Politica & Poteri

Alcuni fra i miei amici e soprattutto amiche hanno intenzione di votare +Europa e la persona di Emma Bonino. Ottima scelta mi verrebbe voglia di dire, perché si tratta di una persona di grande coerenza e simpatia, e rappresenta una storia di dignità e di coraggio: la storia del partito radicale, nonostante le attuali polemiche che mal comprendo.

Marco Pannella venne a Parigi quando ero esule in quella città nel 1977. I politici di tutte le appartenenze mi consideravano un appestato o un mascalzone perché coi miei compagni parlavamo ai microfoni di una radio che denunciava l’alleanza austeritaria della Dc e del Ppc, e Pannella venne a portarmi la sua solidarietà e insieme partecipammo a un convegno dedicato a Pasolini, che era presieduto da Julia Kristeva.  Chapeau.

Già allora pensavo però che Pannella ed Emma Bonino come lui avessero una cultura tutta politico-giuridica, ma non avessero la più pallida idea di cosa sia lo sfruttamento e di cosa siano le lotte sociali.

Emma Bonino chiede il voto per avere più Europa, dice che per rispettare le regole imposte dal fiscal compact per cinque anni dovremmo bloccare ogni voce di spesa. Fantastica idea, ma pericolosa: i treni pendolari cascherebbero a pezzi, gli incidenti si moltiplicherebbero peggio di come già succede ora. Gli studenti delle scuole periferiche d’inverno morirebbero dal freddo e i calcinacci gli romperebbero la testa, mentre migliaia di insegnanti si suiciderebbero per la miseria e per la depressione. Milioni di persone rimarrebbero senza assistenza sanitaria, gli ospedali si troverebbero senza siringhe e senza cerotti. I medici emigrerebbero verso la sanità privata.

Alla faccia della non violenza quante decine di migliaia di morti ci costerebbe l’idea della brava Emma? No, distruggere quello che resta dello stato sociale non è una buona idea.

Questo vuol dire forse che io voglio meno Europa? No, vuol dire che Emma Bonino ha capito male cos’è l’Europa.

Negli ultimi dieci anni l’Unione europea è morta nel cuore della maggioranza degli europei, e l’antieuropeismo cresce a dismisura proprio perché la classe dirigente neo-liberista ha trasformato l’Unione in uno strumento del potere finanziario, così i lavoratori vedono l’Unione come la causa della loro miseria. L’imposizione del fiscal compact, il sistematico prelievo di risorse dalle tasche di chi lavora per ripianare il debito delle banche è la causa evidente dell’agonia dell’Unione.

Il fiscal compact è un cappio al collo della popolazione europea. E quando il cappio si stringe non arriva più sangue al cervello, e la popolazione europea, col cervello in agonia, segue i predicatori di violenza, di odio, di nazionalismo razzista. Questo è il fiscal compact.

Bonino fa lo stesso errore degli anti-europeisti, di coloro che vogliono tornare all’illusoria sovranità nazionale: identifica l’Unione europea con il fiscal compact.

Io voto Potere al popolo perché sono europeista, e voglio che l’Unione non sia uno strumento del sistema finanziario ma uno strumento per l’uguaglianza salariale di tutti i cittadini europei, per la solidarietà e per il reddito di esistenza, per la riduzione dell’orario di lavoro. Voto Potere al popolo perché nonostante questo nome un po’ retrogrado vuole rompere la dipendenza della società dalla regola autoritaria del Fiscal compact, vuole liberare le energie della società dal dominio del sistema finanziario.

FONTE:  Bifo, IL MANIFESTO

E quattro. Quattro medaglie al merito dell’orrore interno a quello che si fa chiamare Partito democratico. Nell’elenco, dopo il senatore Stefano Esposito che, all’assoluzione di Erri De Luca accusato di istigazione alla violenza dei No Tav, esclamò: «Sono sollevato, finalmente avremo un presunto martire di meno in giro»; dopo le dichiarazioni della governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani: «Lo stupro è più inaccettabile se compiuto da chi chiede accoglienza»; e dopo lo stesso Renzi sui migranti: «Aiutiamoli a casa loro».

Stavolta, più esplicito, «sentito» e senza infingimenti, ecco le parole inequivocabili di Diego Urbisaglia, consigliere comunale e provinciale Pd ad Ancona: «Se in quella camionetta ci fosse stato mio figlio, gli avrei detto di prendere bene la mira e sparare». Nell’anniversario dell’uccisione di Carlo Giuliani, 16 anni fa a Genova, non è poco. Se ormai il senso comune della destra estrema entra nel sentire e nel lessico «democratico», la stagione di Matteo Renzi ha davvero sbagliato la mira. E non conosce vergogna.

FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO

Negli Stati uniti, dopo l’elezione di Donald Trump, la domanda che tutti si facevano era sempre la stessa: e adesso a chi tocca? E’ possibile che anche Marine Le Pen possa vincere le elezioni francesi? Gli scenari che si delineano sono un’alternativa tra una specie di teoria del domino (i governi liberali cadono uno dopo l’altro e uno spinge il prossimo nell’abisso) e un principio di contagio, su uno sfondo di crollo delle politiche di redistribuzione minate dalla mondializzazione capitalista.

LA BREXIT RAPPRESENTA UN SEGNALE PREMONITORE. Il fallimento di Renzi e la rinuncia di Hollande fanno eco alla sconfitta di Hillary Clinton. L’elezione presidenziale austriaca appare solo come una semplice tregua. La questione di sapere se Merkel «terrà » di fronte all’estrema destra tedesca (prima del recente attentato di Berlino) era considerata una variabile strategica. Ma scopro che le stesse domande agitano l’opinione pubblica europea. E dalle due sponde dell’Atlantico è la categoria del «populismo» che continua a polarizzare analisi e anticipazioni.
In effetti, Unione europea e Usa si rispecchiano in modo rivelatore. Al di là delle molteplici differenze – numerose e ben note – l’interazione dei due processi e la luce che ogni situazione proietta sull’altra devono permetterci di interpretare ciò che si sta sviluppando, da una parte e dall’altra, come una vera e propria crisi dell’istituzione politica e di individuarne i punti sensibili, evitando da un lato le generalità vuote di senso e dall’altro un provincialismo ottuso. Questo è tanto più vero perché, da parte europea, la scala continentale è il livello adeguato di percezione: la paralisi che investe progressivamente i sistemi rappresentativi (Inghilterra, Spagna, Italia, Francia) e li espone alle ricette demagogiche del nazionalismo e del protezionismo non è che l’altro lato della medaglia della decomposizione del progetto europeo inteso come progetto politico. E, da parte americana, il declino dell’egemonia imperiale comincia a far sentire gli effetti disgregativi sul «contratto sociale» di cui costituiva una delle condizioni materiali, e sulla costruzione costituzionale, anche se una delle più antiche e meglio «regolate» al mondo grazie al sistema dei checks and balances.

