bombe Srcm, come ammetterà egli stesso, era stato proprio Nico Azzi. Per le strade degli scontri vengono sparse delle tessere del Pci al fine di accreditare quella che «Il Secolo d’Italia» indicherà come la pista degli infiltrati comunisti nel corteo.

I giorni dell’aprile 1973 disegnano così un inquietante parallelo con quelli di Piazza Fontana secondo lo schema che prevedeva la strage di civili (da attribuire all’estrema sinistra) e una successiva manifestazione del Msi con l’obiettivo della proclamazione di misure emergenziali di ordine pubblico per sospendere la Costituzione.

Lo stesso schema pensato per il raduno del Msi del 14 dicembre 1969 a Roma (vietato dal ministero dell’Interno su richiesta di Ugo La Malfa) all’indomani dell’eccidio di Milano.

Scrive Vincenzo Vinciguerra, ex ordinovista autore reoconfesso della strage di Peteano del 31 maggio 1972: «Il collegamento fra la strage mancata sul treno del 7 aprile e gli incidenti del 12 aprile, lo stabilì con estrema chiarezza proprio Nico Azzi il 26 aprile 1973, quando confessò di essere stato lui a procurare le bombe a mano che poi vennero impiegate in piazza quel tragico giorno. Era la prova di un piano preordinato che includeva due eventi: il massacro sul treno ed i morti sulle strade».

Quelli del 1973 sono mesi in cui per la Repubblica i pericoli eversivi provenienti dall’estrema destra (sociale, economica e militare prima ancora che politica) sono denunciati tanto da Aldo Moro: «Se non saremo capaci di tenere saldamente in mano il Paese con gli strumenti della democrazia – affermò subito dopo l’assassinio dell’agente Marino – l’iniziativa passerà nelle mani di chi crede soltanto nella violenza. E la usa», quanto da Pietro Nenni: «Nei prossimi cento giorni si decideranno le sorti del Paese. Se il centro-sinistra fallisse l’alternativa sarebbe la destra e non dalla svolta molle ma dalla svolta dura».

Il partito di Almirante (su cui pendeva una richiesta di autorizzazione a procedere per ricostituzione del partito fascista presentata dal Procuratore generale Luigi Bianchi D’Espinosa) cercherà goffamente di dissociarsi dai fatti di Milano sostenendo l’estraneità dei due autori dell’omicidio al partito. Tuttavia, al momento dell’arresto, Murelli ha in tasca la tessera del Msi mentre Loi ha già militato per anni nella Giovane Italia. I due sono condannati a 18 e 19 anni di carcere.

La Camera dei deputati nega l’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari Servello e Petronio (poi clamorosamente assolti nel 1978 dal Tribunale di Milano) consentendo, di fatto, al Msi di evitare una messa in stato d’accusa per ricostituzione del partito fascista.

Il segretario provinciale del Fronte della Gioventù Ignazio La Russa, pur indicato come uno dei responsabili della piazza, se la cava senza danni diversamente da suo fratello Romano (oggi assessore alla sicurezza della Regione Lombardia) arrestato insieme ad Alberto Stabilini.

Nel settembre 2022 al funerale di Stabilini proprio Romano La Russa è immortalato nel «saluto romano» al vecchio camerata. Nico Azzi venne condannato a due anni di carcere. Morì il 10 gennaio 2007.

A rendere omaggio alle sue esequie (tra braccia tese e grida di «presente!») giunse Ignazio La Russa: ex dirigente dell’epoca e, cinquant’anni dopo, Presidente del Senato. Uno «sgrammaticato istituzionale» dice Giorgia Meloni per le menzognere dichiarazioni fatte in difesa della premier su Via Rasella.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

 

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Sulle tracce di un uomo senza volto e senza storia, protagonista della destra internazionale

 

Il 9 marzo scorso, in Francia, è morto un uomo che per tutta la vita ha cercato di non farsi trovare. Aveva 95 anni, era nato a Ploubezre, in Bretagna, e il suo nome era Yves Guillou. Nel ricovero per anziani di Le Revest-les-Eaux, il villaggio alle porte di Tolone dove ha trascorso gli ultimi cinque anni della sua esistenza, tutti lo ricordano come un signore sorridente e pacifico, la cui indole taciturna era certo da attribuirsi al morbo di Alzheimer di cui soffriva da tempo. Nessuno, a Le Revest-les-Eaux, poteva immaginare che quel vecchino dai modi gentili, con i capelli argentati e lo sguardo un po’ vacuo, avesse qualcosa di terribilmente inquietante da nascondere.

