Libri, arti & culture

Immagini che vivono», di Viviana Vacca edito da ombre corte

 

«La verità non è mai nei verbali della polizia, nelle sentenze dei tribunali. La verità bisogna farla. Non è qualcosa che esiste e che le macchine fedelmente riportano. La verità è una creazione dell’uomo, la più bella forse, ma in natura non esiste. È l’uomo che la farà vedere mettendo insieme le cose, mostrando il contesto. Una macchina questo non lo potrà mai fare, la verità è un insieme di ricerche, una ricerca che non finisce mai che l’umanità può fare».
Sembrano la fine di una cena, queste parole di Tano d’Amico, poste a conclusione del libro Immagini che vivono. Politica e fotografia in Tano d’Amico della filosofa Viviana Vacca (per la sezione Cartografie, ombre corte, pp. 118, euro 10). Una cena con commensali vari, l’estetica, l’immagine come categoria e quella come poetica, Benjamin e Barthes, Deleuze e Didi Huberman, la politica e la libertà, un film di Anghelopulos, il dolore e la speranza.

SCRITTURA DENSA e partecipata quella di Viviana Vacca che interroga lo stupore provato davanti alle foto commosse che hanno raccontato «non i movimenti, ma il movimento». Nello specifico quello ineffabile del desiderio, nel quale svolgere il possibile della nostra potenza di uomini, immortalato nella sua inidonea fissità dagli scatti iconici di D’Amico.
È come se Tano D’Amico fosse il fotografo del quid che avvia la macchina insorgente. L’ineffabile, mistico, guizzo che prende l’oggetto ritratto e lo fa ribellare alla predefinita condizione di passività e, per dispetto, lo fa tramutare in soggetto della storia. Come se l’argomento fosse sempre quel rifiuto del potere all’ombra del quale fruttificano gli alberi della disobbedienza e quelli della lotta. La ribellione alla miseria delle cose è, dunque, il mestiere di D’Amico, che, non a caso, Vacca accosta, nel flusso della sua poderosa e puntuale ricerca, a quella definizione che diede Volontè della sua attività, non attore ma «operatore di dignità».

IL LIBRO TRATTEGGIA così una ritrattistica del politico fotografico dalla quale emerge la riflessione polifonica sul tempo e la morte, materia alchemica della dagherrotipia, tra le provocanti definizioni di Susan Sontag (la fotografia come omicidio senza spargimento di sangue) e le balenanti folgorazioni di Maurice Blanchot, chiamato, con le sue parole, a riabitare l’istante del fotografico («era forse d’improvviso invincibile. Invincibile perché totalmente vinto, esposto, perduto. Morto immortale»). E interroga quell’intreccio tra l’aria e l’aura, lo scarto indicibile tra luce chiara e ombre profonde, quel rifiuto della narrazione finita e dell’apertura all’atlante delle sensazioni, quello che non si vede, quello che si evoca, quello che manca. Il disordine del mondo, il tumulto, quella cosa che, ci ricorda Gianfranco Manfredi, «ma chi l’ha detto che non c’è». Quello che ci mette in moto, come comunità vitale, verso un posto sentimentale che, se è stato fotografato, vuol dire, che non può essere stato solo sognato.

* Fonte/autore: Giovanna Ferrara, il manifesto

Tutto comincia nell’aprile del 1977, quando un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che ventenni esce dalla scuola, dopo una lezione di linguistica: camminano piano, intorno il traffico della sera a Buenos Aires, due si abbracciano. Uno di loro si chiama Marco Bechis, è italiano, studia per diventare maestro e insegnare nelle comunità indios al confine tra l’Argentina e il Brasile. Sarà un attimo; gli uomini arrivano, lo afferrano, lo portano via mentre uno degli amici trascina lontano la sua ragazza, Dayin. Da lì per lui tutto cambia: una corsa in macchina, occhi bendati, destinazione il Club Atletico, una delle prigioni clandestine nel cuore della capitale in cui i militari del regime di Videla rinchiudevano i militanti politici, gli oppositori, gli intellettuali, gli studenti. Sparivano, migliaia e migliaia di desaparecidos gettati in mare coi voli della morte, uccisi, torturati con la picana – l’elettricità – per strappare denunce di compagni, o anche di chi non c’entrava nulla, le ragazze stuprate, i bambini sottratti alle famiglie. La solitudine del sovversivo (Guanda) dipana nelle sue pagine il racconto di un’esperienza che per l’autore ha tracciato una cesura con la vita precedente. Ci era tornato già nei suoi film, dal magnifico Garage Olimpo (1999) Marco Bechis, ma sempre nella «terza persona» della messinscena. Per la prima volta nel suo esordio da scrittore passa alla prima persona, con una narrazione lucida nella distanza della scrittura e, al tempo stesso, nell’adesione del vissuto.
Su questo bordo scorrono i giorni della prigionia, quando diventa un numero, piedi legati, nudo, occhi bendati, che affida solo all’udito – e a una immaginazione che esaspera il terrore – la percezione dell’ambiente. E la paura, l’angoscia, poi la liberazione, prima in un carcere «normale», il rientro in Italia. Fino agli anni recenti, al processo contro i suoi torturatori in Argentina, questa sua memoria diretta restituisce una storia recente e complessa, si fa romanzo generazionale, e insieme esplorazione dell’intimità dell’autore che sin dall’adolescenza, tra altri traumi dolorosi, è in cerca di risposte.

Il romanzo ci offre anche un «controcampo», o delle chiavi di accesso ai suoi film, le storie famigliari, la figura della madre molto presente. «Ho riscritto il libro quando mio padre non c’era già più. Mia madre è stata la mia guida nell’ultima stesura, ricordava i fatti con estrema chiarezza. Nella distanza si tende a reinventare la realtà, la sola certezza per me era che c’è un prima che ho dovuto riscrivere dopo la prigionia» dice Marco Bechis. Ci parliamo su zoom, lui è a Punta del Este dove prepara un nuovo film.

L’esperienza del tuo sequestro da parte dei militari argentini era al centro di «Garage Olimpo» (1999), la dittatura di Videla, i suoi crimini, la violenza, i desaparecidos tornano in «Figli/Hijos» (2002). «La solitudine del sovversivo» riprende queste questioni e al tempo stesso illumina le scelte del tuo cinema – capiamo la Patagonia di «Alambrado» (1991) o «La terra degli uomini rossi» (2008) – nella scelta di mettere in campo la tua vita intera, i tuoi ricordi di bambino, di adolescente, la tua irrequietezza. E questo passando dalla terza persona dello schermo alla prima. A quali domande hai cercato in questa nuova forma una risposta?
Mi sono chiesto spesso perché ho voluto scrivere un libro, e mi ripeto che è per dire cose che non sono riuscito a mostrare nei miei film, anche se questo non significa che cambierò mezzo espressivo, il romanzo è per me un passaggio. Quando ho iniziato a lavorare a La solitudine del sovversivo non essendo uno scrittore mi sono detto che dovevo pormi dei limiti, ho deciso che sarebbero stati nella scelta di una totale soggetività. In qualche modo è come se dessi voce al resto della storia, non vedo nel libro un completamento dei miei film, penso piuttosto che li attraversa rispondendo a un’esigenza di testimonianza con cui sopravvivere alla gabbia. Che forse è persino una dimensione da cui non voglio uscire – il film che sto scrivendo tratterà una vicenda simile – ma l’uso della prima persona e del presente mi hanno permesso di scrivere ciò che ricordavo e di muovermi in quella non-verità che è parte dell’interpretazione soggettiva di una narrazione. All’inizio ho tentato la terza persona ma l’ho scartata subito, produceva una distanza che non funzionava. Il mio riferimento è stato il memoir in presa diretta, il cinema mi ha aiutato con la pratica del montaggio: tutto il racconto è molto montato ma con una libertà che le immagini non permettono. In un film quando si uniscono due scene diverse si deve fare attenzione ai vestiti degli attori, al luogo, alla luce, non si possono muovere le sequenze qua e là a meno di non rigirarle. Scrivendo invece ho spostato molti blocchi secondo le mie esigenze narrative.

