Si terrà oggi a Pisa la 15esima edizione di Canapisa, la street parade antiproibizionista che ogni anno porta a manifestare in città a ritmo di musica migliaia di persone. L’edizione di quest’anno non è stata esente da polemiche politiche e prescrizioni da parte delle istituzioni. Anche a causa delle elezioni del prossimo fine settimana. Il 19 maggio mentre nel centro città venivano raccolte le firme contro la manifestazione, in parlamento il vicepresidente del senato, il forzista Maurizio Gasparri, presentava un’interrogazione al ministro dell’interno, Angelino Alfano, per chiedergli «le ragioni per cui sia stata autorizzata» ma anche «se sia a conoscenza di quali siano le generalità, quantomeno degli organizzatori e dei finanziatori della manifestazione, nonché, ove possibile, dei partecipanti, con particolare riguardo a quanti abbiano già riportato condanne per reati connessi all’uso o allo spaccio di sostanze stupefacenti». In pratica, una richiesta al Viminale di informarsi presso la Questura di Pisa su chi siano gli organizzatori e una velata richiesta di istituire posti di blocco per controllare i manifestanti. Proprio in Questura, giovedì, agli organizzatori sono state quest’anno imposte tutta una serie di prescrizioni: dalle variazioni di percorso al divieto di somministrazione, anche a titolo gratuito, di bevande alcoliche.
«Come ogni anno, tutti e 7 i carri musicali regaleranno l’acqua, faremo una chill out e ci saranno due mezzi con operatori che si occupano della riduzione del danno visto che noi siamo antiproibizionisti su tutte le sostanze», commentano gli organizzatori.
L’appuntamento è per le 16 nel piazzale della stazione con arrivo in un altro luogo simbolo, una piazza di fianco al carcere cittadino «don Bosco», in sostegno al 40% dei detenuti e alla metà degli stranieri finiti dietro le sbarre per reati connessi agli stupefacenti.
Oggi a Udine si svolge l’ultima udienza del processo che vede imputato Filippo Giunta, lo storico organizzatore del Rototom Sunsplash, per agevolazione del consumo di sostanze durante l’edizione del Festival del 2009, l’ultima ad essere organizzata a Osoppo nel parco del Rivellino.
Un processo iniziato sull’onda repressiva della Fini-Giovanardi e di una furiosa caccia alle streghe.
A seguito dell’assedio lanciato dalle forze dell’ordine durante quell’edizione, furono effettuati 103 arresti fra i 150.000 frequentatori del festival ai sensi della nuova normativa antidroga. Per lo più consumatori di cannabis, vero obbiettivo della legge. Un assurdo accanimento nei confronti del Festival che coinvolse anche Ispettorato del lavoro, Vigili del Fuoco, Noe, Nas, Finanza, Vigili urbani di vari comuni, tutti impegnati a trovare fantasiose irregolarità nell’organizzazione del Rototom.
Oggi Giunta, assistito dagli avvocati Alessandro Gamberini e Simona Filippi, sarà in tribunale per rendere la sua testimonianza e forse per ascoltare la sentenza. Siamo convinti che si arriverà ad una piena assoluzione ma un grave delitto è stato far perdere ad Osoppo un grandissimo evento musicale e culturale.
Il Friuli, terra di Pier Paolo Pasolini, Loris Fortuna e Beppino Englaro, è stato purtroppo il teatro di una operazione repressiva e di censura di un’intera comunità, colpevole di amare il reggae e quindi la cannabis, per una supposta proprietà transitiva fantasiosamente applicata al diritto penale.
Osoppo rimpiange il suo Festival, che aveva garantito più di 500.000 euro di investimenti regionali sul Parco del Rivellino, e che secondo stime de il Sole 24 ore faceva girare fra i 5 e i 7 milioni di euro. Un rimpianto per gli amministratori di Osoppo, che insieme all’intera comunità locale e ad un vasto movimento di artisti, intellettuali e attivisti si sono schierati nel tempo al fianco degli organizzatori sotto lo slogan «Non processate Bob Marley».