PER NOI EUROPEI, L’EPISODIO ELETTORALE AMERICANO COMPORTA, mi pare, una triplice lezione (almeno) che dovremmo saper adattare alla nostra storia, alle nostre istituzioni e alle nostre pratiche. In primo luogo – è il senso della « sconfitta » di Hillary Clinton (o piuttosto della sua incapacità a prendere il vantaggio sull’avversario, visto che ha di fatto avuto un maggior numero di voti) – è vano cercare di «neutralizzare» la politica in senso alto (e quindi prolungare senza limiti lo statu quo della governance postdemocratica) camuffando l’intensità delle divisioni che il capitalismo selvaggio ha prodotto o riattivato: fratture di classe (sia economiche che culturali), fratture etno-razziali (intensificate, nella fattispecie, con discriminazini religiose), fratture morali (intensificando in particolare i conflitti sui valori famigliari e sessuali).
In secondo luogo – è il senso del paragone tra i movimenti guidati da Trump e da Bernie Sanders – bisogna rinunciare una volta per tutte ad utilizzare la categoria del «populismo» per amalgamare i discorsi di destra e di sinistra. La crisi del «sistema», in termini sia di legittimità che di rappresentatività, è un fatto politico oggettivo, non è una «dottrina». Le conclusioni che se ne traggono (anche quando non disdegnano delle possibilità di amalgama), sia nel senso di un nazionalismo xenofobo, sia in quello di una ricerca del «popolo» mancante (cioè di una nuova sintesi delle resistenze e delle speranze democratiche) vanno in direzioni diametralmente opposte.

INFINE, IN TERZO LUOGO, I MODELLI ISTITUZIONALI DIVERGENTI, radicati nella storia, offrono senza alcun dubbio condizioni diverse per la politica. Ma non possono nascondere l’emergenza generale, in queste due regioni del mondo (che hanno inventato il modello democratico dell’epoca borghese, poi l’hanno adattato ai movimenti di emancipazione e alle lotte sociali del XX secolo), di un problema costituzionale, che ha come posta in gioco l’oscillazione tra una de-democratizzazione irreversibile e una «democratizzazione della democrazia». Democratizzare la democrazia significa fare posto alla formidabile esigenza popolare di partecipazione, con il rischio di riaprire scontri di «partiti » (o di concezioni del mondo). Significa reinventare una cittadinanza attiva, un «conflitto civile ».

LE SCELTE DI SOCIETÀ E DI VALORI CHE ABBIAMO DI FRONTE, DA UN continente all’altro, hanno valenze temibili, non soltanto mondiali ma «globali » nel senso che, poco per volta, si contagiano le une con le altre, e sembrano assumere una forma di condizione di impossibilità per trattare in modo razionale i dati che le riguardano, sia su scala nazionale che su quella transnazionale. E’ il caso del riscaldamento climatico, che colpisce le risorse e le condizioni di vita di una popolazione in crescita. E’ il caso della deregulation del capitalismo finanziario, o della corsa alla liquidità, il cui rovescio della medaglia è l’esplosione della precarietà sociale. E’ il caso dello «scontro di civiltà», fantasma autorealizzatore la cui base «reale» è costituita dal nuovo regime delle migrazioni e del meticciato culturale. Ad ogni punto di intersezione, la violenza estrema è virtualmente presente, o addirittura essa si scatena, attizzata dalle nostalgie di imperi o dalle pretese di universalità, dagli interessi nel commercio degli armamenti, dal panico securitario (nutrito da pericoli ben reali e altri immaginari riuniti sotto il nome di «terrorismo»).
Di fronte a queste sfide, lo constatiamo ogni giorno, le strutture statali esistenti – nazionali, federali o sovranazionali – sono impotenti (e questa «impotenza dell’onnipotente» genera essa stessa effetti di folla che possono diventare incontrollabili).

INVERSAMENTE, LE «ASSEMBLEE» SPONTANEE CHE FANNO RIVIVERE l’idea del popolo in quanto potere costituente (come Occupy Wall Street, Syntagma o Gezi Park, Nuit Debout ecc.) sono testimonianze dell’energia civica disponibile per un rinnovamento della democrazia, ma sono tragicamente impotenti di fronte all’accumulazione e alla concentrazione dei poteri monopolizzati dall’oligarchia. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di più. Il populismo nazionale – lo vedremo con Trump, come lo vedremo con i suoi emuli europei – non può rispondere né sul piano della protezione e della regolazione, né su quello della partecipazione e della rappresentazione, perché pone in termini irreali e discriminatori la questione fondamentale del posto, o dello spazio di vita, di incontro e di lotte che in un mondo di delocalizzazioni deve organizzare per tutti, a cominciare da coloro che fanno vivere gli altri. Ciò che avevo osato un tempo chiamare un “contro-populismo transnazionale” non costituisce in sé nessuna soluzione, neppure un progetto. Tuttavia è il termine che conviene oggi, credo, se vogliamo riunire i dati del problema, la cui posta in gioco è la sopravvivenza della politica. In Europa, in America. Senza dubbio anche altrove, in termini tutti da inventare.

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Lo spettacolo è francamente inguardabile, a una settimana dal voto che ha travolto Matteo Renzi e il suo governo. Intendo lo spettacolo pubblico, recitato «in alto» dall’intero establishment.
Il modo con cui nasce il governo Gentiloni, le procedure del suo incarico (con le cosiddette consultazioni parallele tra il Colle e Palazzo Chigi, cose mai viste!). E poi la sua composizione (fotocopia)

Sono un insulto al voto degli italiani, al principio di realtà, alla stessa Costituzione miracolosamente salvata il 4 dicembre: al suo articolo 1 naturalmente, e al meno noto articolo 54 (che impone, per le funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore», cioè accettando i verdetti popolari e rispettando verità e parola data). Che a Palazzo Chigi sieda un «uomo di Renzi», che il governo Renzi succeda a se stesso nella maggior parte dei suoi membri, soprattutto che Matteo Renzi continui a detenerne la golden share mantenendo la segreteria del Partito e di lì accanendosi a inquinare la vita politica, dopo aver dichiarato che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato da tutto, è un danno d’immagine devastante non solo per lui e il suo partito, ma per l’intero Paese.