Portogallo
Era il 22 maggio 1974 quando un plotone di fucilieri di marina al comando del tenente Matos Moniz fece irruzione al civico 13 di Rua das Praças, nel centro di Lisbona. In Portogallo era scoppiata la rivoluzione dei Garofani, e il Movimento das Forças Armadas stava dando la caccia a tutti i collaboratori del vecchio regime neofascista. Al 13 di Rua das Praças – secondo alcune segnalazioni – aveva sede una finta agenzia stampa che agiva sotto copertura per contro della Pide, la polizia politica di Salazar, e dunque bisognava andare a darci un’occhiata. Il nome dell’organizzazione era «Aginter Press» e i suoi uffici consistevano in quattro stanzoni stracolmi di carte e schedari. Al tenente Matos Moniz bastarono pochi attimi per intuire che ad «Aginter Press» ci si occupava di tutto tranne che di giornalismo: c’erano macchinari per la fabbricazione di documenti falsi e microfilm, manuali di controguerriglia, lunghi schedari con nomi di militanti di estrema destra, appunti sulla guerra psicologica, sulla sovversione e sui colpi di Stato. Uno dei faldoni conteneva un breve foglio dattiloscritto, «La nostra azione politica». Il testo, in francese, recitava così: «Noi pensiamo che la prima parte della nostra azione politica debba essere quella di favorire l’installazione del caos in tutte le strutture del regime. Questo porterà a una situazione di forte tensione politica, di paura nel mondo industriale, di antipatia verso il governo e verso tutti i partiti. In questa prospettiva deve essere pronto un organismo efficace capace di riunire attorno a sé gli scontenti di ogni classe sociale: una vasta massa per fare la nostra rivoluzione». I militari portoghesi non potevano saperlo, ma il nome di quella strana agenzia era già comparso cinque anni prima in un appunto redatto dai servizi segreti italiani all’indomani della strage di piazza Fontana, il 17 dicembre 1969: «La mente organizzatrice [degli attentati] – vi si leggeva – sarebbe tale M. Guérin-Sérac, cittadino tedesco, il quale risiede a Lisbona ove dirige l’Agenzia Ager Interpress». Il vero nome di Guérin-Sérac – che aveva cittadinanza francese e non tedesca, essendo nato a Ploubezre, in Bretagna, nel 1926 – era Yves Guillou.

Banca dell’Agricoltura
Cosa fosse esattamente «Aginter Press» probabilmente non lo scopriremo mai. Grazie alle ricerche dei giudice Guido Salvini, che negli anni Novanta condusse l’ultima inchiesta sull’eccidio della Banca Nazionale dell’Agricoltura, sappiamo che la finta agenzia stampa di Rua das Praças fu fondata nel settembre 1966 da Yves Guillou e dal suo braccio destro Robert Leroy, un ex membro della Legione Wallonien delle Waffen SS. Guillou aveva all’epoca quarant’anni e si proclamava un paladino dell’anticomunismo più intransigente. Giovane ufficiale dell’undicesimo Régiment parachutiste de choc, aveva combattuto in Corea, Indocina e Algeria. Nel 1962 aveva aderito all’Oas, l’organizzazione terroristico-militare che si opponeva alla decolonizzazione del Nordafrica francese. Poi, dopo la vittoria del Fln, aveva trovato rifugio nel Portogallo di Salazar «per continuare la lotta ed estenderla alla sua vera dimensione, che è quella del pianeta», come avrebbe specificato in uno dei suoi rari interventi pubblici. I mezzi, ovviamente, non sarebbero stati quelli di Gandhi.

In Italia
A cominciare dalla metà degli anni Sessanta, Guillou e Leroy iniziarono a stringere legami operativi con i maggiori gruppi eversivi del neofascismo mondiale. In Italia i principali contatti furono con Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale, i cui militanti venivano invitati in Portogallo per addestrarsi all’uso delle armi e degli esplosivi. È certo che tra il 30 gennaio e l’1 febbraio del 1968 Yves Guillou ebbe un lungo incontro con Pino Rauti, mentre i rapporti con Stefano Delle Chiaie si sarebbero prolungati per buona parte degli anni Settanta. Così, nel giro di poco tempo, «Aginter Press» divenne la centrale operativa della cosiddetta «Internazionale nera», le cui spire si estendevano dall’Europa occidentale al Sudafrica dell’Apartheid.

