Storia & Memoria

Venezia 81. Nella sezione dei classici restaurati torna «Il terrorista», del 1963: la Resistenza dietro le quinte, con Gian Maria Volonté

 

Alla fine degli anni Cinquanta, nel quadro politico italiano si sta avviando il processo di riequilibri di potere e di alleanze che darà vita, dopo la caduta del governo Tambroni nel ‘62, alla coalizione governativa di centro-sinistra nel ‘63. Vi è nel Paese una forte ripresa della produzione industriale, un vero e proprio boom economico. Negli studi di Cinecittà il clima è però ancora da «guerra fredda»: i partigiani e la Resistenza sono per lo più sinonimi di comunismo ed evitando di mettere in scena il tema ci si sottrae anche da possibili noie censorie e politiche. Meglio raccontare altro. Tuttavia, alla XX Mostra del cinema di Venezia del 1959 vince il Leone d’oro, in ex-aequo con La grande guerra di Mario Monicelli, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini dove più che il coraggio antifascista sembra prevalere l’improvvisato orgoglio emotivo.

Il successo del film di Rossellini è comunque un segnale per i produttori cinematografici, e a Cinecittà si riprendono immediatamente le fila del discorso resistenziale e della dittatura mussoliniana. Nel 1960, con le manifestazioni antifasciste di Genova e i dimostranti uccisi dalla polizia in varie città italiane, nei cinema si proiettano La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, Era notte a Roma di Rossellini, Il carro armato dell’8 settembre di Gianni Puccini, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini, Il gobbo di Carlo Lizzani, ai quali seguiranno La ragazza di Bube di Luigi Comencini, La mano sul fucile di Luigi Turolla, Il processo di Verona di Lizzani, La marcia su Roma di Dino Risi, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Una «nuova ondata», quasi inaspettata ma forse figlia di un momento di profonda trasformazione della storia del Paese.

Il limite di questa seconda ondata è, tranne in alcuni casi, la connotazione da commedia, oscillando spesso tra la satira e la farsa, rinunciando, sempre con le dovute eccezioni, a un autentico approfondimento, a una rielaborazione critica e autocritica di quanto era accaduto. I conti con la dittatura vengono saldati male, senza puntare il dito sui colpevoli che magari continuano a spadroneggiare nel paese, evitando di mettere in luce le connivenze, la strategia degli interessi grandi e piccoli che avevano sorretto dapprima il fascismo, poi la Repubblica sociale italiana e infine il blocco conservatore democristiano. Più che ricordare e fare i conti con il passato, gli italiani vogliono dimenticare: sottolineiamo, che, tranne Il gobbo di Lizzani, dal discreto successo di pubblico, gli altri film incassano cifre piuttosto modeste, segno di un Paese anestetizzato dai crescenti consumi.

Alcuni dei film dei primi anni Sessanta tentano comunque un discorso diverso sulla Resistenza da quello affermatosi nella prima ondata che, per un brevissimo periodo, aveva assunto il ruolo di riferimento per la legittimazione reciproca delle forze politiche, una sorta di nuovo pactum associationis, e diventato ben presto un limite divisorio. Il paradigma antifascista, elemento comune di una possibile identità dopo il trauma del fascismo, aveva vissuto lo spazio di un fulgido mattino, forse solo quanto era bastato per scrivere la carta costituzionale e piangere tutti assieme commossi per la morte di Pina in Roma città aperta. Poi, era sceso velocemente il silenzio.

Uno dei film che nel 1963 cambia il paradigma cinematografico resistenziale è Il terrorista di Gianfranco de Bosio. Il regista veronese porta sullo schermo la figura di un gappista veneziano, apparentemente legato al Partito d’azione, ma solitario ed insofferente alle ragioni della politica, agli equilibri all’interno del Comitato di liberazione nazionale (Cln), alle conseguenze dei suoi gesti. È pervaso da un furore che si trasforma in azioni «terroristiche» contro i nazifascisti: un cane sciolto da quelle dinamiche politiche che già strutturavano la lotta partigiana e poi il dopoguerra repubblicano.

Il terrorista è uno dei pochi film, se non l’unico, che analizza e mette in scena in modo accurato ciò che stava «dietro le quinte» della Resistenza e cioè l’organizzazione politica e non solo militare della lotta antifascista. Ed è forse il primo, autentico, film resistenziale; di sicuro il più anomalo anche rispetto agli esordi cinematografici di quegli anni.

De Bosio conosceva bene, e non per sentito dire, la lotta partigiana nel Veneto e a Venezia. Studente all’università di Padova, dopo il proclama del rettore Concetto Marchesi, decide di aderire dapprima al Cln universitario e poi ai Gruppi di azione partigiana, piccole formazioni cittadine isolate in una clandestinità assoluta. Il Gap è comandato da Otello Pighin (nome di battaglia Renato), un ingegnere tra i primi organizzatori della Resistenza, che, caduto in un’imboscata l’otto gennaio del 1945, viene torturato e fucilato. Anche il giovane de Bosio è arrestato nel marzo del 1944, ma viene rilasciato (o, forse, riesce a scappare) e inviato da Igidio Meneghetti a Verona ad organizzare la lotta partigiana.

Il terrorista nasce per volere della «22 Dicembre», la società di produzione fondata, appunto, il 22 dicembre del 1960, da Tullio Kezich, Ermanno Olmi, Alberto Soffientini e Filippo Meda, i quali chiesero a de Bosio, fino ad allora regista teatrale, di proporre alla società un soggetto cinematografico per un film da produrre. De Bosio si mette subito al lavoro assieme a Luigi Squarzina per passare dal soggetto alla sceneggiatura. Nella sceneggiatura i ricordi del regista del periodo resistenziale entrano prepotentemente nel tono complessivo del racconto. Sono citati, seppure in modi e tempi diversi dai fatti reali, due importanti avvenimenti accaduti a Venezia tra il luglio del ’44 e la primavera del ’45. Il primo, con il quale si apre il film, è l’attentato a Ca’ Giustinian del 25 luglio del 1944 al quale partecipa, ed è ormai assodato, anche Franco «Kim» Arcalli, futuro montatore cinematografico e sceneggiatore di fama. Il secondo avvenimento, citato verso il finale del film, è la fucilazione, il 3 agosto del ’44, nell’allora riva dell’Impero, di sette detenuti politici come rappresaglia al presunto assassinio di un militare tedesco (probabilmente annegato casualmente).