Sembra fatto apposta per confermare la peggiore immagine degli italiani, furbeschi e infingardi. Non un buon viatico per le nostre banche e i nostri conti. In fondo David Cameron, che pure non era un granché, è sparito dalla scena dopo la Brexit (perduta peraltro per un soffio), e con lui i suoi uomini più fedeli, altro che Lotti ministro (con delega all’editoria) e Maria Elena più che mai in sella!
Diverso il quadro «in basso».

Il voto – quel NO urlato nelle urne – comunica un messaggio politico potentissimo. Parla alla politica con il linguaggio duro dei cataclismi naturali.

E lo fa anche, e soprattutto, perché ha, alla sua radice, un fortissimo, durissimo, connotato sociale. Lo dicono tutte le analisi dei flussi: la mappa del NO ricalca, fedelmente, la mappa del disagio. Anzi, dei disagi: sociale, generazionale, di genere, territoriale. Il No cresce, esponenzialmente, col diminuire del reddito disponibile, coll’aumentare della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, con il passaggio dai centri alle periferie delle grandi città, e naturalmente con l’esplosione del Sud.
Si potrebbe dire che il populismo dall’alto renziano – la sua baricchesca narrazione – si è schiantato contro un popolo impastato di realtà. E di sofferenza, materiale ed esistenziale. È stato, quel voto che in tanti vorrebbero mettere in soffitta, una gigantesca porta sbattuta in faccia a tutti gli establishment, nazionali ed esteri.

Si potrebbe dire che non è cosa nuova. Che già il voto inglese, e in parte quello americano, avevano alla radice quello stesso reticolo di rabbia sociale, malessere, impoverimento e risentimento dei fargotten contro le rispettive élites. Ma per l’Italia vale un dato diverso, e originale. Qui è avvenuto il «miracolo» per cui quella rabbia e quel disagio hanno trovato, come punto di convergenza e comun denominatore, la Costituzione.

La Costituzione democratica, egualitaria e antifascista intorno a cui hanno dovuto raggrupparsi tutti, anche quelli che, per appartenenza politica, starebbero da un’altra parte. Non è poco. Anzi, direi che è (quasi) tutto. Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come «loro»: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. Per questo credo si possa dire che, per le dimensioni della partecipazione e per il segno inequivoco del responso, il Referendum costituzionale del 4 dicembre assume carattere «costituente».

Costituente all’interno, nei confronti della politica italiana, perché dice forte e chiaro che nessuno deve più azzardarsi a tentare di manomettere la nostra Costituzione e di deformarne forma di governo e sistemi di garanzie istituzionali. E costituente verso l’esterno, verso l’Europa in primis, perché dice che non sono più ammissibili intromissioni volte a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, a ledere i diritti costituzionalmente garantiti e a limitare o deformare il principio di rappresentanza. Non si tratta di adeguare la Costituzione italiana ai trattati internazionali, ma di riconoscere solo quei trattati che ne rispettano le linee guida.

Costituente, in fondo, anche, nel nostro piccolo, per noi. «Abbiamo difeso la Costituzione, adesso imponiamo di attuarla!». Questo potrebbe essere il programma comune di quella ampia, variegata, creativa area che su un versante radicalmente democratico si è battuta per il NO. La premessa per trasformarla nell’embrione di una proposta di rappresentanza elettorale. Ma non nascondiamocelo: è un’impresa impegnativa. Che richiederà molti passi indietro e ancor più passi avanti. Perché non è cosa da frammenti di vecchie identità infrante. Richiederà soprattutto la necessità di assumere una logica da «anno zero». Nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove forme di ascolto di un sociale diventato indecifrabile per le consuete culture politiche: un esodo dalle macerie avendo però, come ragione, finalmente una vittoria.

Tutto, ma davvero tutto, si è consumato, compresa quell’ombra lunga di centro sinistra cui ancora molti superstiti sembrano guardare (e che con l’estremo endorsement di Prodi si è definitivamente inabissato); compresa la patetica nostalgia di Giuliano Pisapia per un Pd che non c’è più come se lì, dopo il bagno renziano, non si fosse consumata una vera mutazione antropologica… Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato.

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«Distorsioni cognitive», così Michele Prospero (il manifesto, 24 novembre) ha chiamato gli effetti dell’ «impressionante» schieramento mediatico messo in campo, in particolare nel settore televisivo, per orientare verso il si l’esito del referendum. Non esiste, però, ambito sottratto alla tentazione delle «distorsioni cognitive» quando si ritiene tale risultato necessario alla conservazione di un assetto politico essenziale allo «stato di cose presente». Così anche settori appartenenti alla «scienza come professione», come la storiografia, si prestano a svolgimenti in termini di narrazione «volgare».

«Economia volgare» è espressione marxiana, utilizzata in particolare ne Il Capitale. Usando tale espressione Marx non si riferisce alla grande tradizione dell’economia classica. Nonostante la concezione marxiana del sapere economico diverga radicalmente da quella di Smith e Ricardo, il pensatore di Treviri ritiene i loro scritti vera opera di scienza, apportatori di conoscenza reale. Economisti «volgari», invece, erano coloro che pensavano «non si trattava più di vedere se quel teorema vero o no, ma se utile o dannoso, comodo o scomodo».

In una disciplina come quella storica che, soprattutto nella sfera contemporaneistica, ha uno statuto scientifico piuttosto debole, e che si presta facilmente ad uso politico immediato, il «meccanismo» descritto da Marx ha trovato un largo e facile uso. La narrazione ideologica basata su storiografia «volgare» emerge con tutta naturalezza, quando, come nell’occasione dell’attuale scontro referendario, le ragioni dell’opportunità politica si fanno stringenti. Emblematico, ad esempio, il caso dell’editoriale di Galli della Loggia nel Corriere della Sera del 5 novembre. Della Loggia sostiene che uno dei punti chiave della «doppia battaglia» sul referendum sia la «battaglia forse ultima e decisiva (..) di una guerra civile iniziata tanto tempo fa all’interno della Sinistra italiana tra riformisti e rivoluzionari». Tra una «sinistra massimalista (…) antiriformista a valenza estremistica» e la sinistra «riformista». La «cultura» del suddetto coacervo «massimalista» sarebbe nata «nelle viscere del ribellismo italiano» e poi, nel secondo dopoguerra sarebbe «cresciuta e alimentata nell’ambito della Sinistra comunista».