In che modo hai costruito lo spazio nella parola?
Non volevo descrivere i fatti. Ho pensato spesso ai miei genitori, ai sentimenti che avevano provato mentre ero prigioniero e loro non sapevano neppure dove fossi. Avevo anche molti dubbi su a chi potesse interessare questa storia finché non ho iniziato a immaginarla come il racconto di una generazione. Prima però ho seguito altre piste: avevo pensato a un personaggio che torna in Patagonia a recuperare le terre della madre. Pian piano ho cominciato a procedere linearmente e grazie a Dayin, la mia compagna del tempo, ho capito che tutto doveva iniziare nel momento in cui mi hanno sequestrato. Solo partendo da lì, in una continua oscillazione tra Italia e Argentina, avrei potuto mettere insieme una serie di fatti, Lotta continua, i Montoneros, il femminismo, «Rosso», la rivoluzione in Portogallo, l’idea di una pratica militante e rivoluzionaria di un «qui e ora» della armi che ho conosciuto in Argentina ma presente, seppure in modi diversi, anche in Italia, che erano la mia storia e insieme la trama di un’epoca e di una memoria collettiva.

Il personaggio di Muñaca, la giovane Montoneros che avevi conosciuto nell’appartamento in cui vivevi a Buenos Aires e che ritrovi in prigionia è molto doloroso.
Era stata a lei a denunciarmi indicandomi quando uscivo da scuola. I militari ottenevano le informazioni con la tortura, e la promessa di risparmiare chi parlava – cosa naturalmente non vera. Muñaca aveva accesso ai dossier dei prigionieri politici e li passava ai Montoneros che individuavano così i militari responsabili: molti erano stati uccisi. Nella prigione clandestina dove ero detenuto lavava i pavimenti, era stata torturata con ferocia, stuprata – le donne prigioniere lo erano tutte regolarmente. La prima volta che l’ho vista aveva le pupille dilatate, sembrava in uno stato allucinatorio. Dopo tanto tempo lì dentro ci si chiedeva se fuori l’umanità esistesse ancora, e io ne ero la prova vivente.

Spesso leggendo il libro viene da chiedersi come non ti eri reso conto del rischio, perché sei rimasto coi Montoneros non condividendo la loro strategia politica, perché non sei tornato in Italia. È come se cercassi qualcosa al di là della militanza, dell’impegno sociale – il progetto didattico coi bambini indios – che ti spingeva al pericolo.
All’origine c’era il bisogno di conoscere la terra dove ero nato e cresciuto seppure in una comunità privilegiata, la borghesia italiana benestante, che non mi aveva dato una percezione reale del mondo intorno a me. Ricordo l’angoscia di mia madre dopo il golpe di Pinochet in Cile, nel 1973, quando non riusciva a comunicare coi suoi parenti; ho capito allora che c’era qualcos’altro, e che mi interessava molto di più di quella tranquillità borghese. Ho iniziato a viaggiare in autostop, a allontanarmi dal futuro pensato per me da mio padre, a girare l’Argentina cercando di capire i luoghi e le radici della famiglia di mia madre. Intanto la situazione nel Paese precipitava, dopo la morte di Peron la presidenza di Isabelita aveva esasperato il conflitto sociale, lei stessa anche se non in modo esplicito «tollerava» la repressione della Triple A, l’Alleanza Anticomunista Argentina che uccideva oppositori, voci critiche e militanti di sinistra. Finché nel 1976 si arriva al golpe di Videla. Ma è proprio per capire meglio le mie scelte che ho intrecciato diversi piani temporali, tornando appunto al trauma della morte di mio fratello più piccolo, quando ero un ragazzino. Quel lutto ci ha allontanati, per me ha significato la perdita dei miei genitori che si sono rinchiusi in loro stessi, provocandomi una vocazione al suicidio che si esprimeva nell’incoscienza davanti al rischio: da allora è come se avessi cercato di raggiungere inconsciamente mio padre e mia madre in quel luogo di morte. Sono consapevolezze che ho conquistato molto tardi, dopo anni di terapia ma era importante per me tenere tutto insieme.

Che famiglia era la tua?
Con una impronta patriarcale, anche se mia madre aveva molta influenza le decisioni importanti le prendeva mio padre. Lui voleva che studiassi economia, io scambiavo i libri di Adam Smith che mi regalava con Marx e Il capitale. Con mia madre avevo una maggiore affinità, come lei cilena che si era dovuta adattare all’Argentina, mi sentivo uno sradicato quando avevamo lasciato Buenos Aires per l’Italia dopo la morte di mio fratello; ero portatore della sua nostalgia. Tutto questo si potrebbe ricondurre a un «normale» scontro tra figlio e genitori se non ci fosse stato quel lutto: i nostri rapporti famigliari si erano modificati all’interno di una catastrofe che ha cambiato l’intero corso della vita. A questo si aggiungeva il mio sentimento di estraneità, mi sono sempre sentito estraneo in Italia, e poi anche in Argentina quando sono tornato. Ero raccapricciato dalla violenza e dall’ingiustizia ma non potevo condividere le istanze dei Montoneros a cui mi ero avvicinato. Vivevo una costante lacerazione, mi sentivo in una zona nella quale non si comprende più dove sta la giustizia o la verità. Eppure ero rimasto, nonostante la paura ogni volta che rientravo a casa di trovare l’esercito. Confusamente capivo anche che in questa mia ostinazione da borghese più o meno illuminato cercavo un modo per pormi davanti all’altro diversamente, Forse è stata questa ricerca a spingermi nella scelta di fare cinema

* Fonte: Cristina Piccino, il manifesto

Marzo 1871, stremata dalle conseguenze della guerra franco-prussiana che aveva visto la città cinta d’assedio e bombardata duramente per mesi, e insofferente alle misure durissime varate dal governo della Terza Repubblica che costringono alla fame e al freddo migliaia di persone, la popolazione di Parigi insorge dando vita alla Comune. Per due mesi e mezzo, stretti tra la repressione armata dei governativi, rifugiatisi a Versailles, e l’esercito prussiano, ancora accampato a nordest della città, sui boulevard della capitale francese si sperimenta una forma di autogoverno che pratica l’abolizione di ogni rapporto di potere segnato dal denaro, dalla classe e, almeno in parte, dal genere. Un’esperienza che, seppur sconfitta, segnerà per sempre le generazioni a venire.

Ed è proprio mentre la Comune annuncia la sua fine, durante la drammatica «settimana di sangue» che va dal 21 al 28 maggio del 1871, nei giorni convulsi dove le promesse di speranza cedono progressivamente il campo al sentimento della sconfitta, che Hervé Le Corre ha ambientato L’ombra del fuoco (e/o, pp. 492, euro 19, traduzione di Alberto Bracci Testasecca). Un romanzo che vede intrecciarsi la vita quotidiana della Parigi ribelle, aspettative e preoccupazioni di uomini e donne riuniti intorno alle barricate, ad un noir cupo, popolato di figure inquietanti che mette in scena la malvagità di alcuni mentre in gioco, sotto le bombe che cadono sulla città in rivolta, ci sono le sorti di tutti. Una conferma in più del valore dello scrittore di Bordeaux, già insegnante di liceo e militante della nuova sinistra, di cui nel nostro Paese sono usciti anche Nero è il mio cuore e Il perfezionista (entrambi Piemme), e Dopo la guerra (e/o), tra i protagonisti del noir europeo degli ultimi anni.