Il tono che permea tutto il film è invernale, grigio, segnato da una profonda solitudine e dall’assenza. Venezia, la città minore e marginale che fa da set al film, è svuotata, piovigginosa, lontana. Vi domina un profondo senso di vuoto, come se i partigiani si muovessero in una zona morta, da soli, o, al massimo, in contatto solamente con altri partigiani. È la stessa dimensione de Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, la stessa solitudine, dei due ex partigiani de I nostri anni di Daniele Gaglianone (non a caso, crediamo, due film girati nel 2000, un periodo in cui la Resistenza torna ad essere «memoria inquieta»): è come se il «corpo» della Resistenza si trovasse al di fuori della società quotidiana, dei suoi piccoli problemi d’ogni giorno in un isolamento oltre che fisico, psicologico, interiore, di chi sa che la sua scelta pericolosa e coraggiosa non può che portarlo fuori del corpo sociale, ma dentro la Storia.

Il terrorista è ambientato nel dicembre del ’43, siamo agli inizi della Resistenza armata, quando i Gap e i Cln si stanno dando una struttura. Nel film, vi è il conflitto che travolge il dibattito tra le componenti del Cln tra liceità o meno della violenza; vi è la dialettica tra le forze politiche antifasciste che già prelude a ciò che accadrà nel dopoguerra, ai suoi assetti; vi è l’impossibilità per alcuni individui, Braschi ad esempio, di entrare in questa logica. Interpretato da Gian Maria Volonté, Braschi è, per esplicita ammissione del regista, ispirato alla figura di Otello Pighin la cui filosofia era «un attentato al giorno per non dare riposo al nemico» e per ricordare costantemente ai nazifascisti che non erano benvoluti ma odiati. Braschi è fuori dalle logiche politiche, dalle alchimie dialettiche e ideologiche, ed è inoltre scettico nei confronti del futuro, nella possibilità di una libertà autentica. È un «terrorista», e non propriamente un eroe: si rifiuta costantemente di tener conto della necessità di collegarsi con gli altri partigiani, non ha alcuna cautela, non si preoccupa delle possibili rappresaglie.

Nel suo agire compie errori madornali per un resistente in clandestinità, come dimenticare l’indirizzo di Oscar a casa propria, o attuare azioni un po’ goliardiche, anche se giustificate, come far saltare in aria l’altoparlante che in campo Santa Maria Formosa trasmette i proclami nazifascisti, o peggio, sostituire all’ultimo minuto un compagno per l’azione dinamitarda alla sede de Il Gazzettino con risultati disastrosi. È proprio la costruzione antieroica accompagnata da un rigore morale autentico e da un’intransigenza senza possibilità di compromesso, che rende il personaggio interpretato da Volonté quello che ha più caratura drammatica e anti didascalica.

Quando Braschi spiega alla moglie, nel solo momento di tregua e di «normalità» del film, le ragioni delle sue difficili scelte, si capisce quale sia la funzione etica e politica che de Bosio vuole dare al personaggio: «Venti, trent’anni dopo che questo sarà finito… Perché ormai è chiaro, ci si fa… Chissà con che perdite ancora ma ci si fa… Se dopo ci sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… Anestetizzare… Da un po’ di pace e di abbondanza… L’abbondanza e la pace fanno comodo a tutti… E magari per una questione di pane e minestra si sarà pronti a dare via tutto un’altra volta… La libertà un’altra volta… Allora… C’è solo la lotta. E siamo in pochi. Maledettamente pochi».

In più interviste, il regista ha ribadito che non era un dialogo impossibile nel ’43, e che gli interrogativi sul futuro, un certo scetticismo sulla possibilità di costruire una democrazia dalle basi solide, libertarie, circolava tra i partigiani. È probabile sia così, ma le parole chiaroveggenti di Braschi sono verosimilmente quelle di quanti, nel Sessanta, vedevano lo spirito della Resistenza affievolirsi e le speranze tramontare, e percepivano che di fronte al nascente benessere economico, «il piatto di minestra», gli italiani accettavano senza tanti problemi la lunga stagione conservatrice democristiana.

Il terrorista, ma anche a suo modo Chi lavora è perduto di Tinto Brass, sono film che, seppure con toni differenti e motivazioni drammaturgiche incomparabili, fanno affiorare il malessere nei confronti della situazione politica del paese, con il Pci alla finestra, il Psi che si prepara ad accodarsi alla stagione riformistica della Dc, e la breve, quanto intensa, stagione ciellenistica chiusa in un battibaleno e coronata solo da una costituzione che appare a molti solo una carta dei sogni. Quei film richiedono anche, implicitamente, che il dibattito storiografico sul fascismo e sulla resistenza riprenda su basi nuove, per poter essere liberati dal peso «politico» ed estetico del neorealismo (Brass, in particolare), dalla necessità pedagogica, dalla sacralizzazione del passato e del presente.

Gli anni attorno al 1960 chiudono sì idealmente lo sforzo collettivo della ricostruzione del dopoguerra e dell’elaborazione dei lutti – «la nottata è passata», direbbe Eduardo – ma il mattino si presenta irrisolto e pieno di contraddizioni. È il passaggio critico della società italiana che questi autori registrano ognuno a modo proprio e con sfaccettature diverse; ed è anche il passaggio critico del nostro cinema che espelle dal proprio corpo i residui più o meno tossici del fascismo, introiettando neorealismo e commedia rosa per passare ad altro.