In storiografia, ed anche nella sua utilizzazione giornalistica, non si giudicano modelli astratti, bensì la loro corrispondenza con lo stato delle fonti e della letteratura consolidata.

Galli della Loggia usa termini (cioè concetti) come «massimalismo», «rivoluzionarismo», «estremismo», «ribellismo», pressoché come sinonimi, all’interno di un lungo percorso che ripete sempre se stesso. Medesima cosa per «riformismo». Fonti e letteratura consolidata ci parlano di un’altra realtà. Al di là della scelta del modello, il presupposto irrinunciabile per qualsiasi analisi storica consiste nella capacità di «distinzione», cioè nella rigorosa contestualizzazione sia dei concetti che dei fatti. Non c’è alcuna traccia che la base argomentativa dell’editoriale in questione abbia come presupposto un’operazione del genere. I concetti/categorie non sono mai storicamente determinati, si presentano invece come categorie eterne, quasi novelle categorie dello spirito, divisive tra bene e il male. In sostanza il giornalista (un tempo specialista della disciplina storica) dice ai suoi lettori: volete voi soggiacere all’eterno massimalismo, estremista, velleitario, inconcludente, ecc., oppure volete scegliere la ragionevolezza del buon senso? Esattamente la modalità, del tutto propagandistica, con cui è formulato il quesito referendario.

Di quali segnali sono indicatori fenomeni di tal genere?

Ancora Prospero in un bell’articolo dello stesso 5 novembre, sul manifesto, parla dei «moderni regimi monoclasse» come elemento causale della «pochezza dei ceti politici reclutati in occidente», della loro estraneità alla cultura del «leggere le istorie».

Ebbene la «monoclasse» dei regimi politici si integra perfettamente (il rapporto è biunivoco) con una narrazione che espunge dalla vicenda della lunga contemporaneità le radici profonde, economiche, sociali, culturali, politiche della storia delle classi subalterne.

Il contesto in cui opera con facilità la storiografia «volgare» è quello reso particolarmente fluido dal ritorno in forze del «plebeismo» non soltanto nei ceti subalterni, ma anche nei ceti, in senso lato «borghesi». Sulla funzione della sinistra rappresentata dal PCI nel secondo dopoguerra le interpretazioni storiografiche sono del tutto aperte e legittime. È difficile però non concordare sul fatto che uno sforzo particolare del partito di Togliatti fosse indirizzato proprio ad una imponente operazione pedagogica: quella di trasformare la plebe in popolo. L’eliminazione del «ribellismo» ne è stato un aspetto consustanziale. Sostenere che la «cultura del ribellismo» sia «cresciuta e alimentata» nel Pci è «retorica senza prova». Prova, invece, di storiografia «volgare».

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«Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche» (da un documento della banca americana J.P.Morgan del giugno 2013). Questo passaggio mi è tornato in mente durante il corteo del primo maggio a Torino. I media parlano di disordini provocati dagli antagonisti. Essendone stato testimone posso dire che non è andata così. Vado con ordine.

Il primo maggio è, da sempre, un’occasione di mobilitazione sui temi del lavoro e della democrazia. In questo 2016 era, dunque, l’occasione anche per raccogliere le firme a sostegno dei referendum contro l’Italicum e le modifiche costituzionali, norme che vorrebbero attribuire a una minoranza politica la maggioranza parlamentare, trasformando la democrazia da «governo dei più» in «governo dei meno» e marginalizzando ogni forma di opposizione. Così, come comitati per il no a quelle «riforme» abbiamo installato i nostri banchetti alla partenza del corteo. Per ripararci dalla pioggia ci siamo sistemati sotto i portici. C’erano, a fianco e insieme, i banchetti a sostegno dei referendum sociali. Non era un gran primo maggio. Faceva freddo, nonostante la stagione. Ma soprattutto la partecipazione era inferiore al solito e si toccavano con mano rabbia e delusione. Poco alla volta, però, le firme si sono moltiplicate.

Ben più che nelle settimane precedenti, con una evidente crescita di consapevolezza della posta in gioco e della connessione tra il versante sociale e quello istituzionale. Quando il corteo si è avviato ci siamo spostati, per la raccolta, a metà percorso, in piazza Castello, e anche lì si sono formati ai banchetti piccoli capannelli per sottoscrivere le richieste di referendum. Intanto il corteo procedeva. Improvvisamente, dopo il passaggio della delegazione del Partito democratico (numericamente ridotta e circondata da un nervoso servizio d’ordine e da un imponente schieramento di forze dell’ordine, in divisa e in borghese), la strada è stata bloccata da un muro di polizia, carabinieri e guardia di finanza con scudi e manganelli. Evidente l’intenzione di impedire il contatto tra la delegazione del Pd e la parte successiva del corteo, più imponente di quella già transitata e comprendente non solo i cosiddetti antagonisti e i «pericolosissimi» No Tav, ma anche, tra gli altri, il gruppo della lista di sinistra per le prossime elezioni comunali guidata dall’ex segretario torinese della Fiom, Giorgio Airaudo. Dai manifestanti, a cui non era consentito proseguire, si è alzato il coro «vergogna-vergogna» e «corteo-corteo», accompagnato da una pressione contro gli scudi delle forze di polizia, che hanno risposto con due cariche.

Per mezz’ora la zona è stata bloccata. Piccolo particolare nella più grande vicenda: il nostro banchetto, che si trovava proprio nel punto d’urto, è stato isolato dal cordone degli agenti e decine di persone non hanno potuto avvicinarsi per firmare in difesa della Costituzione repubblicana (quasi si trattasse di un’attività eversiva).