Perché ha scelto di ambientare «L’ombra del fuoco» proprio durante l’ultima settimana di vita della Comune, quando il sogno di una società diversa volge ormai al termine?
Volevo evocare l’idea della sconfitta, il modo in cui un sublime sogno politico fosse stato schiacciato. E questo per due ragioni. Da un lato perché attraversiamo una lunga fase di riflusso delle idee della sinistra che fa seguito ad una stagione di sconfitte che abbiamo patito collettivamente. Il capitalismo è sulla buona strada per vincere la «sua» lotta di classe. Ne consegue una sorta di malinconia rivoluzionaria, l’idea che malgrado il sentimento del disastro abbia sempre accompagnato i rivoluzionari, sostenendoli però piuttosto che farli rinunciare ai loro propositi – come analizzato da Daniel Bensaïd in Le pari melancolique (Fayard, 1997) – questa «scommessa» pascaliana sull’avvento di una rivoluzione si sia fatta ormai sempre più ardua. Era questo il mio stato d’animo quando ho iniziato a pensare al romanzo e al modo in cui avrei voluto raccontare le vicende della Comune. Volevo mostrare come i personaggi del libro – esattamente come hanno fatto i comunardi nella realtà – continuino a combattere anche di fronte ad una sconfitta fattasi ormai inevitabile.

Mentre l’altro aspetto di questa scelta con cosa aveva a che fare?
Con il fatto che la Comune di Parigi sia stata oggetto negli ambienti della sinistra rivoluzionaria di una sorta di mitizzazione, un’idealizzazione estrema che ha finito per trasformare chi si è battuto allora alla stregua di un’«immagine di Epinal». Ho sempre avversato il modo in cui i movimenti rivoluzionari erigono dei mausolei in cui giacciono «idee morte» che sono tanto più commemorate – e parlo anche della mia esperienza personale -, quanto più non sembra possibile andare avanti, inventare altro, cimentarsi davvero con le sfide del presente. Per questo i personaggi dei miei romanzi sono sempre malinconici, ossessionati dall’idea della loro fine o della loro sconfitta. Non hanno niente a che fare con il mito che si vorrebbe appiccicargli addosso.

Le vicende della Comune si offrivano in modo particolare ad essere raccontate in un romanzo?
Senza dubbio. In quella storia il romanzesco è ovunque: destini sconvolti, amori contrastati, sogni folli, speranze grandiose e irragionevoli, lotte, avventure, la tragedia della Storia. Volevo che tutto questo si incarnasse nei personaggi del libro, dare un volto, una densità a emozioni, sentimenti, attese. Giocare con la messa a fuoco: passare dal primo piano ad una panoramica, dall’intimo al collettivo, offrire una totale profondità di campo a quella grande avventura che fu la Comune.

Nella Parigi in rivolta, un fotografo di immagini porno e il criminale di cui si serve per procacciarsi con la violenza giovani modelle, si muovono nell’ombra annunciando un futuro in cui la rappresentazione della violenza farà impallidire i drammi a tinte forti che riempivano i teatri del cosiddetto «Boulevard du Crime». Il lato oscuro della città che combatte per la libertà?
Quegli spettacoli, molto popolari nella Parigi dell’epoca, mostravano un misto di gore e burlesque che il pubblico amava proprio per gli eccessi esibiti sul palco. Il fotografo e il rapitore di ragazzine sono invece predatori che approfittano del caos – ma anche della domanda commerciale, per così dire, per quanto riguarda quelle immagini – per soddisfare i loro istinti più vili. Appartengono a quella specie di persone che dai tempi di crisi, durante le guerre, nei momenti di forte instabilità e incertezza traggono nuove opportunità per esprimere tutta la propria violenza e pericolosità.

Già prima di questo romanzo, nel «Perfezionista» ha raccontato la Parigi popolare della fine del XIX secolo, la stagione che annunciava la Comune, mentre in «Dopo la guerra» si trattava del collaborazionismo con i nazisti e della Guerra d’Algeria. Qual è il rapporto tra noir e Storia nel suo lavoro?
Scrivere romanzi noir significa interrogarsi sulla violenza: criminale, sociale, simbolica. I periodi di guerra, dove la violenza si esprime senza ritegno, dove la morte dell’avversario non è più un crimine ma una sorta di dovere patriottico premiato con medaglie e riconoscimenti, sono perciò tra i momenti più adatti nei quali ambientare romanzi che intendano esprimere l’estrema oscurità del mondo, quando sprofonda nella notte della barbarie. Sono anche periodi in cui la neutralità e l’indifferenza sono più difficili da sostenere e dove puoi esortare i tuoi personaggi a prendere più chiaramente una posizione. Inoltre, la Comune, la Guerra d’Algeria, l’Occupazione nazista e la Shoah sono periodi storici la cui potente eco risuona ancora nella società francese. E sono vicende che continuano a interrogarmi sia come autore che come cittadino.

Giorni fa, presentando a France Inter il suo nuovo romanzo appena uscito in Francia – «Traverser la nuit» (Rivages) – ha letto un testo che parla di «Capital Terminator», spiegando quanto il capitale si sia rafforzato nella stagione della pandemia e come una battaglia decisiva si svolga sul terreno del linguaggio dove, per dirla con Bourdieu, «le parole fanno le cose». Una sfida che passa anche per i romanzi?
È una domanda che esigerebbe una risposta molto ampia, ma per sintetizzare posso dire che non credo molto all’efficacia dei romanzi per contrastare l’offensiva linguistica dei propagandisti neoliberali. Tutti i totalitarismi, e ora le società «democratiche» di mercato, hanno forgiato le loro neolingue, inventato slogan, distillato nel dibattito pubblico ciò che in Francia, nei ministeri come nei media, viene definito con il termine «elementi di linguaggio», ma che corrisponde in realtà a formule prestabilite utilizzate ad hoc. Per questo la battaglia sulla lingua è essenzialmente politica e deve essere combattuta passo dopo passo per evitare che venga estorto anche per questa via un consenso alle politiche perseguite oggi un po’ dappertutto in Europa.

Di cosa parla «Traverser la nuit»?
Di una donna martirizzata dal suo ex compagno, di un poliziotto stremato dal lavoro che indaga su una serie di omicidi di donne, di un killer alle prese con le sue pulsioni e con una madre violenta. Ci si muove tra le tenebre, tra povera gente, mentre in lontananza passano le manifestazioni di protesta degli ultimi anni.

* Fonte: Guido Caldiron, il manifesto

Candido e polemico, proletario e antifascista veronese, intellettuale e organizzatore politico-culturale Giorgio Bertani ha dato il nome a una delle case editrici indipendenti che ha ispirato la cultura e la mentalità dei movimenti sociali tra il 1968 al 1990. Basta sfogliare il catalogo della Bertani editore contenuto nel bel libro-ritratto curato da Marc Tibaldi, Giorgio Bertani editore ribelle, per Milieu edizioni (pp. 143, euro 16,90) e guardare il docufilm allegato al libro Verona city Lights, diretto dallo stesso Tibaldi. Qui sono raccontati la vita e i pensieri in una Verona, e in un paese, molto diversi ma non del tutto estranei a quelli in cui viviamo.

