C’è ancora, fra le tante carte che via via si accumulano e che non butti mai perché ti ricordano momenti speciali della vita (e della storia) un biglietto ingiallito, un messaggio a matita reso conciso dalla circostanza. E’ di Otelo de Carvalho, morto ieri: una scomparsa che ha emozionato una buona parte del mondo, profondamente la mia generazione, per nulla Millennials e affini, per i quali – ho scoperto – l’amatissimo protagonista di un evento così importante del ‘900 è uno sconosciuto.
In quel biglietto, il generale de Carvalho mi dice che l’appuntamento che avevamo poche ore dopo salta: lo stanno arrestando.
No, non è il tragico arresto degli anni ’80, una stagione tutta diversa, quando fu preso a casa sua e poi condannato a 15 anni di prigione per terrorismo, un episodio tutto ancora da chiarire, assai probabilmente una montatura poliziesca fondata sulla sua grande ingenuità che non gli aveva fatto mai interrompere i rapporti con un minuscolo gruppo estremista nella speranza di convincerli a desistere dal loro ridicolo piano golpista. Lo fecero uscire in libertà provvisoria dopo due anni e poco dopo lo amnistiarono perché – credo – gli stessi che lo avevano condannato si vergognarono. Come tutto il Portogallo, sbalordito perché si era arrivati a tanto: arrestare l’eroe più coraggioso, più popolare della Rivoluzione che aveva portato la democrazia nel paese, quello che aveva avuto un ruolo decisivo nei momenti – nei tanti momenti difficilissimi – che segnarono per anni il processo che seguì l’insorgenza liberatoria da uno dei più tristi regimi fascisti d’Europa, quello di Salazar.
Quando quel mio appuntamento con Otelo – non il primo – fu reso impossibile, era il ’75 ,o il ’76, non ricordo. Per arrestarlo, una fazione di destra dell’esercito aveva ridicolmente utilizzato una norma che proibiva ai militari dichiarazioni politiche.(Figurarsi, i militari in quel momento erano la politica, tutto il potere era affidato all’assemblea del MFA, il Movimento delle Forze Armate!).
Io ero a Lisbona perché per il manifesto ci restai per mesi, e poi avanti e indietro, seguendo la triste traiettoria che alla fine “normalizzò” il paese. Di cui conservo nella memoria una di quelle immagini che non si cancellano, per la gioia che evocano o,all’opposto, per il dolore.Questa mi fa tutt’ora piangere.
Si trattò di uno degli ultimi atti: un Comitato centrale del PCP riunito, per ragioni di sicurezza ormai già necessarie, nella palestra di un paesino 100 km a nord di Lisbona – Alcabasa – che avevo raggiunto nella notte assieme ad altri giornalisti perché ci avevano svegliato e avvertito che i “comunisti erano stati accerchiati” e ora erano asserragliati nella palestra, minacciati da una folla di contadini armata, trattenuta “a stento” – così l’informazione ufficiale – dall’esercito, un reggimento comandato dal generale di destra Charais, che operava nel nord del Portogallo, la zona conservatrice del “minifundo”, spaventata dalla mobilitazione per la riforma agraria delle masse bracciantili delle zone rosse dell’Alentejo, nel sud, quelle del “latifundo”.
Quando arrivammo già sparavano, e fummo costretti a rifugiarci sotto le macchine. Poi, la messa in scena della odiosa mortificazione: i membri del Comitato centrale caricati sulle autoblindo militari, una lunga colonna, ai lati, esultanti, le bande di piccoli agrari reazionari.
Attraverso i vetri intravidi il volto terreo di Alvaro Cunhal, segretario del PCP, responsabile di molti gravi errori di quel periodo, ma un uomo che proprio a 15 km da lì, nel carcere di Peniche, aveva passato decenni, quello in cui, appena arrestato, era stato tenuto legato per i piedi, appeso a testa in giù. Per giorni.
La morte di Otelo mi ha messo tristezza, ma anche di più che i giovani non sapessero chi era. Forse per questo sto ricordando le cose tristi della stagione dei garofani, che furono invece una straordinaria esplosione di gioia e di inventiva popolare. Che trovava legittimazione nientemeno che in un gruppo di militari golpisti, ma rivoluzionari. Il contrario di quanto un anno prima era accaduto in Cile.