Intanto, due o trecento metri più avanti, in piazza San Carlo, un breve discorso di un esponente sindacale ha chiuso la manifestazione «ufficiale» e i rappresentanti istituzionali e la delegazione del Pd hanno abbandonato rapidamente la piazza. A questo punto il muro di polizia si è aperto e l’ultimo spezzone del corteo ha potuto proseguire e arrivare in una piazza San Carlo che si è riempita più di prima di persone e di bandiere. Questi i fatti e i disordini provocati dagli antagonisti…

Mentre lavoratori, giovani, pensionati riprendevano a firmare in favore della Costituzione venivano spontanee due riflessioni. Anzitutto. È giusto che le forze dell’ordine cerchino di evitare scontri e assicurino a tutti la possibilità di partecipare al corteo (anche a chi si ricorda dei diritti dei lavoratori solo il primo maggio e la vigilia delle elezioni). Ma non a costo di impedire la partecipazione allo stesso corteo di migliaia di altri cittadini (per lo più pacifici e interessati solo a far sentire la propria voce) e di ostacolare, di fatto, l’esercizio di ulteriori diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Conciliare queste due esigenze non è in realtà impossibile. Basta una protezione mirata delle delegazioni più esposte a contestazioni e un accordo con le stesse per una collocazione idonea a consentirla (collocazione che non deve essere necessariamente alla testa o nel centro del corteo).

Il fatto che questo elementare accorgimento sia stato ignorato e si sia preferita la contrapposizione frontale e indistinta introduce la seconda, più preoccupante, riflessione: non è che il «salto di qualità» richiesto all’Italia dal sistema finanziario sovranazionale per limitare «la tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori e il diritto di protestare» sia ormai, dopo molte sperimentazioni, diventato regola? Meglio rifletterci e trarne conseguenze coerenti mentre si preparano i referendum su Italicum e «riforma» costituzionale.

Un uomo della Pro­te­zione civile nomi­nato pre­fetto di Roma a pochi mesi dall’inizio dell’Anno santo straor­di­na­rio. Ma soprat­tutto un inve­sti­ga­tore esperto di cri­mi­na­lità orga­niz­zata e ter­ro­ri­smo a guar­dia della città che fino a ieri ha visto spa­dro­neg­giare nelle sue strade Mafia capi­tale e che, come se non bastasse, è finita anche nel mirino dei jiha­di­sti dell’Isis. Franco Gabrielli, Capo dipar­ti­mento della Pro­te­zione civile, è il nuovo pre­fetto di Roma in sosti­tu­zione di Giu­seppe Peco­raro che va in pen­sione per rag­giunti limiti di età. Toscano di Via­reg­gio, dove è nato nel 1960, spo­sato e con tre figli, è stato nomi­nato ieri dal con­si­glio dei mini­stri ed è l’uomo scelto da Mat­teo Renzi come pre­fetto di una città in cui le inchie­ste hanno finito con il coin­vol­gere anche impor­tanti espo­nenti del Pd romano. Insomma, sem­bre­rebbe pro­prio l’uomo giu­sto al posto giu­sto, chia­mato in uno dei momenti più dif­fi­cili per la città. Sarà forse anche per que­sto che la noti­zia della sua nomina è stata salu­tata con sod­di­sfa­zione da Igna­zio Marino, il sin­daco che pro­prio nel Pd cit­ta­dino ha più di un nemico. «Sono felice. Gabrielli è una figura di straor­di­na­ria pre­pa­ra­zione e gli fac­cio i miei migliori auguri di buon lavoro», è stato il com­mento a caldo del primo cit­ta­dino.

E’ la seconda volta che Gabrielli viene chia­mato a svol­gere il ruolo di pre­fetto. La prima fu nel 2009 all’indomani del ter­re­moto del 6 aprile quando il governo Ber­lu­sconi lo mise alla guida della pre­fet­tura dell’Aquila per gestire l’emergenza post-sisma e con­trol­lare la rego­la­rità degli appalti per la rico­stru­zione. Ma la sua car­riera il futuro capo della Pro­te­zione civile se l’è costruita «man­giando tanta pol­vere», come ama ricor­dare, inda­gando su mafia e ter­ro­ri­smo. Comin­cia alla Digos di Impe­ria per poi spo­starsi a Firenze dove rimane fino al 1996 e dove coor­dina con suc­cesso le inda­gini sulla strage mafiosa di via dei Geor­go­fili prima di pas­sare al Ser­vi­zio cen­trale di poli­zia cri­mi­nale. Nel 2000 di nuovo nella Digos, ma que­sta volta a Roma. E qui, nomi­nato diri­gente nel 2001, indaga sugli omi­cidi di Mas­simo D’Antona e Marco Biagi, arri­vando nel 2003 all’arresto della dire­zione stra­te­gica delle nuove Br e del gruppo di fuoco. Nel 2005 viene nomi­nato capo del Ser­vi­zio centrale anti­ter­ro­ri­smo, interno e inter­na­zio­nale e, l’anno dopo, a capo del Sisde, il ser­vi­zio segreto civile (in seguito Aisi).
La sua «seconda vita», Gabrielli la comin­cia nel 2010, quando nomi­nato vice Guido Ber­to­laso in una pro­te­zione civile giù tra­volta dalle inchie­ste. Inca­rico che rico­pre però per breve tempo: sei mesi appena, tra­scorsi i quali Gabrielli diventa il nuovo capo del dipar­ti­mento. «Vado, cerco di capire, di impa­rare e poi mi attrezzo», disse la prima vota che entrò negli uffici di via Ulpiano a Roma. Ha impa­rato in fretta gestendo negli ultimi cin­que anni tutte le prin­ci­pali emer­genze, dalle allu­vioni al disa­stro della Costa Con­cor­dia nau­fra­gata davanti l’isola del Giglio supe­rando ogni volta dif­fi­coltà e pole­mi­che. Le ultime lo hanno coin­volto pochi giorni fa, quando già cir­co­lava il suo nome come futuro pre­fetto di Roma, e riguar­dano la deci­sione di chie­dere la resti­tu­zione dei risar­ci­menti rice­vuti a una parte delle vit­time del ter­re­moto dell’Aquila, deci­sione seguita all’esito del pro­cesso d’appello ai mem­bri della com­mis­sione grandi rischi.
Adesso per Gabrielli comin­cia il ritorno al futuro, al suo vec­chio mestiere di poli­ziotto alle dipen­denze del mini­stero degli Interni. Insomma torna a fare lo «sbirro», come lui stesso si defi­ni­sce, sapendo di avere davanti a sé una sfida dif­fi­cile per­ché, ha spie­gato ieri subito dopo la nomina, «Roma è la capi­tale, con tutto ciò che signi­fica» e per tutte «le cri­ti­cità legate al con­te­sto internazionale».