ALCUNI TITOLI danno l’idea del modo in cui Bertani è riuscito a creare una casa editrice innovativa, militante e di grandi ambizioni culturali a livello europeo. È stato l’editore dell’opera di Dario Fo e Franca Rame con Mistero Buffo o Tutta casa letto e chiesa il cui debutto avvenne nel 1977 alla palazzina Liberty occupata a Milano. Grazie a un accordo con l’editore francese Maspero e al lavoro editoriale di Franco Rella e Alberto Tomiolo, il catalogo di Bertani è un viaggio alla scoperta del pensiero critico europeo, in particolare francese. I libri di Deleuze e Guattari in particolare, di Derrida e la riscoperta di Bataille sono stati pubblicati a Verona. Nell’impresa editoriale di Bertani c’è stato spazio per l’intervento militante con materiali che oggi potrebbero sorprendere per la radicalità.

C’è il classico di Che Guevara La guerra di guerriglia che ha fatto, per così dire, scuola; Formare l’Armata rossa curato da Luciano Della Mea e La guerriglia nella metropoli con prefazione di Jean Genet scritto dal gruppo Baader-Meinhof della Rote Armee Fraktion. Nella tessitura della grammatica del pensiero e dell’azione compiuta da Bertani con la sua casa editrice c’è stato spazio per l’inchiesta ecologista Seveso. La guerra chimica in Italia, per la critica al mito della star nella musica, Dylan s.p.a. e la genealogia delle forze dell’ordine in Italia in Polizia 1860.1977 di Gianni Viola. Inoltre emerge un filo rosso che lega l’inchiesta dei gruppi operai della Torino di Gramsci e dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri alla controinformazione di Operai e padroni alla Fiat di Pino Ferraris.

ALL’INSTACABILE attività di editore, e libraio, Bertani ha associato il ruolo di megafono dei movimenti italiani. Questo aspetto è stato evidenziato da Primo Moroni nel volume Geografia della rivolta (Dinamopress). C’è un libro elettrico che illustra perfettamente questa tensione politica dell’editore non priva di rischi a quel tempo. È stato tramandato per generazioni, il titolo è Bologna marzo 1977 fatti nostri, firmato da «autori molti compagni» tra i quali il fisico Carlo Rovelli, veronese e allora studente a Bologna; gli scrittori Enrico Palandri e Claudio Piersanti; Maurizio Torrealta poi autore e giornalista televisivo.

IL RACCONTO di Tibaldi si muove tra biografia e ritratto politico e non va inteso solo come una ricerca di archivio. È un saggio storico su un modello di creazione, organizzazione e distribuzione delle culture e dell’editoria indipendenti al tempo dei monopoli editoriali e distributivi. Quella dell’editoria indipendente non è una storia lineare, ma limitata e sempre in emergenza economica. Talvolta ha aspirato a creare una contro-società dotata di istituzioni culturali autonome. In un momento come il nostro di subalternità, ma non di mancanza di culture critiche, questo libro rivela la persistenza di un punto di vista che si è strutturato al tempo delle radio libere o dell’uso autonomo dei media anche sociali. Bertani è uno degli esempi di questa storia.

IL LIBRO ESPRIME una tonalità malinconica che non si limita a piangere l’utopia perduta e coltiva la possibilità di liberarsi da proibitivi rapporti di potere. È l’intenso racconto di Antonio Moresco sui suoi anni veronesi, contenuto nel libro, ad offrire una chiave di interpretazione: «Dove sono finiti quei ragazzi che si gettavano allo sbaraglio, donne e ragazze in fiamme? – si chiede lo scrittore – La vita è un drammatico esordio, è in atto, non è già data una volta per tutte». Nel lockdown socio-interiore in cui ci troviamo siamo in molti ad attendere un nuovo esordio.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto

Quando Patrick Raynal, all’epoca alla guida della Série Noire, la prestigiosa collana di romanzi polizieschi di Gallimard, lo contattò perché interessato a un suo racconto apparso su una rivista, Jean-Claude Izzo era già un uomo di mezza età. Giornalista da tempo, poeta da sempre, coltivava fin da ragazzo molte passioni. Tra queste, la scrittura e Marsiglia, per lui divenuta con il passare degli anni molto più che una semplice città, quasi un «destino».

Quando, in quel 1995, gli amori di Izzo finirono per intrecciarsi inesorabilmente gli uni agli altri, molto del suo percorso era già segnato. «Il mio primo libro fu Lo straniero di Camus, un noir favoloso. Poi mi sono imbattuto in Chandler, Hammett, tutti i grandi della Série Noire. E visto che venivo da Marsiglia, il poliziesco è diventato naturalmente la mia letteratura», avrebbe raccontato più tardi.

Ma, come per ogni passione bruciante, il debutto non poteva che avvenire da una giusta distanza, tale da rendere sopportabile l’immergersi in qualcosa che si percepisce come irriducibilmente proprio senza rimanere paralizzati, vittime dell’emozione. Per scrivere Total Khéops, (Casino totale, e/o, 1998), il suo romanzo d’esordio, redatto in cinque mesi, Izzo si rifugiò a Saint-Malo, la città bretone dove avrebbe in seguito animato il festival «Etonnants voyageurs», presso l’amico, e scrittore, Michel Le Bris. E, anche in seguito, «il romanziere di Marsiglia» avrebbe continuato a celebrare il suo amore viscerale per la città foceana da una posizione defilata, con garbo e pudore, «preferisco prendere della distanza, vivo a venti minuti da qui, in un posto più calmo», ammetteva placidamente.

Del resto, fin dal titolo, quel libro – che introduce la trilogia marsigliese che vede al centro l’ex poliziotto Fabio Montale, poi compiuta con Chourmo e Soléa (riunita in un solo volume da e/o)- traduceva un’emergenza che Izzo osservava con crescente preoccupazione. L’espressione l’avevano coniata in quel periodo i rapper di Iam, la crew abituata a mescolare l’argot marsigliese con i riferimenti alla mitologia egiziana, e annunciava il «casino totale» che regnava in città. Non solo di allegra baldoria si trattava, però.

Gli anni Novanta segnano l’apice di una lunga crisi cittadina quando alla corruzione dilagante della politica – è il periodo che vede l’ascesa al potere del padre-padrone della destra locale, Jean-Claude Gaudin -, al farsi sempre più violenta della malavita locale si aggiunge un fenomeno nuovo, un razzismo inedito, perlomeno dall’epoca di Vichy, che regala una serie di risultati clamorosi al Front National di Jean-Marie Le Pen. Per Izzo, passato per Pax Christi, i socialisti e il Pcf, e rimasto un profondo umanista anche dopo aver riposto l’ultima bandiera, l’allarme risuona fortissimo. Il suo secondo romanzo, Chourmo, si apre con un dedica che non lascia spazio ad interpretazioni di sorta: «Alla memoria di Ibrahim Ali, ucciso il 24 febbraio del 1995 nei Quartieri Nord di Marsiglia da degli attacchini del Front National».

Se la città diventa il personaggio principale dei noir di Izzo, lo fa a partire da un’identità aperta e plurale che è oggetto di una minaccia mortale. C’è l’eco di un’infanzia da «rital», l’essere figlio di un immigrato italiano che ha passato la vita a servire nei bar del centro, in quella che è ben più che una posizione ideale. «Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è nulla da vedere. La sua bellezza non si fotografa, si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. A Marsiglia, anche per perdere, bisogna sapersi battere», si legge in Total Khéops.