Tra i critici che ne scrivono dopo la proiezione alla Mostra di Venezia nel 1963, Giovanni Grazzini ne condanna «l’impianto didascalico» («Squarzina e de Bosio hanno letto troppo Brecht per riuscire a liberarsi interamente dei suoi cascami pedagogici»); Leo Pestelli «l’eccesso di schematismo» («l’artiglio teatrale di Squarzina?», si chiede); Pietro Bianchi critica «la rottura tra la parte dialogata, lunga, minuziosa, didascalica, e la parte visiva, liricamente e drammaticamente più forte». L’affondo più duro proviene da «Cinema Nuovo», la rivista diretta da Guido Aristarco, che definisce la struttura del film «povera e gracile, e procede per quadri scopertamente illustrativi, dando adito a confusioni e contraddizioni, senza cioè che si riesca a contrapporre al rifiuto epico una nuova moralità, un’effettiva didascalicità». L’unico che lo apprezza è Lino Miccichè nelle pagine dell’Avanti!: «il film di de Bosio è tra le opere più serie sulla Resistenza che il cinema italiano abbia dato (…) e tra i più felici esordi registici degli ultimi tempi».

Non si può dire che Il terrorista abbia avuto buona stampa in Italia pur avendo, paradossalmente, vinto alla 24a Mostra del cinema di Venezia il Premio della critica italiana assegnato dal Sindacato nazionale giornalistici cinematografici e risultato il primo classificato nella Sezione opere prime della Mostra del cinema nel referendum della critica indetto dall’Avanti!.

In Francia venne accolto con grande attenzione: «fu amato da Jean-Paul Sartre e da Simone de Beauvoir che lo presentarono a Parigi – racconta de Bosio – e andò molto bene anche in altri Paesi di lingua francese». Freddy Buache, nei prestigiosi Cahiers du cinéma, sostiene nel 1965 che il film mostra «la catena della violenza (terrore e contro-terrore) senza aprire un dibattito morale sull’argomento. Rifiuta l’astrazione e propone un’analisi dialettica della situazione».

Anche l’esito commerciale è piuttosto modesto: incassa poco più di quaranta milioni di lire, pochissimo se si pensa che qualsiasi film di serie zeta raggiunge con facilità più di cento milioni al botteghino nel 1963. A sessant’anni dalla sua uscita in sala, torna però ora nella versione restaurata in 4K da Patricia Barsanti.
Non è fuori tempo: il momento sembra ancora una volta quello giusto.

* Fonte/autore: Giuseppe Ghigi, il manifesto

Miceli, già tramite di un finanziamento di 800.000 dollari giunto al Msi dalla Amministrazione Usa nel ’72 e iscritto alla P2, verrà eletto nel ’76 deputato nelle fila del partito di Almirante. L’anniversario obbliga ad una lettura del presente, perché gli eredi missini che sono al vertice dello Stato rivendicano la loro storia come democratica e repubblicana

Il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza della Loggia celebrato dal Presidente della Repubblica Mattarella spinge a volgere lo sguardo sul 1974, un anno cruciale dei tumultuosi Settanta, e pone l’obbligo della lettura del presente visto che, negli odierni tempi di acritica fedeltà atlantica, l’ultima inchiesta sull’eccidio fascista di Brescia ha condotto sulla soglia d’ingresso di Palazzo Carli a Verona, sede del comando Nato.

L’Italia era guidata dal quinto governo del democristiano Mariano Rumor, un esecutivo di breve durata ma obbligato a misurarsi sia con le temperie politiche nazionali e internazionali (crisi economica, guerra del Kippur, austerità) sia con lo stragismo neofascista che dal 1969 era deflagrato nella vita pubblica.

Dopo la strage di Brescia, per la prima volta dopo anni di omissioni; arresti politici; false piste anarchiche e depistaggi istituzionali, il governo fu costretto ad attivare le prime misure di contrasto (seppur calibrate, come in uso al metodo democristiano) contro l’eversione nera. Fu un primo segnale di discontinuità per un partito/Stato su cui gravava la responsabilità politica degli accadimenti. «Per quanto riguarda la strategia della tensione che per anni ha insanguinato l’Italia – scrive Aldo Moro nei giorni del suo sequestro – non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Democrazia Cristiana in alcuni suoi settori».

Per avviare le «pulizie in casa» (rimuovere o trasferire vertici e alti ufficiali degli apparati di forza statali compromessi con l’eversione nera) l’esecutivo guidato da Rumor (che il 17 maggio 1973 aveva subito un attentato del gruppo nazista Ordine Nuovo) utilizzò due dei suoi più importanti maggiorenti nei dicasteri strategici: Giulio Andreotti alla Difesa, Paolo Emilio Taviani all’Interno.

Andreotti il 20 giugno, in una a dir poco inusuale intervista a Il Mondo, svelò l’identità di agente dei servizi segreti di Guido Giannettini – il «collaboratore fascista del SID» lo definirà Aldo Moro – indagato per la strage di Piazza Fontana e fatto fuggire all’estero. Poi lo stesso ministro non solo consegnò alla magistratura una parte della documentazione relativa al golpe Borghese del 1970, riattivando l’indagine, ma rimosse dal vertice del SID il generale Vito Miceli che il 31 ottobre fu arrestato, poi assolto, per le inchieste sul golpe Borghese e per quello della Rosa dei Venti.

Miceli, già tramite di un finanziamento di 800.000 dollari giunto al Msi dall’amministrazione Usa nel 1972 nonché iscritto negli elenchi della P2, verrà poi eletto deputato nelle fila del partito di Almirante nel 1976.