La foto­gra­fia scat­tata un anno fa dallo spe­ciale di Sbi­lan­ciamo l’Europa sull’alba del ren­zi­smo si rivela per­fet­ta­mente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo defi­nire il merig­gio del ren­zi­smo. Non certo grande come quello dello Zara­thu­stra di Nie­tzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per que­sto «rive­la­tore dell’enigma dell’eterno pre­sente».
S’individuavano allora i suoi tratti di con­ti­nuità con il doro­tei­smo demo­cri­stiano, con l’aziendalismo media­tico ber­lu­sco­niano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blai­riana. Si mostrava il carat­tere sostan­zial­mente con­ser­va­tore, se non rea­zio­na­rio, della sua rete sociale di rife­ri­mento (di bloc­chi sociali non si può più par­lare nella nostra società liquida), col­lo­cato pre­va­len­te­mente sul ver­sante del pri­vi­le­gio, cioè di chi nel gene­rale declino sociale conta di sal­varsi, gra­zie a pro­te­zioni, gio­chi finan­ziari e posi­zioni di ren­dita. Soprat­tutto si denun­ciava l’internità del suo pro­getto all’agenda libe­ri­sta della finanza inter­na­zio­nale e della cupola che domina l’Europa, masche­rata sotto una reto­rica tri­bu­ni­zia da palin­ge­nesi totale. Un novum, nel pano­rama antropologico-politico, che per­met­teva fin da allora di par­lare dell’apertura di una nuova fase, segnata da uno stile di governo ormai pie­na­mente post-democratico (e sostan­zial­mente a-democratico).

Ed è pro­prio que­sto ele­mento che si è dram­ma­ti­ca­mente con­fer­mato, fino ad assu­mere carat­tere domi­nante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosid­dette riforme isti­tu­zio­nali sboz­zate con la scure dei colpi di mano par­la­men­tari, sia quelle sociali (meglio sarebbe chia­marle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche il decreto Sblocca Ita­lia rical­cano, in forma imba­raz­zante, le linee guida della Troika, senza nep­pure uno sco­sta­mento di maniera.

Ripro­du­cono, intro­iet­tate come pro­po­ste auto­nome, gli stessi punti dei fami­ge­rati Memo­ran­dum impo­sti, manu mili­tari dai Com­mis­sari euro­pei, a paesi come la Gre­cia (che di quelle cure è social­mente morta), ma anche come la Spa­gna (che si dice abbia i conti a posto ma una disoc­cu­pa­zione sopra il 25%), come il Por­to­gallo (14% di disoc­cu­pati, quasi il 50% di pres­sione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle fami­glie sopra il 200% del loro red­dito). Si chia­mano pri­va­tiz­za­zioni, abbat­ti­mento del red­dito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di wel­fare, tas­sa­zione spie­tata sulle fasce più basse, ridu­zione degli ammor­tiz­za­tori sociali, ridu­zione della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, limi­ta­zione della demo­cra­zia e dell’autonomia delle assem­blee rap­pre­sen­ta­tive, neu­tra­liz­za­zione dei corpi inter­medi.
Il tutto coperto da una nar­ra­zione roboante e riven­di­ca­tiva, fatta di pugni sul tavolo, lotta alla casta e sua rot­ta­ma­zione, cac­cia al gufo e apo­lo­gia della velo­cità, cam­bia­menti di verso e taglio delle gambe ai fre­na­tori, denun­cia dell’inefficienza degli organi rap­pre­sen­ta­tivi (Sena­tus mala bestia), attacco ai sin­da­cati e in gene­rale alle rap­pre­sen­tanze sociali. È, appunto, il popu­li­smo dall’alto. O il popu­li­smo di governo: una delle peg­giori forme di popu­li­smo per­ché somma la carica dis­sol­vente di quello dal basso con la potenza isti­tu­zio­nale della sta­tua­lità. E piega il legit­timo senso di ribel­lione delle vit­time a fat­tore di legit­ti­ma­zione dei loro car­ne­fici. Non è dif­fi­cile leg­gere, die­tro la strut­tura lin­gui­stica del discorso ren­ziano, le stesse imma­gini e gli stessi sti­lemi dell’apocalittica gril­lina, l’enfasi da ultima spiag­gia, la denun­cia dei paras­siti, la stig­ma­tiz­za­zione dei par­titi poli­tici (com­preso il pro­prio), e lo stesso peren­to­rio «arren­de­tevi» rivolto ai pro­pri vec­chi com­pa­gni diven­tati nemici interni. Simile, ma fina­liz­zato, in que­sto caso, a una sem­plice sosti­tu­zione di lea­der­ship interna. A una sorta di rivo­lu­zione conservatrice.

Que­sto è stato Mat­teo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un popu­li­sta isti­tu­zio­nale. Forse l’unica forma poli­tica in grado di per­met­tere al pro­gramma anti­po­po­lare che costi­tui­sce il pen­siero unico al ver­tice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi gene­rale e con­cla­mata delle forme tra­di­zio­nali della poli­tica (in par­ti­co­lare della forma par­tito), e nel defi­cit ver­ti­cale di fidu­cia nei con­fronti di tutte le isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive nove­cen­te­sche. È stato lui il primo impren­di­tore poli­tico che ha scelto di quo­tare alla pro­pria borsa quella crisi: di tra­sfor­mare da pro­blema in risorsa il male che con­suma alla radice il nostro sistema demo­cra­tico. Con un’operazione spre­giu­di­cata e spe­ri­co­lata, che gli ha garan­tito finora di gal­leg­giare, giorno per giorno, sulle sab­bie mobili di un sistema isti­tu­zio­nale lesio­nato e di una situa­zione eco­no­mica sem­pre vicina al col­lasso, senza risol­vere uno solo dei pro­blemi, alcuni incan­cre­nen­doli, altri rin­vian­doli sem­pre oltre il suc­ces­sivo osta­colo. E comun­que gestendo il declino col piglio del bro­ker (è lui, d’altra parte, che ha dichia­rato senza ver­go­gnar­sene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese sca­la­bile), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funam­bolo – per ritor­nare alle meta­fore nie­tzschiane — in bilico sul filo. E la resi­dua pla­tea elet­to­rale a naso in su, di sotto, nel mer­cato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.