Quell’insieme di emozionanti e vitali contraddizioni, percepibili finanche nella cucina locale – il buongustaio Izzo fa dire a Montale che «mangiare significa accogliere» – che fanno di Marsiglia ciò che è, incarnano un’unicità preziosa, un patrimonio che non può andare disperso pena la perdita di se stessi. «Non ho con me altri bagagli che questa città, non altre culture, nient’altro», amava dire lo scrittore.

Chissà cosa avrebbe pensato del fatto che a un anno dalla sua prematura scomparsa, avvenuta nel 2000, la rete televisiva TF1 programmò una serie che vede Alain Delon nei panni di Fabio Montale: un personaggio così lontano da quello sbirro timido, quasi più educatore di strada che investigatore, sempre a caccia di un nuovo amore «assoluto» e di una bevuta di mauresque (pastis e sciroppo d’orzata) nei vicoli vicino al Vecchio porto, nel quale aveva riversato il suo disincanto come la sua fede nella libertà. Proprio Delon, con le sue amicizie tra i potenti e gli uomini dell’estrema destra…

Quasi uno scherzo del destino per chi ha saputo portare il sole di Marsiglia nei territori cupi del noir, illuminando per quella via l’impossibile strada della redenzione. Per Izzo, del resto, «non si capisce nulla di questa città se si è indifferenti alla sua luce, palpabile, anche nelle ore più brillanti. Quando ci obbliga ad abbassare gli occhi».

* Fonte: Guido Caldiron, il manifesto

«Le vite sono un’avventura individuale per percorso, compagne e compagni di viaggio, potenzialità e abilità, contesto di tempo e spazio» ma «non è facile separare l’esperienza personale su cui costruiamo la nostra identità, dall’esperienza collettiva di organizzazione per il cambiamento degli ordinamenti sociali». Lo scrive Antonella Picchio nel primo capitolo, «Il personale è politico», del libro firmato con Giuliana Pincelli, Una lotta femminista globale. L’esperienza dei gruppi per il Salario al Lavoro Domestico di Ferrara e Modena, da domani in libreria per Franco Angeli (pp. 208, euro 27). Siamo agli inizi degli anni Settanta: tra gravidanze, sacrifici della militanza, sogni di autonomia, analisi innovative, si snoda il nastro di esistenze femminili che si schiudono nell’incontro e la crescita di e tra le altre, in un movimento di costante trasformazione e confronto con e attraverso le altre. Tale cammino è tuttora complesso, in aperto contrasto con la realtà di cui facciamo parte, ma non può darsi autenticità femminista fuori da qui. Questo è un primo punto con cui non perdere contatto, mantenendone viva la lezione, anche oggi.

A QUARANTA ANNI di distanza, la ricostruzione della tensione trasformativa che percorse l’esperienza dei gruppi di Lotta Femminista e per il Salario al Lavoro Domestico offre l’occasione per riflettere, una volta di più, sulla mancata rappresentazione delle donne e del tessuto esperienziale femminile, al centro del quale si situa «l’immensa mole del lavoro non pagato di riproduzione sociale», disconosciuta, invisibilizzata, eppure fonte basilare di valore sociale ed economico. Corpi marcati da un destino riproduttivo ma in verità dissidenti, desiderosi di infrangere la naturalità e il biologico, attraversati da una mescolanza di sentimenti e di forze che hanno preteso la politicizzazione del lavoro di cura. Senza che ciò debba significare, dal mio punto vista, dimenticanza per la fragilità dell’umano e attenzione per l’umana interdipendenza, cioè senza scordare il potenziale antistemico, rivoluzionario, dei sentimenti che ci legano le une agli altri e alle altre (agape, eros, philia), resistendo all’idea di una aritmetica generalizzata della vita e della morte su cui poggia il sistema capitalista contemporaneo e con ciò rompendo la superficie compatta di gerarchie socio-economiche (e specularmente di lotte) decise da altri.

LA MATRICE SESSISTA del potere ha operato una cancellazione strutturale di tutto questo e l’ha tradotta in dispositivi economici quantitativi che ne regolano il dominio, cioè nell’assenza di ogni forma di riconoscimento, in primis monetario, così da costruire un potente meccanismo di controllo «da parte di padri, mariti e istituzioni dello Stato», sottolinea Picchio. Si tratta di un’obliterazione talmente intrisa di significati, concreti e simbolici, che dovrebbe indurci a scavare meglio nelle oscurità del profondo, con Carole Gilligan: «L’impossibilità della donna di rientrare nei modelli esistenti non è forse indice di una visione monca della condizione umana stessa, della omissione di certe verità sulla vita?». Un interrogativo che rende ancora più urgente il ricorso a immaginari nuovi e radicali, a un desiderio politico davvero capace di disidentificarsi dai sistemi di valore e dalle categorie, dalle trappole ontologiche, delle definizioni maschili. La ricostruzione della storia del gruppo di Lotta Femminista è anche storia di un drastico cambiamento di prospettiva che le donne furono capaci di imporre alla sinistra tradizionale e rivoluzionaria, entrambe accomunate dalla «ostinata cecità rispetto agli scenari completamente mutati che il nuovo femminismo sostituiva alla logora litania della ‘questione femminile’ e all’orizzonte emancipazionista», come scrive Giuliana Pincelli.
I due capitoli iniziali del testo ripercorrono i passaggi affrontati da Lotta Femminista e del Gruppo per il Salario a Ferrara e a Modena tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, e insieme quelli delle autrici che si intersecano tra loro e con altre donne, dando vita anche ad alleanze internazionali decisive, come quella con la Wages for Housework International Campaign. Giuliana Pincelli restituisce le tappe evolutive dei gruppi e il loro espandersi, a partire dal marzo 1972 con l’uscita del libro di Maria Rosa Dalla Costa e Selma James Potere Femminile e Sovversione sociale.
Il terzo capitolo, curato dalle due autrici insieme a Beatrice Busi, è il più corposo: si tratta di una raccolta preziosa di documenti inediti che Busi ha contribuito a selezionare, a riordinare e in alcuni casi a tradurre. Pincelli si sofferma a lungo sulla carenza di considerazione, in Italia, per il portato teorico del femminismo di matrice marxista e operaista. Parla di una «scomparsa» o addirittura di «un finire quasi nel nulla» della elaborazione politica dei gruppi per il salario al lavoro domestico. Credo, piuttosto, ci sia stata trasformazione ed evoluzione. L’analisi dei contesti socio-economici si è ibridata più precisamente con una pratica soggettiva, cognitiva. La capacità di tradurre in lavoro la soggettività e le differenze, cioè vite e desideri, mette di fronte alla necessità di una teoria del soggetto che sappia coniugarsi con il materialismo. La precarietà del lavoro (femminile) ha sostituito il salario (maschile) facendo di corpi ed emozioni la materia prima dell’attuale paradigma produttivo.

CI CONFRONTIAMO, nello scorrere degli anni, con il rischio di una alienazione decisiva dai nostri stessi corpi-mente, poiché la dipendenza complessiva del vivente (umano e non solo) è al centro degli interessi dell’attuale capitalismo dell’interiorità. In tempi di crisi della misura del lavoro, il reddito diventa esplicitamente forma di distribuzione delle attività invisibili svolte nelle reti allargate della riproduzione sociale. Ma è altrettanto urgente una riappropriazione di sé stesse come individui sociali, autodeterminate nei propri desideri e piaceri, fuori dalle fantasmizzazioni neoliberali che provano a forcludere l’autonomia del soggetto. In questo quadro, i documenti raccolti nel libro ci forniscono suggestioni metodologiche e di ricerca imprescindibili. A partire dalle folgoranti intuizioni del passato, si può avvertire la tensione verso una riconquista di sé che punta a ribaltare i lineamenti obbligati del corpo, dell’amore, del sesso entro i quali veniamo pensate e impiegate: i movimenti femministi ed ecologisti attuali stanno cogliendo il portato letteralmente rivoluzionario – e imprevisto – di questa sfida.