Taviani due giorni dopo la strage di Brescia sciolse l’Ufficio Affari Riservati, gravato delle più pesanti accuse di complicità con l’estrema destra, spostando il suo potente capo (nonché suo uomo di fiducia e riferimento della CIA in Italia) Federico Umberto D’Amato alla guida della Polizia di Frontiera. Lo stesso D’Amato che l’ultima sentenza per la strage di Bologna indica come uno degli organizzatori del massacro del 2 agosto 1980 eseguito dai neofascisti dei Nar. Uno scioglimento che seguiva quello del gruppo Ordine Nuovo del 23 novembre 1973 voluto dallo stesso Taviani (dopo la condanna dei suoi dirigenti per ricostituzione del partito fascista) e l’arresto l’8 maggio 1974 di Carlo Fumagalli, guida del gruppo eversivo MAR (Movimento Azione Rivoluzionaria) già ufficiale dell’OSS statunitense e poi della CIA, nonché membro della Resistenza «bianca» di cui proprio Taviani era stato al vertice durante la seconda guerra mondiale. Il 30 maggio il neofascista Giancarlo Esposti (legato al Mar) veniva ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri a Pian del Rascino.

Si assisteva allora al riposizionamento della classe dirigente protesa a ricostituirsi -scrisse Pasolini- «una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum» che aveva confermato la legge sul divorzio e posto per la prima volta la Dc (alleata al Msi) in minoranza nel Paese.
Si assiste oggi, in tempi in cui gli eredi missini sono al vertice dello Stato e rivendicano la loro storia come democratica e repubblicana, al tentativo di rimozione del contesto di quegli anni così ben rappresentato dal palco di Piazza Loggia dalle parole del sindacalista della Cisl Franco Castrezzari troncate dallo scoppio della bomba: «La nostra Costituzione vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista; eppure il Movimento Sociale Italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica Sociale Italiana ordiva fucilazioni e ordinava spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale».

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

 «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana

 

Sforziamoci di tralasciare, almeno per un attimo, l’altrimenti diffusa retorica della «storia dimenticata», quella che celebra il passato come una sorta di buco nero dove, agli eventi concreti, si sarebbe sostituita una mera narrazione in funzione degli interessi dei «poteri forti». Ciò che chiamiamo con il nome di storia, infatti, non è solo il riscontro del fatto che il discorso corrente (nella comunicazione dominante da parte dei media così come nell’opinione pubblica) possa essere fortemente viziato da categorie, immagini e pensieri di parte. Il fare storia, infatti, implica semmai indagare soprattutto su come sussista, in base alle palesi egemonie politiche e culturali del momento (e non in ragione di un oscuro disegno), l’accento su una molteplicità di aspetti piuttosto che su altri.

TUTTA LA COMPLESSA vicenda della ricezione e dell’eredità della guerra di Liberazione, dallo stesso aprile 1945 in poi, va quindi letta anche sotto questa lente. Evitando pertanto banalizzazioni nonché semplificazioni di maniera. Esattamente, invece, ciò cui anelano qualunquisti e conformisti di ogni risma e genere. La complessità della guerra partigiana si perde infatti dentro i meandri di una falsa «contro-storia», con un drastico capovolgimento delle parti. Si tratta di quell’approccio, per intenderci, che azzera tutto, nel nome di una fittizia «unità nazionale» (oggi chiamata «pacificazione») dalla cui assenza, invece, i «nemici dell’Italia» avrebbero saputo trarre giovamento. Per poi auto-incensarsi del tutto immeritatamente. Una pubblicistica di ampia diffusione, ha trovato in questi ultimi tre decenni un significativo riscontro di lettori. Dalla pagine più sofisticate dedicate alla «morte della patria» da parte di Galli della Loggia alla fluviale letteratura, a tratti inferocita, di Pansa. Dopo di che, poste tali premesse critiche, si entra a pieno titolo nel merito del libro di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica italiana, 1945-2022 (Einaudi, pp. 232, euro 28). Diverse questioni sono infatti sollevate dal suo testo, al netto delle cronache che vi sono ricostruite, sulla base dell’interpolazione di molteplici fonti (rapporti delle forze dell’ordine, documentazioni processuali, articoli della stampa quotidiana e periodica, soprattutto di estrazione locale), che ci restituiscono il quadro di un’epoca. Tra di esse, e come tali di particolare rilievo, sono quelle vicende che non rimandano al solo uso discrezionale, in chiave deliberatamente restauratrice, della magistratura – e quindi della somministrazione della stessa giustizia – ma ad una più generale opera di normalizzazione conservatrice: cancellare quindi, laddove possibile, l’eredità ancora recentissima della lotta di Liberazione. Trasformandola pertanto in una irrisolta commistione tra occasionalità e criminalità, tra ribellione e sedizione, disobbedienza e opportunismo.

UNA TALE PULSIONE, che di fatto attraversa un po’ tutta l’Italia, a partire da quella settentrionale, risponde a molteplici logiche, fino ad un certo punto ascrivibili al solo calcolo politico. Poiché ciò che essa testimonia è, semmai, un più generale percorso dove ciò che è stato – ovvero una commistione irrisolta tra segmenti del liberalismo ante-fascista e regime mussoliniano – emerge in tutti i suoi aspetti più radicati, destinati poi a non essere risolti con il nuovo ordine costituzionale. Si dà quindi come il parametro sul quale misurare l’accettabilità, o meno, della svolta prodotta dalla lotta di Liberazione. Nella misura in cui il partigianato ha reintrodotto, nella sfera dello Stato unitario, qualcosa che lo stesso Risorgimento si era incaricato, soprattutto dal 1859 in poi, di estromettere progressivamente, cioè la partecipazione in armi della collettività ai grandi moti di trasformazione in corso. Nell’Europa postbellica, all’epoca, era ancora presente la eco di tre eventi indice: le tumultuose sollevazioni borghesi del 1848; l’esperienza collettiva, ancorché sanguinosamente repressa, della Comune parigina nel 1871; le insorgenze popolari, generate dalla Prima guerra mondiale e poi variamente sedate. Con efferata brutalità. I fascismi continentali, a fronte della decadenza degli ordinamenti liberali, avevano tratto da ciò parte della loro legittimità, presentandosi come i soggetti che avrebbero ripristinato una qualche pratica di «ordine» e di «gerarchia». Nel momento in cui, dal 1945, tutto questo declinò tra i giganteschi flutti di uno scontro armato epocale, il conflitto tra legalità (quella istituita dai vincitori) e legittimità (derivante dai movimenti che nel frattempo si erano verificati dal basso, a partire dalla stessa lotta partigiana), rimase comunque a lungo irrisolto. Se da una parte valevano le leggi e le disposizioni degli Alleati, e con esse il bisogno di confrontarsi con una nuova minaccia, quella bipolare, dall’altro, esauriti i primi e veloci momenti di euforia per la fine della guerra, andava invece crescendo un senso di insoddisfazione.