È stato quel buio, finora, il suo prin­ci­pale alleato: la promessa-minaccia che «après moi le déluge». Dalla Gre­cia, a oriente, e dalla Spa­gna a occi­dente, arri­vano ora lampi di luce, che potranno, nei pros­simi mesi, dis­si­pare quel buio.

Il presidente della Repubblica uscente, Giorgio Napolitano

Cala il sipa­rio sul pre­si­dente Gior­gio Napo­li­tano. Quello che oggi stesso sarà l’ex capo dello Stato ade­rirà al gruppo misto del Senato, avrà il suo uffi­cio e lo fre­quen­terà spesso, nelle occa­sioni impor­tanti, a par­tire dalla nomina del suo suc­ces­sore, inter­verrà in aula e sarà ascol­tato non solo con il rispetto che si deve a un pre­si­dente eme­rito ma con l’attenzione che spetta a chi con­ti­nuerà ad avere parec­chia voce in capi­tolo nella poli­tica ita­liana. L’uomo è cer­ta­mente «con­tento di tor­nare a casa», come ha dichia­rato ieri, ed è facile che alla fine abbia visto il Colle dav­vero «un po’ come una pri­gione». Non signi­fica che intenda riti­rarsi a vita com­ple­ta­mente pri­vata. Forse non ci riu­sci­rebbe nep­pure se ci pro­vasse. Troppo pro­fondo è il segno che lascia nella poli­tica italiana.

Gior­gio Napo­li­tano ha dimo­rato al Qui­ri­nale più a lungo di chiun­que altro nella sto­ria repub­bli­cana, e ha inter­pre­tato il pro­prio ruolo in modo molto vicino a quello di coloro che lo abi­ta­vano prima della Repub­blica: i sovrani. Quando Mat­teo Renzi afferma che il pros­simo pre­si­dente «sarà un arbi­tro, non un gio­ca­tore» intende dire che non sarà un nuovo re Gior­gio. Il toto-presidente diven­terà nei pros­simi giorni una tem­pe­sta. In realtà la sola idea di con­ti­nuare con i lavori par­la­men­tari come se nulla fosse è un po’ assurda e avrà ragione, se ci sarà, chi chie­derà di con­ge­lare tutto sino a nuovo pre­si­dente. Eppure, molto più del nome del pros­simo capo dello Stato, ci si dovrebbe inter­ro­gare sull’opportunità, e sulla pos­si­bi­lità stessa, di tor­nare indie­tro, di ripor­tare le lan­cette a prima del presidente-monarca. Que­sta è la vera par­tita che si sta già gio­cando die­tro la fac­ciata fatta di nomi, trat­ta­tive e conto dei fran­chi tiratori.

A elen­care le occa­sioni in cui il primo pre­si­dente ex comu­ni­sta ha spinto il suo ruolo fino al limite estremo, e secondo alcuni anche oltre, si per­de­rebbe il conto. Gior­gio Napo­li­tano è il pre­si­dente che nel 2010, di fronte a una mozione di sfi­du­cia nei con­fronti del governo Ber­lu­sconi con tante firme in calce da pre­fi­gu­rare con cer­tezza la caduta di quel governo, insi­stette per posti­ci­pare il voto, pur sapendo (e come avrebbe potuto igno­rarlo?) che così facendo offriva a un uomo molto potente la pos­si­bi­lità di acqui­stare come in un’orgia di saldi. E’ il pre­si­dente che, dimes­sosi Ber­lu­sconi nel 2011, non con­si­derò nep­pure alla lon­tana l’ipotesi di veri­fi­care come inten­desse pro­ce­dere il Par­la­mento «sovrano»: aveva già in tasca, e da parec­chio, la sua solu­zione di ricam­bio. Mario Monti era gra­dito a lui e all’Europa: tanto aveva da bastare, tanto bastò.

Quando, tra qual­che anno, com­men­ta­tori e gior­na­li­sti cor­ti­giani si sen­ti­ranno abba­stanza al sicuro da per­met­tersi di valu­tare con obiet­ti­vità la lunga età di re Gior­gio, non man­che­ranno di ricor­dare che si è trat­tato del primo, non­ché unico, caso di un pre­si­dente che inter­preta le sue fun­zioni tanto esten­si­va­mente da man­dare il Paese in guerra, nei deserti e intorno ai pozzi di petro­lio libici, senza pren­dersi il disturbo di far trarre il dado al governo o alle camere. E da sot­trarre al mede­simo Par­la­mento il diritto di deci­dere sulla scelta di spen­dere o no decine di miliardi, nel cuore di una reces­sione feroce, per rifor­nire il Paese degli aerei da guerra più costosi e peg­gio fun­zio­nanti del mondo.
Pas­sata la paura di pas­sare per gril­lino, qual­cuno tro­verà anche meno ovvio di quanto non sia apparso sinora che un arbi­tro e un «pre­si­dente di tutti» occupi sostan­ziosa por­zione del suo tempo per attac­care, denun­ciare e met­tere quo­ti­dia­na­mente all’indice il par­tito a torto o a ragione più votato dagli ita­liani nel 2011.

«E’ ora di tor­nare alla nor­ma­lità», que­sto è l’umore che si respira nei palazzi e cor­ri­doi dell’età ren­ziana. Alla nor­ma­lità, cioè a quando il capo dello Stato era un arbi­tro con fun­zioni di mera rap­pre­sen­tanza. Ma quel «prima» è una favola. Il primo cit­ta­dino, in Ita­lia, ha sem­pre avuto poteri enormi, e spesso li ha usati, a volte anche facendo tin­tin­nare scia­bole o spal­leg­giando ribal­toni. Il bivio non è tra un nuovo presidente-sovrano e il ritorno ai bei vec­chi tempi. Pro­prio per­ché la rivo­lu­zione intro­dotta da Gior­gio Napo­li­tano passa non per una modi­fica dei poteri del pre­si­dente ma per una loro inter­pre­ta­zione tanto ine­dita quanto allar­gata, que­sti nove anni non pos­sono essere messi tra paren­tesi. Un pre­si­dente che pro­vasse a «fare come prima», dopo Napo­li­tano, fini­rebbe di nuovo nei panni del sovrano.