Del resto in Spagna a Benicassim, dove è emigrato nel 2010, il festival è cresciuto continuamente confermandosi come il Festival Reggae più importante d’Europa incrementando le presenze sino alle 240 mila dello scorso anno. L’Università di Castellon ha stimato una ricaduta economica sul territorio di circa 24 milioni di euro. Anche per questo difficilmente Rototom tornerà in Italia. Insomma Osoppo, il Friuli e l’Italia hanno perso, a causa dell’ottusa foga proibizionista, non solo un grande evento musicale e culturale, ma anche una grande risorsa per l’economia locale.
Con la sentenza di oggi ci auguriamo si compia un ulteriore passo verso la sconfessione delle politiche proibizioniste italiane, almeno nelle aule dei tribunali.
Mentre il mondo guarda avanti, oltre la «war on drugs», le sue vittime ed i suoi palesi insuccessi, in Italia il dibattito sulla riforma della politica sulle droghe fatica ad arrivare sui tavoli della politica nonostante la Fini-Giovanardi sia ormai stata cancellata dalla Corte Costituzionale.
Se in Parlamento qualcosa si muove, con la costituzione di un intergruppo per la legalizzazione della cannabis recentemente promosso da Benedetto Della Vedova, il Governo pare voler far finta di niente.
Il Cartello di Genova sta mettendo a punto un calendario di iniziative con al centro la pubblicazione di un nuovo Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga. La Società della Ragione intende aprire il confronto su una nuova legge sulle droghe, proprio da Udine.
Un appuntamento fondamentale, per costruire una posizione italiana seria e riformatrice in vista di Ungass 2016, la sessione Onu sulle droghe prevista per il prossimo anno.
Dopo 8 anni di Fini-Giovanardi dove esisteva «l’istigazione al consumo», che ha portato addirittura i festival (vedi il «reggettaro» Rototom ad abbandonare l’Italia), la 15esima edizione italiana della Million Marijuana March diventa stanziale. Dentro Roma, alla Città dell’altra economia, ieri dalle 13 a notte diverse migliaia di persone sono scese in strada per dire no al proibizionismo, per ribadire il diritto alla coltivazione di un pianta. Una legge infatti, per l’appunto la Fini-Giovanardi, considerata la più proibizionista d’Europa, approvata nel 2006 inserita abilmente nel decreto sulle Olimpiadi invernali di Torino del 2006, per poi essere approvata a Camere sciolte e con doppio voto di fiducia dal terzo governo Berlusconi, è stata dichiarata incostituzional nel febbraio del 2014. «È trascorso un anno da quando i giudici hanno messo nero su bianco questa cosa — spiegano gli organizzatori — e in carcere tuttora restano migliaia di persone che sono state condannate in base a una legge non più in vigore».
È così in molte città, dove soltanto con l’intervento di un avvocato il procedimento viene avviato. «In Italia non siamo tutti uguali davanti alla legge», denunciano i promotori. La norma in questione, prevedeva ad esempio l’inversione dell’onere della prova, in pratica il dover dimostrare di non essere uno spacciatore ma un consumatore. Dopo aver letto quella parte si dice che nei palazzi del potere europeo siano saltati dalle sedie.
«Con quella legge – continua la rete italiana antiproibizionista che ogni anno organizza questo evento — l’Italia si era posta al di fuori persino dei pilastri europei in materia, che prevedono politiche di riduzione del danno e soprattutto del rischio. In pratica quelle che servono a tutelare la salute delle persone».
Momenti di tensione si sono registrati con i venditori abusivi. Suscitando diverse polemiche quest’anno anche l’edizione italiana era diventata un happening stanziale, in un’area pubblica, abbandonando la manifestazione in stile «street parade». Una scelta analoga era stata fatta da tempo in altre parti del mondo (oggi la stessa manifestazione si è svolta in quasi 700 città). Gli organizzatori ci tengono a dire «sarà così, almeno per ora».
Il motivo lo si è visto poche ore dopo l’inizio dell’iniziativa. Quando i venditori della camorra, che imperversano in tutte le manifestazioni capitoline, hanno iniziato a invadere lo spazio per vendere da bere e in questo caso anche erba. La musica è stata spenta. «Doveva reagire la piazza — spiegano ancora gli organizzatori — quelli che vengono qui dovrebbero avere la consapevolezza di cosa significa essere contro le mafie, contro il “sistema”». È servito controllare gli ingressi, per una manifestazione che va specificato è totalmente gratuita, per far sì che i venditori abusivi restassero all’esterno, praticamente tutti provenienti dell’hinterland partenopeo.