NON DI MENO, come già ha avuto modo di sottolineare una storiografia consolidata, che trova in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, (Editori Riuniti, 1999) un primo punto di sintesi, alla violenza inerziale che si trascinò ancora nel tempo, corrispondeva la restaurazione di un potere che non intendeva in alcun modo confrontarsi con quella idea di cittadinanza attiva, civile, e al medesimo tempo ribelle, della quale il partigianato era espressione. Gli eventi succedutisi, soprattutto sul piano giudiziario, con il ricorso alla magistratura, come ordinamento repressivo, spesso debitore dell’impronta fascista sia sul piano culturale che legislativo, si inquadrano in questa logica. Già Guido Neppi Modona con il suo pioneristico lavoro su Giustizia penale e guerra di liberazione (Franco Angeli, 1984) aveva avviato, ben quarant’anni fa, una ricognizione in tale senso. All’epoca ancora motivata dal riuscire a tradurre una lunga e tortuosa stagione di sforzi di democratizzazione degli apparati dello Stato (quella intercorsa nei due decenni precedenti) all’interno di una più generale riconsiderazione del significato della lotta partigiana, e del suo trattamento giudiziario, a quarant’anni dalla sua conclusione. Così come, due decenni dopo, il volume collettaneo a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Giudicare e punire. Processi per crimini di guerra tra diritto e politica (L’ancora del Mediterraneo, 2005), spostava il fuoco verso una serie di questioni, a bipolarismo internazionale oramai da tempo conclusosi, che richiamavano il nesso tra violenze belliche, soglie di accettazioni e di rigetto, rapporto tra giustizia e classi dirigenti, percezioni e rielaborazioni dei lutti come esperienze di trapasso collettivo da vecchie a nuove società.

I LIBRI QUI CITATI sono solo alcuni dei possibili antecedenti al volume di Ponzani, che raccoglie in sé vent’anni di ricerche e riflessioni sulla criminalizzazione dell’eredità della guerra partigiana nella storia repubblicana. Come tale, è anche una risposta alle narrazioni dominanti in un certo senso comune, al pari di una parte della pubblicistica ad ampia diffusione, che associano la lotta di Liberazione ad un esercizio stragista, annullano le differenze tra carnefici e vittime, per poi ribaltarne i ruoli, rileggono – in chiave chiaramente filofascista – gli eventi dall’8 settembre 1943 in poi per ricavarne una netta rivalutazione morale, prima ancora che politica, degli sconfitti. Ponzani accompagna il lettore attraverso i diversi livelli di criminalizzazione istituzionale, laddove questi si verificarono, di cristallizzazione retorica del ricordo, di parificazione delle violenze e di annichilimento del significato dell’azione partigiana come atto di radicale disobbedienza, fondato su uno spontaneo principio di eticità. Fa quindi effetto il riscontrare analiticamente come certi canoni ideologici che sono transitati dal fascismo alla Repubblica, si ripropongano con potenza di inerzia nel discorso di senso comune. Uno tra tutti, le anacronistiche e surreali polemiche su via Rasella. Solo per uno tra i tanti, possibili richiami.

* Fonte/autore: Claudio Vercelli, il manifesto

Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato

 

Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.

IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.

UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.

IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).

IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.

UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.

IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.

QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.

Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

 

Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia.

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco).

Fonte/autore: Enzo Collotti, il manifesto

 

 

 

ph by Roberta F., CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

LISBONA. Sì, è proprio vero, mio padre è morto. Il colonnello Otelo Saraiva de Carvalho, l’Otelo. Poco prima delle 14 e 11 dello scorso 25 luglio, lo sfinito corpo di mio padre ha smesso di respirare l’aria che respiriamo.

Dopo alcuni giorni di parole opportune e inopportune, ci sono ancora delle cose che vorrei dirvi in questa mia testimonianza. Parlo per tutti quelli che sono rimasti colpiti o rattristati dalla notizia della sua morte, così come anche per chi ne è rimasto indifferente.

Non vivo più in Portogallo da molti anni. Ero arrivata a Lisbona da otto giorni e in quel periodo avevo visitato mio padre per due volte, perché era di nuovo ricoverato all’Ospedale delle Forze Armate. Due visite con il tempo contato, un’ora in tutto. Il resto del tempo, quando non vedevo il colore dei suoi occhi né sentivo il suono della sua voce, gli stavo vicino idealmente, soprattutto tra il giorno 24 e il 25.