Il bivio è dun­que tra ren­dere dav­vero la pre­si­denza della Repub­blica ita­liana una fun­zione for­male e di rap­pre­sen­tanza, come non è mai stata anche se molti hanno fatto cre­dere che lo fosse, o allar­gare ancora la brec­cia aperta da Napo­li­tano, e cer­ti­fi­care così defi­ni­ti­va­mente un ruolo del pre­si­dente tutt’altro che «arbi­trale».
Con i numeri di cui dispone la mag­gio­ranza, allar­gata a Fi, indi­vi­duare un pre­si­dente non sarebbe in sé dif­fi­cile. Quasi tutti i nomi che cir­co­lano potreb­bero andare bene. Arduo è invece deci­dere se imboc­care la strada di un pre­si­dente spo­gliato di quasi tutti i poteri oppure quella di un pre­si­dente nella migliore delle ipo­tesi diarca, e spesso sem­pli­ce­mente monarca. Come è stato Gior­gio Napolitano.

Nel natale dell’evento pro­messo, Milano si nasconde die­tro la barba finta per con­fe­zio­nare il pacco dono che ral­le­grerà (o gua­sterà) l’anno pros­simo ven­turo: l’Expo 2015. Sono pre­vi­sioni iper­bo­li­che, parole buone per tutti, otti­mi­smo e pac­che sulle spalle a coloro che ci cre­dono e si stanno orga­niz­zando per rac­co­gliere almeno le bri­ciole della grande abbuf­fata. Se tutto andrà bene ce ne sarà per tutti. Biso­gna avere fidu­cia e darsi da fare.

Que­sto è il mes­sag­gio che la pro­pa­ganda ogni giorno si inca­rica di vei­co­lare da qui al pros­simo mag­gio, con accenti par­ti­co­lar­mente zuc­che­rosi in que­ste spente gior­nate festive (da ieri si pos­sono acqui­stare i biglietti per l’Expo sui siti web di Ali­ta­lia ed Eti­had e nei prin­ci­pali aero­porti, chi li acqui­sta entro il 6 gen­naio rice­verà un dolce di cioccolato).

Le aspet­ta­tive sono enormi anche se i pre­pa­ra­tivi dell’evento fino ad ora hanno lasciato sul campo solo brutte sor­prese. Un paio di deli­cate inchie­ste giu­di­zia­rie già silen­ziate dopo l’apparizione sal­vi­fica di Raf­faele Can­tone (l’eroe nazio­nale dell’anti cor­ru­zione). E la più impor­tante delle pro­messe non man­te­nute, quei 70 mila posti di lavoro “veri” che sono diven­tati poco più di quat­tro­mila, “finti”.

La Cisl, ieri, faceva finta di cre­derci: “Sono comin­ciate le prime assun­zioni, a tempo, dei gio­vani che lavo­re­ranno nei pros­simi mesi all’Expo. Noi abbiamo aperto un con­fronto con Regione e Comune per ragio­nare sulla pos­si­bi­lità che almeno per alcuni di loro l’opportunità di lavoro non si esau­ri­sca in que­sti mesi ma possa pro­lun­garsi con una sta­bi­liz­za­zione”. Ragio­nare non costa niente, ma ormai è tutto dimen­ti­cato e i “gio­vani” ci hanno messo una pie­tra sopra.

Il pen­siero meno sofi­sti­cato che dice dell’atteggiamento pre­va­lente viene, come al solito, dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi: “Sono asso­lu­ta­mente con­vinto che Expo sarà una bella cosa. Scom­metto che a giu­gno il carro dei vin­ci­tori sarà pieno. In pas­sato qual­cuno sui grandi eventi in Ita­lia ha pro­vato, e ci è anche riu­scito, a rubare. Sta­volta li stiamo beccando”.

Liqui­dato con una bat­tuta il deli­cato fronte giu­di­zia­rio (pro­ba­bil­mente la magi­stra­tura tor­nerà a farsi sen­tire a mani­fe­sta­zione già con­clusa), è toc­cato al mini­stro Mau­ri­zio Mar­tina dare ras­si­cu­ra­zioni sulla coper­tura eco­no­mica dell’evento, anche per repli­care alle pole­mi­che di Roberto Maroni che aveva accu­sato il governo di non man­te­nere la pro­messa di inter­ve­nire per coprire i fondi che avrebbe dovuto desti­nare la Pro­vin­cia di Milano: “Quei 60 milioni saranno coperti, ci stiamo lavo­rando e sono tran­quillo. Se poi sarà a novem­bre o dicem­bre inte­ressa solo chi vuole fare pole­mica, il governo si fa carico di un pro­blema gene­rato da altri”.

Nel frat­tempo, il sin­daco di Milano Giu­liano Pisa­pia con­ti­nua ad indos­sare le vesti del testi­mo­nial pri­vi­le­giato dell’evento. Il suo è il volto più spen­di­bile. Ieri, in com­pa­gnia del pre­si­dente dell’Atm Bruno Rota, ha inau­gu­ra­toil primo dei trenta nuovi treni super tec­no­lo­gici della metro­po­li­tana rossa. Per l’Expo dovreb­bero essere quat­tor­dici i treni a dispo­si­zione dei viag­gia­tori, tra cui secondo le pre­vi­sioni dovreb­bero esserci tra i 20 e 30 milioni di turi­sti. Ma la novella più lieta, soprat­tutto per i mila­nesi, è un’altra: “La posi­zione del sin­daco la cono­scete, non ci saranno aumenti dei biglietti del tram, almeno fino alla fine del mio man­dato”. Metà 2016.

Ma sic­come Pisa­pia non è Renzi c’è spa­zio anche per una rifles­sione più sin­cera: “Sarei insen­si­bile se non fossi pre­oc­cu­pato, ma sono molto fidu­cioso, stiamo cor­rendo. La cri­mi­na­lità che ha ten­tato di infil­trarsi è stata scon­fitta, i con­trolli ven­gono fatti e saranno aumen­tati, sono tran­quillo. Allo stesso tempo sta cre­scendo l’interesse sul tema”.

Infine, una sim­pa­tica anti­ci­pa­zione di quel giorno atteso da anni: le Frecce Tri­co­lori apri­ranno l’Expo 2015. “Un avve­ni­mento impor­tante — dice l’Aeronautica — in avvio di una sta­gione che ci vedrà impe­gnati in nume­rose esi­bi­zioni in Ita­lia e all’estero”. Sarà per nutrire il pianeta.

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