In quella che è diventata una piazza a favore dell’autoproduzione con 7 sound system, le associazioni che si battono per la qualità della vita e l’ambiente, workshop informativi, dibattiti, autoproduzione agroalimentare a chilometro zero. Siamo qui tutti insieme per dire no alla trasformazione di un monopolio in un duopolio, perché non vogliamo che alle mafie si sostituiscano le concessioni rilasciate alle multinazionali del tabacco e del farmaco», continuano.
La richiesta è solo una: «Ribadire per malati e consumatori il diritto a coltivare una pianta».
Anche in questo 2015, contemporaneamente in circa 700 città del mondo torna l’annuale appuntamento mondiale antiproibizionista della Million Marijuana March. L’edizione italiana, la 15esima, è in programma oggi, sabato 9 maggio, a Roma, a partire dalle ore 13, alla Città dell’altra economia. La prima novità di quest’anno è proprio l’abbandono, gli organizzatori ci tengono a specificare «almeno per ora», della manifestazione in stile “street parade” per passare ad una modalità stanziale, in una grande villa comunale. L’obiettivo di questa scelta è «impedire l’imperversare dei dipendenti della camorra, che scorrazzano con i loro carrelli, bagnarole e ombrellini, vendendo bibite e altro, ma anche dei loro colleghi africani, che si aggirano esponendo grandi buste di erba in vendita, sempre di origine narcomafiosa, impossibili da arginare in una manifestazione di decine di migliaia di persone danzanti tra i camion in movimento».
Nonostante si chiami March (marcia), prima di Roma avevano già optato per questa scelta città come Londra e Amsterdam, oppure l’Australia. Gli organizzatori dell’edizione italiana vedono del resto come un «controsenso fare un’iniziativa contro il sistema se poi dentro ci ritroviamo il sistema». Ed è difficile dargli torto. Secondo motivo alla base delle scelta, unire la parte manifestazione, spettacolo e musica a quella dei contenuti, come i seminari e collegamenti video, «perché non siamo convinti che tutto il popolo anela alla coltivazione sia consapevole del rischio che corre in questa fase». Tema centrale di quest’anno, l’interesse dei mercati per la legalizzazione delle droghe leggere.
«Dal monopolio si sta passando al duopolio, in mano alle mafie e alle multinazionali, che spesso sono la stessa cosa, mentre i privati che coltivano le proprie piante continuano a finire in galera», denuncia Alessandro “Mefisto” Buccolieri, storico animatore della rete italiana antipro. L’esempio lampante di questo meccanismo è il Canada, dove le quasi 40mila licenze inizialmente rilasciate ai cittadini in concessione governativa sono state ritirate per essere affidate in esclusiva ad alcune grandi società. «Il problema è che restiamo sempre esclusi — continua “Mefisto” — perché ci viene tolto il diritto di usufruire di una pianta che è un pezzo del patrimonio botanico del pianeta, di un bene comune, di una risorsa naturale. Il nostro modello di riferimento è quello dell’autoproduzione, dell’autogestione e dell’autorganizzazione. La nostra solidarietà è col mondo delle reti contadine, verso tutte le forme di resistenza del nostro tempo, poiché abbiamo comuni nemici».
La Million 2015 sarà di conseguenza un’agorà nella quale oltre a 6 sound system, cibo e banchetti informativi, verrà allestita un’area dedicata a dibattiti, interventi, presentazioni di libri, laboratori e workshops. Insieme alle associazioni che si occupano di contrastare gli effetti del proibizionismo e ai vari produttori di canapa che la trasformano in cibo, tessuti, carta, bioedilizia, cosmetici e altro, sono state invitate tutte quelle realtà che nei territori difendono l’ambiente e la qualità della vita contro inceneritori, discariche, trivelle, antenne, radar, pesticidi, impianti nocivi, servitù militari e “grandi opere” devastatrici. Mentre gli organizzatori, dal canto loro, hanno aderito al movimento no-Expo, «in quanto ha come sponsor Coca-Cola e McDonald’s, mentre il nostro modello di riferimento è ad esempio il “genuino clandestino”», precisano.