* Fonte: Cristina Morini, IL MANIFESTO

Torino. Il problema è racchiuso nel concetto di «riqualificazione». La Libreria indipendente Comunardi – il passato, il presente e sopratutto il futuro di questo «negozio» sono racchiusi in quel nome – è piantata come una vecchia quercia nel cuore di Torino; chiuderà perché il centro città sarà riqualificato in un futuro prossimo venturo. Che cosa questo significhi in una delle zone che maggiormente ha fruito di processi di riqualificazione non è chiaro.

L’incessante cammino dei turisti in ogni stagione fa sperare i proprietari di case e negozi che nuove rendite sempre più ricche si possano scalare, fino all’agognato picco del 10% del valore immobiliare da cavare dall’affitto annuale dei locali. Uno sproposito, dato che al momento la percentuale è ferma intorno a un non modesto 4% medio.

Anche la Libreria Comunardi, nata nel 1976, è entrata nel tourbillon della gentrification che imperversa nelle disneyland dei vari centro città. «Di per sé, le librerie indipendenti se la cavano – spiega il proprietario, Paolo Barsi – anche se l’attacco da parte dei colossi on line è forte. Il problema sono i canoni di affitto fuori mercato, esplosi da quando è subentrato l’orizzonte della riqualificazione». La Libreria Comunardi è un pezzo di Novecento e a Torino è quella schierata più a sinistra: è rimasta ferma dove nacque, ai tempi delle librerie «Punti rossi» ispirate da Primo Moroni, una rete militante legata ai movimenti. La bacheca che si trova entrando a sinistra, ricolma di riviste marxiste in arrivo da mezza Europa, esposte con un certo vezzo, lo dimostra.

Un pezzo della storia della sinistra torinese che potrebbe essere cancellato da un supermercato. Tre anni fa un cambio di proprietà dei muri ha portato a un braccio di ferro che si concluderà il prossimo 30 settembre, quando la Comunardi dovrà abbassare le saracinesche, nonostante un canone di affitto pari a 4mila euro mensili regolarmente pagato. Delle disavventure della Comunardi, a cui la cittadinanza è affezionata, si interessa anche la politica torinese, che ha tentato di far partecipare al salvataggio delle fondazioni bancarie: le fondazioni bancarie a Torino ormai si occupano di tutto. Il tentativo naufraga: «Che fare»?

Prima una raccolta firme on line che ha raggiunto in pochi mesi quota 82mila. Poi, sostenuta da un comitato cittadino, è nata una comunità che ha organizzato una colletta su una piattaforma di crowdfunding: lo scopo è mettere insieme 200mila euro per comprare i muri di un locale poco distante dove poter far rinascere la Comunardi. Obbiettivo molto ambizioso, ma che genera entusiasmo e prospettiva.

Al momento la raccolta è arrivata a quota 25mila euro, ma la spinta decisiva è attesa per il mese di settembre quando una serie di iniziative deciderà se la raccolta fondi avrà successo oppure no. Barsi, un uomo che potrebbe andare serenamente in pensione dopo oltre 40 anni di lavoro, pare ottimista: «Siamo tutti vittime di questo processo di desertificazione culturale che colpisce le città. Per questa ragione ho deciso di resistere, e di chiamare a raccolta le migliori forze. Se riusciremo a raccogliere i soldi necessari per rilanciare, appena ne avrò la possibilità li restituirò. Non si tratta solo della mia storia personale e professionale, che potrebbe anche concludersi qui». La raccolta procede sulla piattaforma «goFundMe», alla voce «savecomunardi».

* Fonte: Maurizio Pagliassotti, IL MANIFESTO

SCAFFALE. «Qualcosa di meglio», un libro-intervista a cura di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

Non è la vita di uno degli uomini ex, come li ha definiti Giuseppe Fiori nell’omonimo romanzo ispirato alle gesta di alcuni esuli politici italiani nella Cecoslovacchia dell’immediato dopoguerra. La vita del partigiano bolognese espatriato «Battagliero», al secolo Otello Palmieri, ricostruita da Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri nel libro-intervista Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri (Pendragon, pp. 222, euro 15), infatti, ha ben poco dei tratti tipici delle vicende degli ex-partigiani «sconfitti anzitempo dalla storia» e costretti all’emigrazione oltrecortina per scampare ai processi politici cui venivano sottoposti nell’Italia degli anni ’50 per azioni commesse durante i venti mesi di resistenza o dopo la liberazione. La vita dell’esule Palmieri, infatti, vede intrecciarsi e rimanere attive tre componenti apparentemente inconciliabili e che solo parzialmente si spiegano l’un l’altra: la lotta armata partigiana, l’esilio in Cecoslovacchia e la successiva emigrazione in Svizzera. Tutto appare concatenato ma al contempo frutto di scelte autonome: dall’emergere di una forte identità antifascista legata alla repressione squadrista dei movimenti bracciantili nella comunità d’origine, al tramonto di un’ipotesi rivoluzionaria dilatata e proiettata sino alle manifestazioni seguenti all’attentato a Togliatti del 1948.

DALL’ESILIO FORZATO in un paese che non rispettava le aspettative di «paradiso comunista» e che, specie dopo l’impiccagione di Rudolph Slánský, si mostrava sempre più sottoposto alla grigia cappa di repressione staliniana, alla scuola di politica che, a differenza di quanto previsto da Otello, «non insegnava la rivoluzione», ma formava quadri scevri da qualunque «tendenza partigiana»; dal rientro in Italia dopo il proscioglimento delle accuse, all’emigrazione in Svizzera con la fidanzata di sempre, ormai divenuta sposa. Tutte vicende non riconducibili a quella singola scelta iniziale che nella primavera del 1944 lo aveva condotto alla lotta armata contro il fascismo e che appare il palo da cui gli uomini ex, giusto o sbagliato che fosse, non riuscirono a muoversi. Quella scelta e quegli ideali, considerati «traditi, non sbagliati» vennero continuamente sfidati dagli eventi della vita di Palmieri e dal suo riuscire a conciliare, anche in maniera dialettica, le anime di Battagliero, Enrico Grassi, identità fittizia fornitagli dal partito una volta espatriato, e Otti, nomignolo affibbiatogli dai colleghi della fabbrica in Svizzera.

A CONGEDARE Otello dal leitmotiv dell’instancabile ricerca delle «motivazioni sufficienti a continuare, a fare ciò che c’era da fare» e dal costoso barattare le proprie concrete esigenze con quelle di una «comunità virtualmente estesa al mondo intero» fu la delusione per una politica che si allontanò dalla verità, per abbracciare una ritualità di partito sempre meno tesa alla modifica dell’esistente. È dunque in questo contesto che la densità di significati delle tensioni e delle pulsioni vissute prima di emigrare finì per schiacciare la concezione di azione e immaginazione politica sull’etica del lavoro e sullo sforzo creativo, sulla ricerca di «qualcosa di meglio», unica via per contrastare una disillusione sempre più differita ma sempre più foriera di lacerazioni solo apparentemente pacificabili.
Se l’esperienza è infatti il passato che vive nel presente di Otello, contribuendo a modellarlo, anche il futuro ha vissuto nel presente e nel passato modificandoli, sebbene sotto forma di aspettativa tradita. E ora, «di fronte alla fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli avversari, il «vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto» e il racconto di un’aspettativa finisce per sovrapporsi a quello di un’esperienza.