Durante le mie brevi visite, le ultime parole che mi ha detto sono state «Ti voglio molto bene, figlia mia». Ma le prime, quando gli ho chiesto come si sentiva, sono state queste: «Sto molto giù, sono arrivato alla fine. Ma guarda come mi sono ridotto, non posso fare più niente. E io che volevo una vita tranquilla! Sai chi è colpevole di tutto questo?» E mi racconta di quel compagno del MFA (Movimento delle Forze Armate) che, poco dopo il 25 Aprile 1974, quando usciva da una casa di Cova da Moura dove c’era stata una riunione del MFA, convocata per prendere decisioni su cosa fare dopo la rivoluzione e su come organizzarsi, disse ai giornalisti che lo circondavano, «alcuni stranieri», «È lui che dovete intervistare”, indicando mio padre che scendeva le scale della casa, «È lui che ha fatto, ha organizzato, ha comandato, ecc., ecc.».

«Ed ecco», continua a raccontare mio padre, «Tutta quella gente comincia a corrermi incontro, microfoni alla mano, e tutto si è deciso in quel momento! In seguito, sono stato coinvolto nella vita politica, nelle elezioni…, ma quello che volevo veramente era dare una speranza alla gente, al popolo portoghese, alle classi popolari che ho poi contattato nel PREC (Processo Rivoluzionario In Corso)».

Sei giorni prima della sua morte, in un’unica frase, in un breve bilancio, mio padre identificava così il punto di svolta della sua vita, fra quella che avrebbe potuto essere «una vita tranquilla» e invece quella che ha effettivamente vissuto, causa, secondo lui, del suo debilitato stato di salute.

Quella vita tranquilla che ricercava dopo aver già comandato le operazioni del 25 Aprile, dopo aver partecipato attivamente a tutta la cospirazione che le aveva preceduto, insieme ai capitani con cui avrebbero formato il Movimento delle Forze Armate, riuniti dopo anni di guerra nelle colonie portoghesi. Dopo sue tre commissioni in Africa, di cui due in combattimento durante la guerra coloniale che il Portogallo iniziò nel ’61 contro i movimenti di liberazione. Dopo tredici anni di vita nomade tra il Portogallo e le colonie, sempre accompagnato dal grande amore della sua vita (mia madre) e più tardi da tre figli. Dopo aver perso una figlia (mia sorella) nella Guinea-Bissau, morta in poche ore per una crisi di malaria e meningite fulminante. Dopo un’infanzia e un’adolescenza fra il Mozambico e il Portogallo, fra genitori e nonni.

Quanto al 25 Aprile 1974, se da una parte c’era la totale fiducia che i compagni militari del MFA avevano in mio padre, adesso diventato il Maggiore Otelo Saraiva de Carvalho, per l’esecuzione e il comando del Piano di Operazioni militari che ha deposto il regime dittatoriale vigente in Portogallo dal 1926, dall’altra c’era il disegno solitario di quel Piano di Operazioni che mio padre definiva come «Svolta Storica», che consisteva nella scelta dei numerosi ufficiali che furono i suoi più diretti collaboratori e che lo portarono all’esecuzione del Piano all’alba del 25 aprile, vittoria seguita dall’entusiasmo e dalla massiccia adesione della maggior parte dei portoghesi, scesi per le strade di tutto il paese.

Vari analisti politici hanno classificato questo Piano come superlativo, così come il dominio delle operazioni militari, di massima importanza per la Storia del Portogallo e, in particolare, per la Storia Militare Portoghese. Comunque, quello che posso affermare con assoluta certezza è che mio padre era grato alla Vita per aver avuto l’opportunità di contribuire alla rivoluzione, tanto attesa dalla maggior parte della popolazione. E questo lo faceva non per «orgoglio» (che poteva essere inteso come un premio), ma piuttosto per l’enorme soddisfazione di aver avuto questa opportunità nella sua vita. E per costatare che le sue competenze era state sufficienti a portare avanti il progetto rivoluzionario.

Nel periodo del post 25 Aprile, periodo PREC, durante un anno e sette mesi, mio padre ha avuto tutto tranne una vita tranquilla. Si impegnava corpo e anima, con tutto il tempo, il sonno e la sua vita famigliare (che per lui si confondeva con la vita privata), utilizzando quello che sapeva e quello che era costretto a improvvisare. Quando sento parlare di «abbaglio per il potere», contrappongo invece la coscienza delle necessità della popolazione, soprattutto attraverso la sua esperienza di comandante del COPCON (Comando Operativo per il Continente), e la consapevolezza di come il suo potere poteva aiutare a risolvere queste necessità. Da parte sua, non si è mai sottratto alle immense responsabilità che dai 37 ai 39 anni gli sono cadute addosso, a lui e agli altri ufficiali del MFA, che avevano combattuto nella guerra coloniale e non erano ufficiali dello Stato Maggiore e che quindi erano più propensi e responsabilizzare la gerarchia militare per quanto riguardava le decisioni da prendere.

Quanto alla sua partecipazione alla vita politica, come civile, dopo che venne allontanato dalle cariche militari in seguito al 25 novembre del 1975, vorrei affermare quanto segue: quando mio padre venne arrestato nell’ambito del Processo FUP/FP, una ottima compagnia teatrale di Lisbona, attraverso l’intervento del suo direttore/fondatore, ha voluto richiamare l’attenzione su questo arresto e mi ha invitato a leggere un testo all’inizio di uno spettacolo teatrale. Ci sono andata e ricordo perfettamente queste parole di mio padre che ho trasmesso, nella mia lettura, al pubblico: «Vi do la mia parola di Capitano di Aprile che non ho nulla a che vedere con tutto questo (si riferiva qui alle accuse di aver partecipato agli attentati fatti dal gruppo radicale FP25)».

Sarebbe inoltre interessante riferire altre ipotesi di lettura dei fatti, delle coincidenze (che pure esistono) che hanno fatto sì che mio padre fosse accusato politicamente e giuridicamente di aver collaborato con questo gruppo…È comunque interessante analizzare come questo tentativo di coinvolgere mio padre/Otelo in questo caso sia servito a interessi diversi, allora come adesso…ma qui chiudo l’argomento.