Dalla Million verrà infine lanciato un monito alla politica: «Chiunque vorrà legiferare in materia, mettendo al centro, magari anche in maniera velata o non dichiarata, gli interessi del mercato e delle multinazionali con meccanismi di concessioni, come già avviene per alcol e tabacco, invece dei diritti delle persone che usano sostanze, individuati ancora un volta come cittadini/clienti da spremere, ci troverà sulla loro strada».
C’è antimafia e antimafia, come ricorda spesso don Ciotti. Ce n’è una che fa della legalità un feticcio intangibile e un’altra che persegue il cambiamento, anche delle leggi ingiuste. C’è quella che si affida alla tortura del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e quella che vorrebbe si investisse su cultura, educazione, politiche sociali, responsabilità della politica.
C’è l’antimafia delle passerelle e quella del buon senso. Quest’ultima, con la recente Relazione della Dna di Franco Roberti, ha battuto un colpo. Tanto più significativo data la fonte, certo non sospetta di «permissivismo» o di «cultura dello sballo», per usare gli epiteti con cui i tifosi della «war on drugs» usano stigmatizzare chi non fa della tolleranza zero verso i consumatori di sostanze una crociata.
La Relazione annuale (datata gennaio 2015 e relativa al periodo 1° luglio 2013–30 giugno 2014), nel capitolo relativo alla criminalità transnazionale e al contrasto del narcotraffico, giustamente prende le mosse dalla dimensione statistica. Va detto che i numeri di riferimento, di fonte Unodc, non sono freschissimi (2010–11, marginalmente 2012) e anche ciò è indicativo di come all’enfasi allarmistica di organismi Onu non corrisponda poi uno sforzo adeguato e tempestivo di monitoraggio, né una sufficiente esaustività: per quanto concerne le droghe sintetiche, definite «fenomeno in grande espansione che rappresenta la nuova frontiera del narcotraffico», la Relazione Dna afferma che «né l’Unodc né altri organismi internazionali dispongono di dati sicuri».
Ma, al là delle cifre e sia pure a partire da esse, la Relazione è netta nella valutazione: ritenere che il traffico di droghe «riguardi un popolo di tossicodipendenti, da un lato, e una serie di bande criminali, dall’altro, è forse il più grave errore commesso dal mondo politico che, non a caso, ha modellato tutti gli strumenti investigativi e repressivi sulla base di questo stolto presupposto». Si tratta, invece, di fenomeno che riguarda e attraversa l’intera società, la sua economia, la totalità delle categorie professionali. Dunque, ne consegue, irrisolvibile con lo strumento penale.
Per quanto riguarda l’Italia, e in specie le droghe leggere, i ricercatori della Dna scrivono di un «mercato di dimensioni gigantesche», stimato in 1,5–3 milioni di chili all’anno di cannabis venduta. Una quantità, viene sottolineato, che consentirebbe un consumo di circa 25–50 grammi pro capite, bambini compresi. Coerente la conclusione: «senza alcun pregiudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia, si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva».
Nel caso si volesse continuare a fare al riguardo come le tre proverbiali scimmiette, la Relazione non si sottrae dall’indicare esplicitamente, pur nel rispetto dei ruoli, la strada: «spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo ) sia opportuna una depenalizzazione della materia».
Inutile dire che la Relazione è rimasta sinora priva di risposte da «chi di dovere».
La decennale pervicacia dell’ideologia repressiva, e del connesso grumo di interessi, che condiziona i governi di diverso colore e che ha prodotto, o tollerato, l’obbrobrio della legge incostituzionale Fini-Giovanardi, è dura da estirpare. Ma il buon senso e i fatti hanno la testa dura: il muro criminogeno del proibizionismo si sta sgretolando in più di un paese, come ha riepilogato qui Grazia Zuffa («il manifesto» dell’11 marzo 2015).
Verrà il momento anche dell’Italia, dove ancora, come diceva il compianto Giancarlo Arnao, è proibito capire.