Africa
Nel Terzo Mondo gli uomini di Aginter si misero al servizio dei movimenti anti-decolonizzazione, organizzando attentati e operazioni di controguerriglia in Algeria, Repubblica del Congo, Tanzania, Angola e Costarica. Sarebbero stati loro – secondo gli inquirenti italiani – ad assassinare nel 1969 il leader del Fronte di Liberazione del Mozambico Eduardo Mondlane, «reo» di essersi ribellato alle autorità portoghesi. Ma la vera specialità dei «lisbonesi» era soprattutto l’infiltrazione: sul finire degli anni Sessanta, dopo essersi spacciato per un reporter maoista, l’ex Waffen SS Robert Leroy riuscirà a intrufolarsi in diversi gruppi dell’estrema sinistra italiana, spingendoli su posizioni eversive e offrendo loro armi e tritolo. «A nostro avviso – si legge ancora nel documento La nostra azione politica -, la prima azione che dobbiamo lanciare è la distruzione delle strutture dello Stato sotto la copertura dell’azione dei comunisti e dei filocinesi. Ciò creerà un sentimento di antipatia verso coloro che minacciano la pace di ciascuno e della nazione». È lo schema-base di quella che sarà chiamata la strategia della tensione: organizzare attentati, farne cadere la responsabilità sui gruppi di sinistra e innescare così la reazione repressiva dello Stato. Di lì a poco ci sarà la strage fascista del 12 dicembre – e il capro espiatorio, non a caso, saranno gli anarchici.

Ha dichiarato alcuni anni fa l’ex terrorista nero Vincenzo Vinciguerra, già militante di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, e autore, nel 1972, dell’attentato di Peteano: «Gli agenti di Guillou parteciparono direttamente ai fatti italiani, compresa l’operazione di piazza Fontana». Vinciguerra e Guillou si sono conosciuti a Madrid nel 1974. Erano entrambi latitanti: il primo fuggiva da un mandato di cattura della magistratura italiana, il secondo aveva dovuto abbandonare precipitosamente Lisbona dopo il trionfo della rivoluzione dei Garofani. «Ideologicamente, Guillou era un fondamentalista cattolico – racconterà Vinciguerra -. Era un uomo molto pericoloso, molto affascinante e molto intelligente. Alle sue spalle c’erano senza dubbio i servizi segreti americani: l’obiettivo era sconfiggere i movimenti operai e stabilizzare l’Europa in senso anticomunista».

Volantini
Quale sia stato l’esatto ruolo di «Aginter Press» nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura non è dato a sapersi. Di certo, oltre a quella celebre velina del 17 dicembre, c’è il fatto che vicino al luogo dell’eccidio furono rinvenuti alcuni finti volantini ornati di bandiere rosse, con la scritta: «Autunno 1969, l’inizio di una lotta prolungata». Spiegherà l’allora sostituto procuratore Ugo Paolillo, che fu il primo magistrato a indagare sulla strage: «Accertammo che la carta veniva dalla Svizzera e che i manifesti erano ricollegabili all’Oas». E poi: «Era una firma che riconduceva a Guérin-Sérac, il responsabile militare dell’Aginter Press. Proprio di Sérac mi parlò una persona, forse collegata ai servizi segreti, che chiese di vedermi a poche ore dalla strage. Non fidandomi registrai il colloquio. Purtroppo quel nastro è andato perduto».

Nella primavera del 1974, mentre gli uomini del comandante Matos Moniz facevano irruzione a Rua das Praças, i reduci di «Aginter Press» avevano già trovato rifugio nella Spagna franchista. Da lì, grazie anche al supporto di Vinciguerra e di altri «fuoriusciti» italiani, organizzarono numerose operazioni di «controguerriglia» in Portogallo e nelle isole Azzorre, nel vano tentativo di rovesciare il nuovo governo antifascista. L’impresa più clamorosa risale però all’estate del 1975, quando Guillou e i suoi luogotenenti idearono una serie di attentati dinamitardi contro le sedi delle ambasciate algerine di Roma, Bonn, Parigi e Londra. Le azioni furono tutte rivendicate da un’organizzazione inesistente, i «Soldats de l’Opposition Algérienne», ma la cosa che più spiccò all’occhio fu che per confezionare l’ordigno deposto in Germania erano state utilizzate nove cartucce di esplosivo militare C4, prodotto negli Stati Uniti e in dotazione alle forze Nato.