Vi parlo dell’uomo che ho conosciuto come padre e vi riferisco adesso alcuni aspetti della sua personalità, che forse potrete riconoscere:
In famiglia, si raccontavano storie su mio padre e sul suo «senso del giusto», fin da quando era bambino. Penso che questo aspetto, inquadrato nella sua formazione militare (perché mio padre era «un militare»), abbia portato a una pratica di «contestazione attraverso le regole», ossia contestazioni che si svolgevano attraverso i legittimi canali costituiti (anteriori o posteriori al 25 Aprile) e che molte volte ho avuto occasione di testimoniare. Alcune portavano all’abrogazione di determinate leggi o di determinazioni della gerarchia militare, decisioni che hanno favorito, nel passato e ancora oggi, molte persone, che probabilmente non sanno neanche chi ne è stato l’autore.

Questo «senso del giusto» era molto forte nella personalità di mio padre e ha influenzato gran parte della sua cittadinanza e del suo intervento come cittadino.
Riferisco inoltre l’enorme coerenza con quello che sentiva (in ogni situazione) e con la verità (un aspetto che era comune a mio padre e a mia madre, erano così tutti e due e così si viveva nella mia famiglia).

Come si può parlare della vita di una persona in poche righe? Scegliendo un epitaffio: la persona si perde, il dolore di chi rimane continua.
Posso dire che perdo una delle due persone più importanti della mia vita, perdo quell’unico interlocutore di tante chiacchierate padre/figlia, così barocche, teatrali, divertenti che ci siamo inventate. Perdo la compagnia e la completa disponibilità che aveva mio padre nei miei confronti.

E come cittadina, vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato fatto. Fatto da mio padre, dal militare Otelo Saraiva de Carvalho autore di tante conquiste, da Otelo e da tutti i suoi compagni di lotta, da tutti i suoi amici. Vorrei che il Portogallo non perdesse quello che è stato realizzato e che lo integrasse nel suo patrimonio e nella sua memoria collettiva.

(Dopotutto, l’ultimo quarto del XX secolo è servito a dire a qualsiasi dittatore che il popolo portoghese non è così sottomesso come potrebbe sembrare. E anche a ricordare che è possibile realizzare una rivoluzione collettiva senza l’eliminazione fisica dei suoi nemici).

Lisbona, 16 agosto 2021

traduzione dal portoghese di Rita Ciotta Neves

* Fonte: Maria Paula Alambre Carvalho, il manifesto

FIRENZE. E’ negli affascinanti ricordi dell’amica Maria Fancelli, a partire da un affollatissimo seminario universitario sulla figura di von Kleist nell’ormai lontano 1984, che si riescono a comprendere le ragioni che hanno portato Rossana Rossana a lasciare in eredità il suo archivio personale all’Archivio di Stato di Firenze. In particolare alle sezione dedicata alla “Memoria e scrittura delle donne”, voluta e poi trasformata in associazione dalla storica e archivista Alessandra Contini Bonacossi. “Una sezione che lei aveva conosciuto nel 2006 durante una visita – racconta la presidente Rosalia Manno – apprezzandone lo spirito e soprattutto l’obiettivo di assicurare conservazione, tutela e valorizzazione dei propri documenti”. Un apprezzamento che portò Rossanda a cambiare la sua idea iniziale di una destinazione milanese per le sue carte – parte delle quali sono ancora conservate alla Fondazione Feltrinelli di Milano – affidandole invece “a una città che lei amava. Il suo è stato un atto fatto in piena coscienza, e di consapevolezza della ‘storicità’ della sua persona”.

Per salutare l’arrivo di questi sei metri lineari di faldoni “assolutamente non ordinati e studiati” che coprono un arco di quasi mezzo secolo, dagli anni sessanta fino al 2006, l’Archivio di Stato ha così organizzato una tavola rotonda in diretta streaming. “Un appuntamento in quella che è la ‘Notte degli Archivi’ – spiega Sabina Magrini che dirige l’Archivio – iniziativa collegata al festival Archivissima 2021, e che ci invita a un confronto sul tema #generazioni: cosa salvare di ciò che le generazioni prima di noi hanno prodotto? Come stabilire una connessione e, soprattutto, come generare nuova vita da ciò che si è deciso di conservare?”.
Una splendida risposta, arrivata grazie ai contributi anche di Sveva Pacifico e naturalmente di Doriana Ricci, redattrice del manifesto fino a pochi anni fa, assistente personale e amica di Rossanda, è in questa vastissima produzione “in cui si trova tutta la corrispondenza relativa alla fondazione del manifesto – spiega Pacifico – e carte relative alle sue relazioni con il Pdup e alle riflessioni sul marxismo, insieme a copie di materiale riguardante i processi ai brigatisti e il caso Sofri, e lettere con detenuti sottoposte a censura”. E ancora appunti per preparare interventi ai vari seminari che teneva, e riflessioni sulla questione femminile in cui emerge un tema estremamente attuale, ovvero il problema di conciliare lavoro e famiglia, Un modo per ricostruire la figura di Rossana Rossanda e la storia dell’Italia da lei vissuta come donna, partigiana, politica, giornalista e scrittrice. Anche storica dell’arte, tassello ulteriore del suo legame con la città di Firenze.