Una celebre immagine di Bob Marley
Giamaica. Il governo sottopone al senato un progetto di legge che depenalizza la detenzione di marijuana
Per la prima volta la comunità rastafariana residente in Giamaica, che usa la marijuana quasi come un precetto religioso, potrebbe fare il suo ingresso nella legalità. Ma anche chi (come ad esempio i turisti) ne fa un uso ludico, potrebbe ridurre sensibilmente il rischio di dover fare i conti con la giustizia.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, l’isola caraibica non ha mai avuto una legislazione anti-proibizionista e, anzi, da alleata fedele degli Stati uniti ha sempre assecondato le politiche repressive decise a Washington sulla materia. Ma ora le cose potrebbero cambiare. Il governo infatti ha pronto un progetto di legge in cui viene consentita per la prima volta la «modica quantità». Il provvedimento regolamenta anche le licenze di coltivazione, vendita e distribuzione della cannabis per uso terapeutico. Ma sancisce il divieto di fumare marijuana nei luoghi pubblici. La legge verrà presentata in senato nei prossimi giorni.
Una svolta, quella che si profila nell’ordinamento giuridico dell’isola, che si inserisce nella linea di discontinuità — dopo decenni di fallimentare «war on drugs» ispirata e imposta dagli Usa — già tracciata da alcuni governi latinoamericani. Messico, Colombia e Argentina hanno depenalizzato il possesso di modiche quantità negli ultimi anni, il Guatemala sta pensando a una legge che vada anche oltre e l’Uruguay ha approvato lo scorso anno una legge all’avanguardia che — unica al mondo — legalizza coltivazione, vendita e distribuzione dell’«erba».
Il 2014 è stato l’anno della svolta nelle politiche sulla cannabis negli Stati Uniti. Lo riassume bene l’associazione americana Norml che da oltre quaranta anni si batte per la riforma della politica delle droghe statunitense. ll paese promotore del proibizionismo mondiale si ritrova a fare i conti con la depenalizzazione e la legalizzazione della vendita della marijuana in almeno quattro importanti stati della federazione.
L’anno era iniziato con l’apertura dei primi negozi per il commercio della marijuana anche per uso ricreativo in Colorado (gennaio) e poi nello Stato di Washington (luglio). I due stati avevano preso la loro irrevocabile decisione in occasione delle ultime elezioni presidenziali del 2012, grazie alla schiacciante vittoria nei relativi referendum. A novembre 2014, in occasione delle elezioni di metà mandato, anche i cittadini dell’Oregon, dell’Alaska e del distretto federale della Colombia, il distretto della capitale Washington, hanno approvato la depenalizzazione dell’uso della marijuana a scopo ricreativo. Ancora, a febbraio, un importante passo avanti: il Congresso ha riconosciuto l’autonomia degli stati in materia di politica della droga, ponendo fine al conflitto con i poteri centrali, visto che la normativa sulle droghe è di competenza federale.
Ed anche il Presidente Barack Obama è intervenuto per limitare la possibilità che il Dipartimento di Giustizia possa adottare misure penali contro coloro che agiscono nel rispetto delle leggi sulla marijuana medica negli stati che le hanno approvate.
Oltre i confini degli stati pionieri, il vento della riforma scuote tutta l’America. In un’indagine del Wall Street Journal e un sondaggio di NBC News, nel marzo 2014, gli intervistati dichiarano che il consumo di cannabis comporta meno danni alla salute di quanto non faccia il consumo di tabacco, l’alcol, o l’eccesso di zucchero. Il giudice distrettuale Kimberly Mueller ha avviato in ottobre le procedure per dimostrare l’incostituzionalità della presenza della marijuana nella Tabella I della legge antidroga, supportata dalle evidenze scientifiche che contrastano con la definizione della cannabis come «sostanza che crea una grave dipendenza», «con alto potenziale di abuso» e «senza usi utili alla medicina».
Nel frattempo negli stati che hanno legalizzato la marijuana per usi medici, sono diminuiti i morti per overdose da oppiacei come documentato dallo studio della testata medica Jama Internal Medicine, pubblicato in agosto; mentre già in aprile, sulla rivista Plos one, si dimostrava come in quegli stessi stati fossero diminuiti omicidi ed aggressioni. Tutto questo senza considerare l’introito che deriva dalla tassazione delle vendite della marijuana liberalizzata, che nel solo Colorado, da gennaio ad agosto, ha reso quarantacinque milioni di dollari: soldi in più a disposizione della comunità che potranno essere investiti in istruzione e progetti sociali.
In Italia, l’accordo fra i ministeri della Salute e della Difesa per l’avvio della coltivazione per uso medico della canapa da parte dell’Istituto Farmaceutico Militare di Firenze sembra già impantanato nel labirinto burocratico. La depenalizzazione della coltivazione ad uso personale, soluzione semplice e razionale, rimane bloccata in Parlamento, mentre il mercato nero che foraggia anche la criminalità cresce costantemente seguendo il trend di consumo della cannabis in aumento in tutta l’Europa.