* Fonte: Simeone Del Prete, IL MANIFESTO

Passato e presente. Cosa ha significato ripensare la cultura e la pratica della magistratura negli anni in cui la società italiana cominciava a cambiare. All’inizio c’è la stagione appartenuta al padre Silvio, con l’avventura della Repubblica di Castrovillari

Castrovillari è una città un po’ particolare, direi, anzi, piuttosto unica: in nessun’altra sono nati tanti magistrati, e, nei tempi recenti, così tanti di sinistra. Non solo: in nessuna altra parte dell’Italia meridionale ho tanti e carissimi amici. (Si dirà che questo è un dato personale e non sociopolitico, e però io non credo che sia casuale). Se Castrovillari è così non deve essere evidentemente fortuito. E il libro che Luigi Saraceni, Un secolo e poco più (Sellerio, pp. 224, euro 16), ha dedicato alla storia della sua famiglia – di suo padre Silvio, di lui stesso e di sua figlia Federica – ci aiuta a capirlo.

INTANTO c’è un dato storico-economico, che ha a che fare con la struttura della proprietà fondiaria di questa nordica provincia calabrese: non c’è il latifondo, e perciò non ci sono mai state grandi famiglie baronali, bensì una piccola proprietà coltivatrice, non sufficiente a essere ricchi ma sufficiente a mandare i figli all’università.

Tutto questo me lo ha spiegato spesso un altro amico nativo del luogo, Enrico Pugliese – uno dei pochi non magistrato tra i miei amici castrovillaresi e calabresi – che sul tema ci ha addirittura scritto la tesi di laurea, un testo purtroppo perduto. Naturalmente la ragione della peculiarità della città non è puramente economica, ma storico-culturale: questa piccola/ media borghesia, troppo povera per schierarsi coi grandi agrari, ma abbastanza ricca per essersi acculturata e avere dunque acquisito un pensiero critico e, di conseguenza una fede progressista, è stata prima risorgimentale, poi a fianco dei primi moti socialisti di inizio XX secolo. Una tradizione evidentemente tramandata alla generazione dell’autore, uno dei fondatori di Magistratura Democratica, una delle più preziose creature della meravigliosa stagione sessantottina, nostro compagno e a lungo collaboratore de il manifesto.

IL LIBRO è diviso in tre parti, la prima dedicata al padre Silvio Saraceni, che già nel 1904 incorre, ventenne, nel suo primo incidente con i carabinieri, per via della sua non occultata fede repubblicana. Una vita in seguito tutta dedicata ai più diseredati dei diseredati abitanti dei piccoli isolati paesi arrampicati sulla Sila, culminata, nel ’45, con la incredibile avventura della «Repubblica di Castrovillari», come fu chiamata la spavalda e coraggiosa gestione da parte dell’avvocato Silvio Saraceni del Comune, di cui era stato nominato «commissario», un titolo che egli rifiutò con sdegno.

La seconda parte del libro è intitolata «Io», e riguarda la vita del magistrato Luigi Saraceni. La voce diventa infatti autobiografica, non più narrante. È una storia assai interessante, perché racconta quanto è scarsamente conosciuto: cosa ha voluto dire cambiare l’ottica, la cultura e la pratica della magistratura tradizionale negli anni in cui il mutamento della società italiana comincia a farsi strada, nei ‘60, una lotta rischiosa per i più giovani che hanno appena intrapreso la carriera, quando era motivo di diffidenza già solo farsi vedere con l’Espresso.

DIFFICILE, perché si è trattato di rimuovere un’ottica di classe profondamente radicata nella struttura stessa dello stato. Saraceni racconta una quantità di fatti, piccoli e grandi, tutti molto significativi: dal «registro S» della Procura, dove venivano imboscate le pratiche che infastidivano il potere; e accanto l’accusa nientemeno che per peculato del povero usciere che, nel mese estivo di vacanza del Tribunale, si era portato a casa il ventilatore inutilizzato e che puntualmente l’aveva riportato quando avrebbe dovuto esser nuovamente usato.

È un tempo che ricordo bene pure io, perché è anche il mio: sebbene io non sia stata mai magistrato, ho però vissuto, in altra collocazione, alcuni degli stessi eventi. In realtà, con lo stesso spirito del magistrato Saraceni che, formalmente, ma solo formalmente, stava «dall’altra parte». Mi riferisco in particolare a un evento del 1963, di cui però con Luigi non avevo mai parlato e dunque mi ha fatto gran piacere trovare nel libro come l’aveva vissuto lui.

SI TRATTA DI UN EVENTO fra i più gravi: la prima grande manifestazione degli edili romani contro la serrata dei costruttori allora all’opera in quello che fu chiamato «il sacco di Roma», aggredita barbaramente dalla polizia. C’entro perché fui arrestata insieme a trentatré edili (la Federazione sindacale mondiale chiese alla Cgil perché non la avevano mai informata che in Italia c’erano anche edili donne!). Luigi parla di tutti i lati oscuri di quella provocazione, dell’incredibile messaggio di congratulazioni inviato nientemeno che dal Presidente della Repubblica, Segni, al presidente del Tribunale per la durezza «esemplare» della sentenza inflitta al termine del processo.

FU L’ULTIMO ATTO del centro destra. Saraceni cita il tenente Varisco, negli anni ’80 ucciso dai terroristi (un episodio più che oscuro), e io ne fui particolarmente rattristata perché in quelle lunghe giornate trascorse nelle celle del Palazzaccio dove ci tenevano rinchiusi quando le udienze venivano sospese perché i magistrati erano riuniti in Camera di Consiglio, Varisco era il mio carceriere, e sottobanco mi passava i giornali. Curiosamente non dice invece quanto emerse molti decenni dopo, quando cominciarono a essere declassificate le carte segrete: quella provocazione era stata ordita dal gruppo Gladio creato da Cia e servizi segreti italiani, operante per molti anni, con pieno coinvolgimento del governo Dc.

La terza parte del libro è intitolata «Federica». È brevissima, ma credo che tutto il libro Luigi l’abbia scritto per parlare di lei, sua figlia, arrestata nel 2002 con l’accusa di partecipazione a banda armata in occasione dell’omicidio da parte delle Br del giuslavorista D’Antona.

Questo capitolo non provo neppure a raccontarlo. Va letto: perché nessuno può riassumere un tumulto di sentimenti e di dolore quale provoca un caso come questo. Al momento della notizia e poi a lungo, quando sua figlia la incontra in prigione, nientemeno che, caso quasi unico, in qualità di avvocato difensore. Per anni. (Quando accade Luigi non è più magistrato, dopo una parentesi parlamentare – durante la quale, fra l’altro, insieme a Giuliano Pisapia, si era occupato della tragica vicenda Ocalan – ha scelto la professione forense).

È DUNQUE AVVOCATO, ma insieme, adesso, giudice di sé stesso: dove ho sbagliato nell’educarla, si chiede con angoscia, di fronte alla notizia improvvisa dell’incarcerazione di Federica, e poi a lungo per cercare le proprie colpe di padre e quelle di sua figlia, ma anche le sue motivazioni. Possibile che la tradizione ribelle della famiglia e di Castrovillari, l’abbia indotta a un gesto così irrazionale? È colpa mia? – si chiede tormentato.
Federica si farà diversi anni di prigione, sebbene non avesse sparato neppure un colpo. Ma la storia drammatica ha un finale se non felice almeno positivo: dietro le sbarre ha preso la laurea che aveva sempre disertato, con una tesi su L’antipedagogia internazionale di Makarenko. Esame in cella, 110 e lode, molte pubblicazioni.