* Fonte: Riccardo Chiari, il manifesto

Si è svolto oggi alle 18 ad Affile (Roma) un flash mob promosso dall’ANPI – con la presenza del Presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e del Presidente dell’ANPI provinciale di Roma Fabrizio De Sanctis – in occasione dell’84esimo anniversario della strage di Debra Libanos (Etiopia).
Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero di Debra Libanos furono trucidati monaci, diaconi, pellegrini ortodossi, più di 2.000, per opera degli uomini del generale Pietro Maletti, dietro ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia. Ad Affile è situato un monumento dedicato proprio a Graziani.
In un passaggio del suo intervento così si è espresso Pagliarulo:
“Siamo qui per denunciare una grande ignominia: un monumento intitolato non al soldato affilano più rappresentativo, come incautamente affermato, ma all’uomo delle carneficine, delle impiccagioni, dei gas letali. Perché questo fu Rodolfo Graziani. E le due parole sulla pietra del monumento, Patria e Onore, suonano come il più grande oltraggio alla Patria e all’Onore. Onore è parola che significa dignità morale e sociale. Quale onore in un uomo che sottomette un altro popolo in un’orgia di sangue? Patria. La nostra patria è l’Italia. La parola Italia è nominata nella Costituzione due sole volte: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, L’Italia ripudia la guerra. Tutto il contrario di un Paese fondato sul razzismo imperiale. Perché, vedete, le stragi di Graziani furono certo l’operato di un criminale di guerra, e non fu certo l’unico. Ma furono anche stragi dello Stato fascista, di una macchina di violenza e di costrizione verso l’altro “.
Era presenta anche una delegazione dell’Associazione della Comunità etiopica di Roma.

 

* Fonte: il manifesto, Ufficio stampa Anpi

Perseguitati tra i perseguitati, dimenticati tra i dimenticati. Le popolazioni romanì (rom, sinti, manush, kalé) hanno due nomi per indicare quello che è accaduto loro negli anni ’40 del Novecento: «Porrajmos» e «Samudaripen», ovvero «grande divoramento» e «tutti uccisi».

Era l’11 settembre del 1940 quando tutte le prefetture del Regno d’Italia ricevettero una circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini: «Rastrellamento di tutti gli zingari», era l’ordine da eseguire ovunque e nel minor tempo possibile. «Comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati» erano le accuse. Solo qualche mese dopo, nell’aprile del 1941, il ministero dell’Interno diede qualche indicazione sul loro internamento e campi di prigionia furono costruiti ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna, dalle isole Tremiti alla Toscana e all’Emilia Romagna.

Era l’ultimo atto della politica fascista sulle comunità rom e sinte: prima, tra il 1922 e il 1938, l’ordine era quello di respingere alle frontiere i nomadi stranieri. Poi, tra il 1938 e il 1940, si cominciò con la pulizia etnica nelle regioni di confine e i trasferimenti coatti in Sardegna.
Sulla rivista «La difesa della razza» fioccavano articoli sulla «pericolosità sociale degli zingari». Con la circolare di Bocchini del 1940, la guerra alla «piaga zingara» arrivò ai rastrellamenti e alla reclusione. A liberazione avvenuta, i sopravvissuti scopriranno di aver perso tutti i propri averi. Nessuno si preoccuperà mai di renderglieli o di rimborsarli in qualche modo.

Dopo l’8 settembre del 1943, ad ogni modo, alcuni riuscirono a scappare dai campi dove erano reclusi e si unirono alla Resistenza. È la storia, ad esempio, dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo «Gnugo» De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani.

La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui avevano disarmato una pattuglia del Reich.
«Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro «Strada, Patria Sinta» (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico. Questo lo sapeva anche un fascista di Breda Solini che durante la Liberazione si era barricato in casa con un arsenale di armi, minacciando di fare fuoco a chiunque si avvicinasse o di uccidersi a sua volta facendo saltare tutta la casa: “io mi arrendo solo ai Leoni di Breda Solini”. Così andarono i miei, ai quali si arrese, ma venne poi preso in consegna lo stesso da altri partigiani, che lo rinchiusero in una cantina e lo picchiarono».

Fatti come questi non è facile sentirli raccontare: la memoria del Porrajmos e della resistenza dei romanì è sempre stata un filo sottile, quasi invisibile. In teoria nel 2015 il parlamento europeo ha stabilito che il 2 agosto è la Giornata dedicata alle vittime del genocidio rom, ma in pratica la ricorrenza viene celebrata a singhiozzo dai vari paesi. In Italia la commemorazione è il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Così è pure in quasi tutti gli altri paesi europei, tranne la Repubblica Ceca (che ha quattro date: il 7 marzo, il 13 maggio, il 2 e il 21 agosto) e la Lettonia (che ne ha tre: il 27 gennaio, l’8 aprile e l’8 maggio).

Nel 2018, l’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) diretto da Luigi Manconi ha organizzato ad Agnone, in Molise, la prima commemorazione italiana della rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz, cominciata il 16 maggio del 1944, quando quasi quattromila tra rom, sinti e caminanti si ribellarono ai soldati tedeschi arrivati per sterminarli.

La loro resistenza durò fino ad agosto, quando le SS riuscirono a prevalere e massacrarono tutti quelli che avevano osato ribellarsi. In totale, si stima, il «grande divoramento» ha lasciato una voragine da 500.000 morti in tutta l’Europa. L’inno rom «Gelem, Gelem» ricorda come sono andate le cose: «Ho percorso lunghe strade, ho incontrato rom felici. Una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».

* Fonte: Mario Di Vito, il manifesto

Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro.

Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

IN LINEA con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista. Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia.

L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.

Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze».

Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss.

Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.

OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.

Devastazioni prodotte dall’esercito italiano. Un’immagine proveniente dal Museo nazionale di storia contemporanea della Slovenia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’APPELLO

Alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano.

QUEST’ANNO ricorre l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi.
La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia.

CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

Il testo completo dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it

Da oggi la mostra
«A ferro e fuoco»

Sarà presentata questo pomeriggio alle 17 la mostra virtuale «A ferro e fuoco» che racconta l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943 grazie a 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Cok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci. Il progetto è stato curato dallo storico Raoul Pupo. Realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Fvg e dal Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Trieste, la mostra è visitabile su www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it. Oggi la presentazione su https://zoom.us/j/93156396203 e www.youtube.com/user/IRSMLFVG

* Fonte: Davide Conti, il manifesto

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