Il 2014 negli Stati Uniti dimostra che forse l’insensata e fallimentare guerra alla droga volge finalmente al termine ed è tempo anche in Italia di superare l’impostazione proibizionista, trovando soluzione nuove ad una questione che coinvolge migliaia di cittadini.
Fuoriluogo. La proposta di avviare nelle principali città l’esperimento pilota. Al progetto lavora un gruppo di esperti
Le varie parti in causa del nostro pianeta stanno arrotando i lunghi coltelli in vista di Ungass 2016, l’Assemblea generale dell’Onu sulle droghe che dovrà decidere se congelare tali e quali (o con ritocchi di poco conto) le attuali convenzioni internazionali, ovvero modificarle in modo sostanziale; e la cannabis, al solito, sarà nell’occhio del ciclone.
A parte i noti positivi sviluppi in vari paesi europei e nelle Americhe, pare di notevole interesse la pur cauta evoluzione della situazione svizzera. Infatti la Confederazione, anche se non è membro Ue, sta proprio dietro l’angolo di casa nostra, ed è da sempre assiduamente frequentata per diversi motivi da molti nostri concittadini: dagli anarchici di «Addio Lugano bella», ai perseguitati dai nazifascisti; dagli emigranti con le valige di cartone di «Pane e cioccolato», ai corrieri di valuta e ai vacanzieri di diverse classi sociali, su su sino ai Paperoni griffati che si esibiscono a Saint Moritz o a Crans-Montana.
La Svizzera, com’è noto, qualche anno fa modificò la sua normativa sulle droghe con una buona legge detta dei quattro pilastri così definiti nel testo ufficiale: 1. prevenzione, 2. terapia e reinserimento, 3. riduzione dei danni e aiuto alla sopravvivenza (sic), 4. controllo penale — quest’ ultimo mirato alle attività criminali vere e proprie, piuttosto che ai consumatori, sui quali ormai si chiude un occhio, o al massimo si affibbiano sopportabili ammende (100 franchi, circa 80 euro). Ora gli elvetici stanno muovendo ulteriori passi in avanti
(http://?www?.swis?sinfo?.ch/?e?n?g?/?c?a?n?n?a?b?i?s?-?l?e?g?a?l?i?s?a?t?i?o?n?-?r?e?t?u?r?n?s?-?t?o?-?s?w?i?s?s?-?a?g?e?n?d?a?/?4?1?1?198 ): cioè la stessa Ruth Dreifuss, che come ministro degli interni promosse la suddetta legge, propone di avviare nelle principali città un esperimento pilota con l’apertura di Cannabis Social Club (Csc), dove i maggiorenni sarebbe autorizzati a consumare cannabis in santa pace. Significativo è il metodo con cui viene affrontato il problema: cioè così come la legge dei quattro pilastri era stata il frutto di accurate valutazioni di precedenti esperienze (per esempio quella di riduzione del danno a Zurigo), ora il problema di una eventuale futura legalizzazione della cannabis viene affidato in prima battuta a un gruppo di lavoro di esperti delegati a disegnare le caratteristiche del progetto pilota, a programmare le successive valutazioni «ad avanzamento» per accertarne benefici e rischi.
Gli oppositori naturalmente non mancano, dagli attivisti delle associazioni proibizioniste, che volantinano strade e piazze reggendo in mano moccoli accesi, ai politici di destra che fanno esternazioni terroristiche. Ma il clima prevalente è comunque assai diverso da quello del nostro paese, dove si è giunti a inventarsi inutili tortuose lungaggini pur di intralciare l’applicazione delle norme sulla cannabis terapeutica. E questo, a fronte delle solide evidenze scientifiche che consentirebbero l’imbocco di una via direttissima agevolmente percorribile, come la fornitura al Farmaceutico Militare di Firenze di «materie prime» con specifici profili di principi attivi, tratte dalla ricca collezione del Centro di ricerca per le colture industriali di Rovigo. Evidenze, va inoltre precisato, non solo dell’efficacia in diverse condizioni patologiche — soprattutto ma non soltanto le diverse neuropatie e gli stati di grave malessere da terapie oncologiche — ma anche dei vantaggi e dei minori costi di prodotti e vie di autosomministrazione più vicini al «naturale», come l’aspirazione attraverso il palloncino dei vapori di cannabis «riscaldata».