Fra le carte che conservo, c’è anche uno stravagante documento: la copertina di una pubblicazione portoghese dell’epoca, O Journal, che raffigura i leader rivoluzionari di tutti i tempi seduti sui banchi di scuola: da Lenin a Mao a Gramsci a Bakunin a Trotzki , senza dimenticare né Stalin né Rosa Luxemburg, ma anche Marcuse e Sartre e Bertrand Russell, il volto assorto di chi è alle prese con un rompicapo.
Alla lavagna la carta del Portogallo sovrastata da un punto interrogativo: che diavolo è questa rivoluzione condotta da militari che hanno letto Marx, non uno dei soliti colpi di stato militari, magari progressisti e però autoritari, come tanti altri nel terzo mondo, ma un’apertura di credito piena e persino eccessiva ad ogni possibile esperienza sociale di base, una straordinaria multiforme politicizzazione non solo consentita ma anche sollecitata, uno slogan ,”el poder o povo”, che è anche un progetto – il “piano-guida” – di democrazia diretta? Per tutti, un rebus.
Il vero enigma, la specificità della vicenda, era in effetti questo Mfa, Movimento delle Forze Armate, che , allontanato il reazionario colonnello Spinola, aveva preso le redini del paese avviando una serie di processi inediti nella storia dei socialismi realizzati.
Ed è ben comprensibile che l’esperienza che si metteva in moto avesse affascinato la nuova sinistra di tutta Europa, in quegli anni alla ricerca di una strada che non ripercorresse gli errori sovietici ma nemmeno segnasse la rinuncia a combattere il capitalismo.
Non meraviglia che Lisbona sia diventata subito e poi per un lungo periodo la capitale dei sessantottini di tutto il mondo, italiani in particolare.
All’aeroporto, ricordo, accanto agli schermi che annunciavano arrivi e partenze, c’erano i cartelli che riportavano i nostri appuntamenti: “Lotta Continua stasera si riunisce alle 22,30 a…”, “Il Pdup-manifesto alle 21 lì…”.
Nei nostri appuntamenti serali, in cui ci immergevamo appena finiti i quotidiani cortei, si discuteva fino all’alba e ci si incontrava con i nuovi compagni che la rivoluzione dei garofani ci aveva inaspettatamente offerto.
Noi de Il Manifesto-Pdup vedevamo quelli del Mes, il movimento della sinistra socialista, per i quali il nostro comunismo eretico costituiva un punto di riferimento. Fra loro Jorge Sampajo, che venne anche a Bologna al nostro congresso nazionale del 1975 a capo di una delegazione del Mes, movimento della sinistra socialista, in seguito, dal 1996 al 2006, nientemeno che presidente della Repubblica Portoghese.
Come sono poi andate a finire le cose è storia nota. Anche fra di noi – giornalisti e militanti di sinistra (le due cose spesso si sovrapponevano) – discutemmo nei mesi di declino della rivoluzione su come giudicare il rapidissimo succedersi degli eventi.
Ricordo le lunghe telefonate fra Lisbona e la redazione a Roma: come valutare il documento varato il 25 marzo dai nove ufficiali “ragionevoli”, autore principale Melo Antunes, il più saggio degli ufficiali, che giustamente cercò una stabilizzazione ragionevole.
Cosa diceva Otelo, soprattutto, che l’aveva firmato anche lui sebbene ragionevole, nel bene e nel male, non era stato mai.
Ma il giudizio di Otelo ci premeva, era una convalida decisiva. Perché abbiamo tutti sempre avvertito che avrebbe difeso fino in fondo l’idea che una democrazia è tale se al popolo si danno tutti i possibili strumenti per decidere. Ciao Otelo. Sei morto comunque in un momento della vita politica del Portogallo migliore di quella che avrebbe potuto capitare: fra tutti i paesi europei il Portogallo mi sembra quello che ha il governo migliore, un primo ministro socialista fra i meglio, appoggiato, sia pure con molte
critiche, da due partiti di sinistra consistenti: il vecchio PCP molto rinsavito, il Bloque, che ebbe la sua prima pubblicazione ufficiale intitolata “O Manifesto”, per via del nostro giornale e dello stretto rapporto che uno dei suoi fondatori, Miguel Portas, ebbe con il Pdup.
* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto
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