Cile
Fino agli anni Novanta l’unica immagine nota di Yves Guillou era una vecchia istantanea in bianco e nero, peraltro ripresa di spalle. Il «grande vecchio» della strategia della tensione era un uomo senza volto e senza storia. Nessuno sapeva che fine avesse fatto: dopo la morte di Francisco Franco, nel novembre del 1975, si era probabilmente trasferito nel Cile di Pinochet, ponendosi al servizio di nuovi assassini e nuovi macellai. Dopodiché, era letteralmente scomparso nel nulla. Tra il 1999 e il 2010, nell’ambito delle indagini sulla strage di piazza della Loggia, la procura di Brescia produrrà sul suo conto due distinte rogatorie indirizzate alle autorità francesi e spagnole. Per tutta risposta, oltre a una recente fotografia in formato tessera dell’ormai anziano ex militare, i magistrati lombardi riceveranno un lungo elenco di presunti indirizzi di residenza sparsi tra le isole Canarie, Madrid, Siviglia e la Costa Azzurra – tutti immancabilmente deserti. «Se ne conclude – chiosa l’ultima relazione del Fiscalía Provincial di Madrid – che Yves Guillou si trova in luogo sconosciuto».

Com’è possibile che le istituzioni di due paesi europei, dietro precisa richiesta della magistratura italiana, non siano state in grado di individuare un cittadino residente sul proprio territorio è un’altra questione che resterà probabilmente insoluta. Ciò che sappiamo con certezza è che il 12 marzo scorso, su un sito internet francese, è comparso il seguente annuncio: «Siamo addolorati di informarvi della morte di Monsieur Yves Guillou, avvenuta a Le Revest-les-Eaux all’età di 95 anni». È da qui che siamo partiti.

Per raggiungere Le Revest-les-Eaux bisogna inerpicarsi lungo una strada tortuosa fatta di infiniti tornanti. Il villaggio sorge arroccato sul cucuzzolo di una collina, ai piedi di un’antica torre saracena del XIII secolo. Gli abitanti sono poco più di tremila, per la maggior parte molto anziani e molto benestanti. È in questo angolo di paradiso che il fondatore di «Aginter Press» si è spento con serenità in un tiepido giorno di fine inverno. Non è stato difficile, presentandosi agli impiegati comunali come vecchi amici di famiglia, scoprire che Yves Guillou ha avuto come ultima residenza la locale maison de retraite, una piccola casa di riposo dalla facciata bianca e piena di vetrate. Era malato di Alzheimer – ci hanno detto – e perciò parlava molto poco. «Il povero signor Yves è arrivato qui nel 2017 – racconta in un inglese strascicato la direttrice dell’istituto -. Di rapporti con la famiglia non ne aveva ormai da anni. Però gli restavano molti amici, ed era gente che gli doveva essere parecchio affezionata. Venivano a trovarlo praticamente ogni giorno, nonostante il fatto che avere un dialogo con lui fosse quasi impossibile. Era un tipo proprio speciale, il nostro signor Yves».

Quanto il «signor Yves» fosse effettivamente «speciale» la direttrice della maison de retraite non può nemmeno figurarselo. I misteriosi amici che venivano a chiacchierarci con tanta assiduità in barba all’Alzheimer, invece, è probabile che ne sapessero qualcosa in più. Dopo qualche insistenza, sempre giocando la carta dei vecchi legami famigliari, siamo riusciti a ottenere il contatto di uno di loro. Lo chiameremo Monsieur B., ha circa 65 anni e fa l’imprenditore in una cittadina della Côte d’Azur. La storia che ci ha raccontato è la seguente: lui e Yves Guillou si sono conosciuti circa un decennio fa a Villefranche-sur-Mer, una tranquilla stazione balneare alle porte di Nizza. All’epoca l’ex ufficiale divideva un appartamento con la propria compagna e Monsieur B. era suo vicino di casa. Nel 2016 la fiancée di Guillou morì all’improvviso e i figli di lei, che evidentemente non lo avevano mai avuto in simpatia, sbatterono il vecchio militare in mezzo a una strada. Così Monsieur B. accompagnò il suo anziano vicino a Le Revest-les-Eaux e lo aiutò a sistemarsi nella piccola casa di riposo in cima alla collina. «Lo andava a trovare spesso?», gli abbiamo chiesto. «Certo, tutte le settimane». «E si è mai fatto raccontare la storia della sua vita?» «Oh no, di quello il signor Guillou non parlava proprio mai – si è affrettato a rispondere Monsieur B. -. So che è stato militare in Corea e Algeria, e credo che abbia anche avuto dei problemi legali con le autorità francesi. Ma di cosa abbia fatto in seguito, diciamo tra il 1960 e il 2010, non ne ho la benché minima idea. È probabile che a Villefranche-sur-Mer fosse conservato qualche documento a riguardo, ma quando hanno sgomberato l’appartamento i figli della signora hanno gettato tutto nell’immondizia. Sapete: è gente che fa uso di droga…».

Non farsi trovare, in un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, è qualcosa di assai complicato. O forse basta avere gli amici giusti, specie se il tuo silenzio fa ormai più comodo agli altri che a te. Yves Guillou da Ploubezre, che ha trascorso una vita al servizio del potere, facendo assassinare innocenti e cercando di riportare indietro le lancette della storia, alla fine è riuscito nel suo intento. Oggi lo abbiamo trovato, ma quello che avrebbe potuto dire non lo dirà mai più.