Ma ahinoi, il breve tunnel tra Como e Chiasso sembra sbarrato; quindi, per ora, arrivederci speriamo a presto, Lugano bella.
Sono passati i tre referendum per il suo utilizzo a scopo medico e ricreativo, in Florida non è stato raggiunto il quorum
Oltre alle elezioni di metà mandato, che hanno visto una netta vittoria dei repubblicani, negli Stati Uniti martedì 4 novembre si sono tenuti referendum di iniziativa popolare su diversi temi: l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica si è concentrata soprattutto su quelli per lalegalizzazione della marijuana a scopo ricreativo in Oregon, Alaska e nel District of Columbia, e per il suo utilizzo a scopo medico in Florida.
Oregon – Sì
I cittadini dell’Oregon hanno approvato con oltre il 54 per cento l’utilizzo della marijuana a scopo ricreativo. Ciascun cittadino con più di 21 anni di età può quindi possedere circa due etti di marijuana e può coltivarla in proprio (massimo sei piante). L’approvazione del referendum rende inoltre possibile la vendita e la coltivazione della marijuana a fini commerciali. Un provvedimento simile era stato votato e respinto nel 2012. Nei primi anni Settanta l’Oregon fu tra i primi stati a depenalizzare il possesso di piccole quantità.
Washington, D.C. – Sì
Con circa il 70 per cento di voti favorevoli, nel District of Columbia è stata approvata l’Initiative 71. Ogni cittadino con più di 21 anni può quindi possedere un massimo di 55 grammi di marijuana e può coltivare in casa fino a sei piante del prodotto. La norma approvata non consente tuttavia la produzione e la vendita a scopo commerciale, a causa di alcune limitazioni dovute a come funziona la regolamentazione del commercio: agli elettori non è consentito votare referendum che tra le altre cose stabiliscano sistemi di tassazione.
Florida – No
Oltre il 57 per cento degli elettori ha votato a favore di una proposta per rendere legittimo l’utilizzo della marijuana a scopi medici, ma non essendo stato superato il quorum richiesto del 60 per cento il referendum non è passato. La proposta prevedeva che le persone con malattie debilitanti come tumori, sclerosi multipla, AIDS e morbo di Parkinson potessero fare ricorso alla marijuana per alleviare i sintomi.
Alaska – Sì
In Alaska gli elettori hanno approvato una proposta di legge per permettere a ogni cittadino con più di 21 anni di possedere al massimo una trentina di grammi di marijuana e di coltivarne 6 piante. È prevista anche la possibilità di coltivare e vendere a fini commerciali la cannabis. Formalmente dal 1998 in Alaska è consentito l’utilizzo della marijuana a scopo terapeutico, ma non ci sono centri dove i pazienti con regolare prescrizione medica la possono recuperare a causa delle scelte di numerosi politici conservatori locali. Di conseguenza da anni i pazienti sono costretti ad acquistare la marijuana sul mercato nero.
Guam – Sì
Si è votato un referendum sulla marijuana anche a Guam, l’isola nell’oceano Pacifico occidentale che ha uno statuto di territorio non incorporato degli Stati Uniti. Con il 56 per cento circa di voti a favore,è stata approvata una proposta che rende legittimo l’utilizzo della marijuana a scopo medico. Spetterà ora al governo locale la produzione di una legge e dei regolamenti necessari come indicato dagli elettori.
La legge federale degli Stati Uniti proibisce l’utilizzo, la vendita e il possesso della marijuana. Tuttavia, negli ultimi anni molti stati hanno adottato autonomamente leggi e regolamenti che permettono eccezioni alla regola generale, depenalizzandola e consentendo l’utilizzo della cannabis per scopi medici o ricreativi. Oltre agli stati in cui si sono svolti i referendum martedì, l’utilizzo a scopo ricreativo della marijuana è permesso nello stato di Washington e nel Colorado. I contenziosi tra livello federale e livello statale si sono ridotti in seguito alla decisione nel 2012 da parte dello stato federale di non opporsi ai provvedimenti sulla legalizzazione della cannabis nei singoli stati.