* Fonte: Luciana Castellina, IL MANIFESTO

Uno studio comparativo tra il caso tedesco e quello italiano: il punto di rottura tra la Germania e il nostro paese è nello stragismo e nel protagonismo del movimento operaio

Segnate da un destino bellico comune fino all’8 settembre 1943 e poi diviso da lì al termine della guerra, l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca si trovarono ad affrontare, nei loro peculiari status di nazioni sconfitte, il tornante degli anni 1968-1980.
Lo fecero entro un quadro caratterizzato dalla transizione alla democrazia, da laceranti conti da compiere col passato e infine da forme di radicalizzazione del conflitto politico-sociale negli anni settanta che portarono non solo alla manifestazione di spinte «emergenziali», sul piano della legislazione, ma alla composizione di paradigmi politico-culturali che segnarono la struttura istituzionale nel campo della prevenzione, del controllo e della repressione dei fenomeni considerati «sovversivi».

UNO STUDIO COMPARATIVO efficace tra il caso tedesco e quello italiano ci è ora fornito dal volume di Laura Di Fabio Due democrazie, una sorveglianza comune. Italia e Rft nella lotta al terrorismo interno e internazionale 1967-1986(Mondadori-Le Monnier, pp. 228, euro 17) in cui la giovane storica estrae dall’analisi di documenti d’archivio italiani e tedeschi un impianto interpretativo metodologicamente convincente e storicamente fondato.
Il libro non si limita a restituire la «cifra» storico-politica dei conflitti del «lungo ’68» né scivola sul semplicistico crinale recriminatorio di denuncia della repressione contro i movimenti. Introduce invece categorie interpretative che pongono in evidenza i meccanismi della moderna resignificazione degli avversari, dei nemici, del pericolo per la sicurezza dello Stato. Elementi che esprimono in modo sintomatico, seppur non automaticamente assimilabile, la radice d’origine della grammatica politica della nostra contemporaneità.
Di Fabio, che si è specializzata nel corso degli anni nelle università di Roma, Lipsia e Treviri, contestualizza nella cornice della Guerra Fredda le evoluzioni storiche che determinarono le principali differenze dei due sistemi istituzionali di fronte all’emergere dei movimenti sociali di fine anni sessanta e di quelli armati della fase successiva.

IL LIBRO PROCEDE alla comparazione italo-tedesca «per contrasto», piuttosto che per similitudini, e per questo offre una resa di complessità che consente la comprensione di un tema che nella sfera pubblica è tanto dibattuto quanto scarsamente inteso nella sua profondità, limitato dai campi duali garantisti contro giustizialisti o fautori della ragion di Stato contro esegeti della ribellione.
Di Fabio si sottrae all’abbraccio esiziale di questa dinamica e nello stesso tempo, sostanziata da una documentazione consistente e innovativa, non rinuncia ad esprimere, con chiarezza e solide ragioni interpretative, la sua lettura d’insieme del fenomeno.
Così le leggi speciali sull’ordine pubblico promulgate in Germania nel giugno 1968 dal primo governo di Grosse Koalition segnano da un lato una limitazione di fatto delle libertà fondamentali dei cittadini e dall’altra si propongono la sedimentazione di una prassi di costituzionalizzazione anti-totalitaria (ovvero anticomunista e antifascista) funzionale allo sblocco del sistema politico dell’alternanza e a un processo d’integrazione organica del movimento operaio nel quadro del sistema economico capitalista. Da qui discende la seconda fase emergenziale tedesca (1969- 1972) promossa, non a caso, dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt e calata da un lato nel contesto estero della Ostpolitik e dall’altro in quello interno della contestazione studentesca.

IN ITALIA, LE CONDIZIONI si presentano molto diverse e Di Fabio individua i punti di rottura che differiscono il quadro nazionale del nostro paese da quello della Germania, primi fra tutti il protagonismo del movimento operaio (oggetto di un’integrazione negativa e vissuto sistemicamente come «nemico interno» in chiave anticomunista) e poi l’anomalia terroristica dello stragismo che iniziata a Piazza Fontana il 12 dicembre 1969 si protrasse per oltre un decennio accompagnando movimenti di natura eversiva e golpista e rappresentando un unicum nell’Europa occidentale.

TUTTAVIA L’EMERGERE di una legislazione speciale sull’ordine pubblico in Italia non matura all’interno di una contrapposizione frontale tra ordinamento costituzionale e spinte eversive di carattere autoritario, che ebbero in larga parte una natura e una matrice d’origine interna ai corpi di sicurezza dello Stato, ma al contrario si definisce attorno alla nozione di controllo dei movimenti politici e sociali della sinistra storica e della sinistra extraparlamentare.
Il 1974 segnò in questo senso un primo tentativo d’inversione di tendenza, sotto la spinta di drammatici eventi come la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio e del treno Italicus del 4 agosto, con lo scioglimento formale dell’Ufficio Affari Riservati guidato da Federico Umberto D’Amato e quello dei gruppi neofascisti come Ordine Nuovo prima e Avanguardia Nazionale poi.
Entro quest’arco temporale viene promossa la legislazione d’emergenza sull’ordine pubblico che scandisce modi e tempi dell’avvicinamento del Pci al governo, con i comunisti contrari alla «Legge Reale» nel 1975 e poi schierati su posizioni «d’ordine» contro la sua abolizione nel referendum del 1978 promosso dal partito radicale.

I DIVERSI TENTATIVI di riforma e riorganizzazione degli apparati di sicurezza nazionali, che caratterizzarono gli anni dal 1974 al 1981, non riuscirono a rompere la «duplice discordanza democratica» italiana determinata da un lato dalla continuità di uomini e prassi di controllo politico derivanti dalla struttura statale ereditata dal fascismo e dall’altro la determinazione geopolitica anticomunista che poneva gli organi di sicurezza del paese nella peculiare condizione di considerare larga parte dell’opposizione parlamentare e costituzionale come un problema di ordine militare, secondo una logica concettuale espressa in modo esplicito dal generale Mario Arpino, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, che in commissione stragi alla fine degli anni novanta affermò in modo non equivocabile: «Piaccia o non piaccia, ancora negli anni ottanta, per noi (militari) un terzo del Parlamento italiano (il Pci) era il nemico».
Nella parte conclusiva della sua ricerca Di Fabio coglie nella cooperazione antiterrorismo italo-tedesca degli anni ottanta il nesso che prefigura una misura sempre più transnazionale e delocalizzata dei concetti di sorveglianza, monitoraggio e uso della forza da parte degli Stati in epoca multipolare, preconizzando nuovi modelli e forme di gestione degli spazi e delle categorie del controllo che investono direttamente, in modo critico e contraddittorio, la relazione tra uso del monopolio della forza, «disciplinamento» delle istanze sociali a tutela dell’ordine costituito e società contemporanea.

È ALL’INTERNO di questa dimensione della modernità che sembra estrinsecarsi in modo manifesto la contraddizione principale del conflitto tra libertà e individuali e collettive da un lato e garanzia della «libertà dalla paura» dall’altro.
In questo quadro duale rappresentato da Di Fabio, il riferimento a Norberto Bobbio secondo cui «tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste» si incontra e confligge con l’idea che la pubblicità delle azioni di controllo renderebbe queste ultime «di impossibile attuazione», richiamando – scrive la studiosa – da un lato la fragilità dello Stato e dall’altro il «trasformismo resiliente delle istituzioni statali che detengono il monopolio legittimo della forza».

* Fonte: Davide Conti, IL MANIFESTO

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