 

* Fonte/autore: Andrea Sceresini, il manifesto

 

ph by Par Gilbert Dréan — Travail personnel, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=120080403

L’ultima inchiesta sulla strage fascista di Brescia del 28 maggio 1974 ha condotto gli inquirenti sulla soglia d’ingresso di Palazzo Carli a Verona, sede del comando Nato. Li ha portati lì un testimone all’epoca interno agli ambienti di Ordine Nuovo (On), il gruppo fondato da Pino Rauti responsabile dell’eccidio di Piazza Fontana come di quello a Piazza della Loggia.

Per raccontare la storia delle stragi in Italia si deve partire dal «principio di realtà», crudo ma efficace, espresso dal generale Mario Arpino in commissione parlamentare stragi: «C’era una parte politica che per noi – i militari – era quasi rappresentante del nemico. Allora era così». Quella era la cornice storico-politica: la Guerra Fredda tra blocchi militari contrapposti.

In quel quadro in Italia emerse il fenomeno dello stragismo con una continuità e una violenza senza pari nell’Europa dell’epoca. Il Paese era zona di frontiera geopolitica, inserito nella Nato ma «abitato» dalla contraddizione irriducibile: la presenza del più grande partito comunista d’Occidente, fondatore della Repubblica.

I caratteri anticomunisti dell’eversione 1969-1974 indicano quanto le stragi siano «figlie» della divisione bipolare del mondo e come sia ineludibile discutere il ruolo della Nato nel nostro Paese, ovvero un’alleanza militare strumento della Guerra Fredda in funzione anti-sovietica.

Nei decenni che hanno visto il lento singhiozzare dei processi per le «stragi di Stato» sono emersi molti elementi di connessione tra gruppi neofascisti e ufficiali della Nato.

L’inchiesta del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana ha mostrato come i dirigenti di On, Carlo Digilio (che fabbricava le bombe), Sergio Minetto e Giovanni Bandoli fossero legati al capitano del comando Nato di Verona David Carret. I rapporti dei capi ordinovisti con i servizi segreti -agli atti della commissione parlamentare stragi- configurano On come gruppo inquadrato nei cosiddetti «Stati Maggiori Allargati» ovvero un ambito operativo anticomunista «misto» militari-civili delineato nel convegno dell’Istituto Pollio di Roma nel 1965 (finanziato dal ministero della Difesa) in cui venne teorizzata la strategia stragista.

Vertici delle forze armate sono stati condannati per fatti relativi alle stragi (Gianadelio Maletti, capo del controspionaggio del Sid, per favoreggiamento di Marco Pozzan e Guido Giannettini per Piazza Fontana); riconosciuti referenti dei gruppi neofascisti (il generale Giuseppe Aloia commissionò a Rauti e Giannettini l’opuscolo provocatorio «Le mani rosse sulle forze armate»); individuati come responsabili di apprestamenti militari anticomunisti (il generale Giovanni De Lorenzo con il «Piano Solo» del 1964).

La più importante figura dell’intelligence italiana Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, è indicato dalla nuova inchiesta sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 come uno dei mandanti del massacro. A lui è intitolata una sala della sede Nato di Bruxelles.
Junio Valerio Borghese per il suo «governo» aveva redatto un programma -agli atti dell’inchiesta sul golpe dell’8 dicembre 1970- che prevedeva l’aumento dell’impegno finanziario e militare dell’Italia nella Nato e una politica filo-atlantica nel Mediterraneo con le dittature di Grecia, Spagna e Portogallo.

La commissione Pike del Congresso Usa denunciò nel 1976 i finanziamenti illeciti della CIA alle attività anticomuniste in Italia. 800.000 dollari giunsero a Vito Miceli (capo del SID) e da lui ai gruppi dell’estrema destra e al Msi, come raccontò nel 1993 a «La Stampa» il missino Giulio Caradonna «I soldi del Dipartimento di Stato, che vennero attraverso il generale Miceli allora capo del Sid e quindi alta autorità della Nato, li portò Pierfrancesco Talenti direttamente ad Almirante».

Tale complessa dinamica fu sintetizzata dalla formula «strategia della tensione», per rappresentare la combinazione di due fattori: la destabilizzazione della vita civile attraverso l’uso anonimo della violenza e la stabilizzazione politica in senso reazionario come risposta alla democrazia conflittuale disegnata dalla Costituzione.

Si aggiornò il conflitto continuità/rottura che aveva già informato il carattere della transizione dell’Italia del dopoguerra. La «continuità – scrive Claudio Pavone – non è sinonimo di immobilismo», essa tende ad esprimersi come un moto dinamico e forte di fronte alle spinte innovatrici di rottura (quelle presenti nell’Italia degli anni ’43-45 e ’60-’70) per garantire il perdurare degli equilibri storici e degli assetti sociali dati. La Costituzione antifascista e non anticomunista fu il principale obiettivo di questo moto.

Nei «giorni del Quirinale» appena trascorsi è stata evocata con animosità (da stampa e politici) una guida istituzionale saldamente «atlantista». Obliando il significato di quel termine in Italia negli anni della Guerra Fredda e dimenticando che presidenti della Repubblica e del Consiglio giurano fedeltà alla Carta del 1948 dove non si menzionano alleanze militari e invece si rifiuta la guerra.

Varcando la soglia dei comandi Nato a Verona si troverà, forse, qualcuna delle prove che Pasolini non aveva quando spiegava «cos’è questo golpe». Si potrebbe dare, così, soluzione anche all’altro cruccio del poeta: «Il problema è questo: i giornalisti e i politici pur avendo delle prove, e certamente degli indizi, non fanno i nomi».

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

C’è stato un tempo in cui Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di confino di Ventotene, dirigeva la questura di Milano. In quegli uffici Guida trattenne illegalmente quello che nel 1944-45 era stato un giovane partigiano, Giuseppe Pinelli.
La guerra era finita da quasi 25 anni, ma l’ultima azione di resistenza fu compiuta da Pinelli proprio nella questura di Guida la notte del 15 dicembre 1969 quando morì precipitando dalla finestra della stanza del commissario Luigi Calabresi che lo interrogava illegalmente, con i suoi uomini, nonostante i termini del fermo di polizia fossero largamente scaduti e fosse suo diritto tornare libero a casa.

Al ferroviere anarchico i poliziotti volevano imporre un cedimento ovvero strappargli l’ammissione di una colpa inesistente: quella di essere responsabile, lui ed i suoi compagni, della strage di Piazza Fontana realizzata tre giorni prima dai neofascisti di Ordine Nuovo coadiuvati da uomini degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti dello Stato.

I poliziotti compirono un reato contro Pinelli (il fermo illegale) e gli mentirono durante l’interrogatorio con l’espediente del «saltafosso» (dicendogli che un altro anarchico da lui conosciuto, Pietro Valpreda, aveva confessato l’esecuzione del massacro).

Pinelli si oppose e con la sua resistenza rese vani gli intenti di chi si era proposto non solo di incastrare lui ed i suoi compagni ma di scrivere una storia diversa del Paese con la strage del 12 dicembre 1969 attraverso un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace; non rivendicata dagli esecutori materiali; realizzata con l’obiettivo di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica presso l’opinione pubblica per favorire un’involuzione autoritaria del nostro sistema costituzionale.

Erano gli anni, ha scritto Silvio Lanaro, in cui «il lealismo istituzionale» delle forze armate, delle classi proprietarie e delle forze politiche conservatrici «non riesce a reggere i socialisti al governo e i comunisti al 25% dei voti», anni in cui, affermerà il generale Mario Arpino in commissione stragi «per noi militari un terzo del Parlamento era il nemico». Per questo fu possibile che uomini dello Stato sostenessero e coprissero gli autori e depistassero le indagini rendendosi «doppiamente colpevoli», come ha affermato il Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella nel 50° anniversario, poiché «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia».

C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione».

La magistratura derubricherà come «malore attivo» la causa del volo nel vuoto del ferroviere e tale versione sarà incisa come verità ufficiale anche sulla targa collocata dal Comune di Milano in piazza Fontana che ricorda, con pudore omissivo, che Pinelli è «morto tragicamente». Accanto ad essa una stele rappresenta, invece, una memoria storica «altra» e reale della Milano democratica e antifascista. Lì si ricorda che Pinelli è stato «ucciso innocente».

C’è stato un tempo, infine, in cui il Parlamento, con voto quasi unanime, scelse di bocciare la mozione che proponeva il 12 dicembre come giornata in ricordo delle vittime del terrorismo e di votare al suo posto il 9 maggio (giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma). Una preferenza tanto politicamente «logica» per lo Stato quanto storicamente discutibile.

La Repubblica ha scelto di rappresentare quegli anni attraverso una narrazione autoassolutoria che racconta l’azione di un agente esterno alle istituzioni, le Brigate Rosse, che porta l’attacco al cuore dello Stato, omettendo al Paese il fatto che il fenomeno del terrorismo in Italia sia nato, molti anni prima, proprio da quel cuore. Questo Pinelli aveva capito, quella notte in quella questura. E dopo mezzo secolo, anche grazie a lui, lo sappiamo anche noi.

* Fonte: Davide Conti, il manifesto

Nella notte tra il 26 e 27 settembre del 1970, proprio nel momento di passaggio all’ora legale, una Mini minor targata Reggio Calabria, finiva sotto un camion, sul tratto autostradale Napoli-Roma, a 58 km dalla capitale. Morivano Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, giovanissimi anarchici calabresi, i primi tre reggini. Annalise Borth, tedesca, compagna di Gianni Aricò, veniva ricoverata al San Camillo a Roma, dove morirà venti giorni dopo.

Per molto tempo si parlò di un incidente e molti strani e inquietanti elementi che avrebbero dovuto portare a investigare, non furono presi in considerazione: la polizia politica (sic!) arrivò venti minuti dopo l’incidente, furono prelevati tutti i diari, block notes e documenti dei giovani anarchici e mai restituiti alle famiglie, il camion che provocò l’impatto mortale aveva i fari spenti perché non funzionanti. La procura di Roma chiuse immediatamente il caso e non se ne parlò più finché negli anni ’90 il giudice Salvini riaprì il capitolo delle stragi di Stato e, grazie alle confessioni di un pentito (tale Lauro), scoprì che a Gioia Tauro il 22 luglio del 1970 il deragliamento del Treno del Sole, dove morirono sei persone e ci furono ben 139 feriti, non era stato un incidente. Rientrava a pieno titolo nella strategia della tensione: vennero presi gli esecutori ma, come al solito, non i mandanti, come per tutte le altre stragi di quegli anni in cui i servizi segreti (è un ossimoro definirli “deviati”) hanno avuto la regia.

Questi giovani anarchici stavano portando a Roma un dossier che riguardava proprio il deragliamento del treno e, a quanto abbiamo appreso negli ultimi anni, anche alcune informazioni importanti che riguardavano Junio Valerio Borghese e il suo tentativo di golpe.

Nel mese di settembre del 1970 Angelo Casile aveva incontrato a Palermo Mauro de Mauro, pochi giorni prima che il direttore dell’Ora di Palermo fosse fatto fuori dalla mafia siciliana. Angelo riferì che gli aveva rivelato che stava indagando su un possibile colpo di Stato in Italia.

Nessuno gli credette o lo prese in considerazione, compreso il sottoscritto. Sembravano fantasie di compagni ossessionati da quello che era successo in Grecia con il golpe dei colonnelli. Così come Gianni Aricò che disse alla madre «abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia», e lo ripeté a chi scrive, sembrava ci fosse un po’ di megalomania, malgrado le continue minacce che subivano al telefono avrebbero dovuto allarmarci.

Oggi sappiamo che era tutto vero e che questi giovani anarchici del Sud sono vittime di una strage di Stato, come quella del treno fatto deragliare a Gioia Tauro, che il presidente Mattarella ha ricordato quest’anno nel cinquantesimo.

Questa storia è stata raccontata per la prima volta da Fabio Cuzzola nel 2001 (Cinque anarchici del Sud, città del sole ed.) e ristampata, con un ricco aggiornamento, oggi dalla Castelvecchi. E’ una storia che ha una rilevanza nazionale perché in quell’estate del 1970 scoppiava la rivolta di Reggio per il capoluogo, che veniva strumentalizzata dal Msi sul piano politico, ma che, come emerge dal libro di Cuzzola, vedeva costituirsi, per la prima volta, una nefasta alleanza tra ‘ndrangheta, destra eversiva, massoneria, servizi segreti, italiani e stranieri. Un’alleanza tragica per il nostro paese che ha prodotto stragi, lutti, e un arretramento del quadro politico proprio nel momento che più forti erano i movimenti per il superamento di questo modo di produzione capitalistico.

Un’alleanza che nasce sul terreno di una piccola città del profondo Sud e che dei giovani anarchici, da soli, avevano cercato di smascherare, mettendo a rischio la propria vita per un’ideale di libertà e giustizia. Andrebbero ricordati per questo nei libri di storia come ci ricordiamo di quelli che spesero la loro vita per liberarci dal nazifascismo.

* Fonte: Tonino Perna, il manifesto

Ustica

BOLOGNA. Quarant’anni di lavoro instancabile, ma anche di amarezze e di pena. Perché ricordare la strage che portò via il 27 giugno 1980 le 81 persone imbarcate sul Dc9 dell’Itavia abbattuto al largo di Ustica è doloroso, anche a distanza di tanto tempo.

Un bagno di sofferenza, e di rabbia, lo fanno tutti gli anni Riccardo, Ivano, Elisabetta e Rosalinda, i quattro figli di Giuseppe e Giulia Lachina, i due coniugi di Montegrotto, provincia di Padova, morti 40 anni fa sull’aereo di linea inabissatosi nelle acque del mare Tirreno. Stavano tornando nella loro Sicilia, come facevano ogni anno.

Parla di «rabbia» il figlio Riccardo, rabbia «per i depistaggi che ci sono stati, per la disinformazione e per le coperture subito sono scattate per nascondere la verità».

Chiede «rispetto per tutti quei poveri morti», il fratello Ivano, che oggi ha 66 anni e che domandò di persona al Presidente della Repubblica Cossiga se non fosse sconvolto dal silenzio dello Stato su Ustica.

Un dramma che in famiglia ha segnato le generazioni, con la figlia di Elisabetta che, una volta compresi i fatti, su un aereo non ci hai mai voluto mettere piede. «Anche lei è una figlia di Ustica», ha detto anni fa la madre.

«Ma io la speranza non la perdo, non voglio perderla», dice Giorgio Gjylapian, 61 anni, avvocato bolognese. Il 27 giugno 1980 Giorgio accompagnò suo zio Guelfo Gherardi all’aeroporto di Bologna. Non lo vide mai più. «Quella tragedia ha segnato la mia vita, la mia e quella della mia famiglia. Guelfo per me era come un padre e per ricordarlo ho dato il suo nome a mio figlio».

L’avvocato Gjylapian sulla vicenda di Ustica ci ha anche scritto un libro e proprio ieri l’ha consegnato di persona al Presidente della Camera Roberto Fico.

Dopo anni di studio si è convinto che il Dc9 sia stato abbattuto dalla turbolenza di scia di un jet militare, e non da un missile. A suo modo un eretico, lo ammette lui stesso, all’interno dell’associazione dei familiari. «Dico solo che la speranza nella verità non la perdo, però le istituzioni facciano quel che non hanno fatto fino ad ora».

C’è anche chi non vuole metterci nome e cognome, ma qualcosa da dire sul comportamento dello Stato ce l’ha comunque: «Promettono di aprire gli archivi? Finalmente, ma a me sembra quella storia del giudice che chiede all’imputato di mettere a disposizione le prove della sua colpevolezza. Cosa volete che succeda?».

E c’è anche chi ha scelto il silenzio, da 40 anni, sperando così di dare più forza al dramma e alla richiesta di verità e giustizia. E’ la via imboccata dai parenti di Erica e Rita Mazzel, due sorelle trentine che quel 27 giugno del 1980 salirono sul Dc9 per iniziare la loro vacanza.

Storie che testimoniano come Ustica non fu una strage bolognese, ma qualcosa che toccò famiglie di tutta Italia.

E’ il caso di Monreale, sui monti sopra Palermo, che ogni anno ricorda Antonella e Giovanni Pinocchio, di ritorno da Bologna dopo una visita alla madre malata.

Anche quest’anno il Comune li ha ricordati con una cerimonia di fronte alla lapide a loro dedicata e un mazzo di fiori. A chiedere di fare luce sulla vicenda, come sempre, è Daria Bonfietti, ex parlamentare e presidente dell’associazione che riunisce molti di coloro che hanno perso i propri parenti su quel volo.

«Siamo ancora qui, a quaranta anni di distanza, a chiedere verità e giustizia. Per i nostri cari e per la dignità stessa del nostro Paese», dice Bonfietti, che nel 1988 fondò assieme ad altri l’associazione e che da quel momento non ha mai smesso di far sentire con forza la sua voce. Anche a costo di essere presa di mira dai sostenitori dell’ipotesi dell’esplosivo a bordo, solitamente anche difensori di ufficio delle forze armate italiane.

«Non posso accettare da una polemica bieca e piena di falsità di passare per chi vuol nascondere, è davvero offensivo e indegno», aggiunge Bonfietti, che sul volo Itavia Bologna-Palermo del 27 giugno 1980 perse il fratello Alberto. «Noi dell’associazione non ci siamo mai arresi», conclude Stefano Filippi, vicepresidente dell’associazione.

Filippi, che oggi ha 55 anni, perse suo padre Giacomo a soli 15 anni. Ogni anno Giacomo Filippi è ricordato nella sua città natale, Forlì.

Anche lui una delle vittime della strage del 27 agosto 1980 dove persero la vita in 81: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi, 2 bambini e 4 componenti d’equipaggio.

* Fonte: Giovanni Stinco,  il manifesto

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