Guerre & Pace

Dalla firma degli Accordi di pace, in Colombia, sono stati 583 i giornalisti minacciati e la risposta dello Stato è risultata inadeguata, per non dire inesistente. Questa amara constatazione proviene dalla Fundación para la Libertad de Prensa (Flip), che da poco ha reso pubblico il rapporto Callar y fingir, la censura de siempre”, il cui titolo è inequivocabile. In un’intervista rilasciata al quotidiano El Espectador, Jonathan Bock Ruiz, direttore della Flip, imputa al governo la persecuzione contro gli operatori dell’informazione.

Secondo Palacio Nariño in Colombia non esiste alcun tipo di censura e non sta accadendo niente di particolare, constatano i giornalisti, denunciando inoltre la profonda antipatia della polizia nei loro confronti poiché, secondo le forze dell’ordine, la stampa non perderebbe occasione per mettere in cattiva luce i militari. In generale, è certo che i reporteros non godono di particolari attenzione da parte dello Stato. Negli ultimi quattro anni i giornalisti licenziati sono stati circa 1.100 e questo ha finito per incidere, in maniera negativa, sulla pluralità dell’informazione, requisito necessario per la circolazione delle notizie.

A questo proposito ha lasciato sconcertati il caso di Juan Pablo Bieri, il direttore del gruppo di media pubblici RTVC, che ha dichiarato senza alcun problema di voler chiudere (in realtà il verbo originale utilizzato è stato matar, uccidere) il programma Los Puros Criollos per le opinioni espresse dal presentatore Santiago Rivas. Il clamore suscitato dalle dichiarazioni di Bieri ha fatto sì che il direttore tornasse sui propri passi, ma la chiamata del presidente Iván Duque, che lo ha voluto nel suo staff della comunicazione, ha rappresentato un segnale più che evidente di come la pensasse la più alta carica del paese sullo scandalo in cui era rimasto coinvolto lo stesso Bieri.

La Flip ha sottolineato che ben 66 giornalisti sono stati aggrediti nell’ambito dei 40 giorni del paro nacional contro il paquetazo di Duque. In questo contesto 19 operatori dell’informazione sono stati fermati illegalmente dalla polizia, ritenuti “colpevoli” di aver coperto le manifestazioni legate allo sciopero.  Secondo la Fundación para la Libertad de Prensa tra i fatti più gravi del 2019 vi è l’omicidio di Mauricio Lezama, che stava lavorando ad un documentario su un militante di Unión Patriótica, sopravvissuto ad un attentato negli anni Ottanta, e l’uccisione di Libardo Samaniego, il quale sosteneva l’urgenza di compiere passi avanti a proposito del processo di pace. E ancora, tra agosto ed ottobre sono stati ripetutamente minacciati di morte Eduardo Manzano, Fransua Martínez e Alexander Cárdenas, a seguito delle loro inchieste sul diffondersi dei cartelli della droga messicani nel Cauca. Nel mirino sono finiti anche Natalia Cabrera e Pablo Navarrete di RTVC. Tra il 6 e l’11 settembre scorsi la donna ha ricevuto minacce sul suo cellulare, mentre il collega è stato aggredito, all’interno della sua abitazione, da un uomo spacciatosi come fonte confidenziale rivelatosi in realtà l’ideatore di un tranello. Navarrete è stato costretto a cancellare dal computer tutto il materiale raccolto per le sue inchieste giornalistiche, l’unico modo per avere salva la vita. Quanto a Nicholas Casey, corrispondente dalla Colombia per il The New York Times, è stato costretto ad abbandonare il paese il 18 maggio 2019 a seguito delle sue indagini sui casi dei falsos positivos.

Nelle intimidazioni contro i giornalisti talvolta ha giocato un ruolo di primo piano anche la polizia, come è accaduto nel caso di Cerosetenta, una pubblicazione online della Universidad de los Andes costretta ad eliminare la pubblicazione Manual de Autoprotección Contra el Esmad, ritenuta provocatoria e colpevole di incitare alla violenza contro le forze antisommossa dell’esercito colombiano. La Flip ha anche reso noto che il 25 ottobre 2019 la polizia ha sequestrato centinaia di copie dei giornali Entre Líneas e Nostoca, ma non ha risparmiato critiche nemmeno alle guerriglie del paese, indicando sia l’ala dissIdente delle Farc che ha ripreso le armi sia l’Eln come responsabili di sequestri ai danni dei giornalisti.

Se nel corso del 2019 la giustizia colombiana e interamericana hanno compiuto, pur circondati dall’omertà dello Stato, dei progressi per quanto riguarda la denuncia dei crimini contro la stampa, sono almeno 125 i giornalisti uccisi che attendono ancora giustizia. La recente creazione della Unidad Nacional de Protección sembra rappresentare più una misura di facciata che altro. Scrivere, in Colombia, è un mestiere pericoloso.

* Fonte:  David Lifodi, La Bottega del Barbieri

NUEVA VIDA (COLOMBIA). Nell’anniversario della «Operaciòn Genesis», lo sfollamento forzato per mano di esercito e paramilitari nel ’97 per cui lo Stato colombiano – con una sentenza storica – è stato condannato nel 2013 dalla Corte Interamericana Ddhh, con associazioni delle vittime, organizzazioni internazionali, giornalisti, leader e lideressas comunitari e la Commissione di Justicia y Paz cerchiamo di raggiungere la Zona Umanitaria Nueva Vida.

Occorre attraversare il braccio di mare del Golfo di Urabà, poi risalire il fiume Cacarica, nel bacino del Bajo Atrato, regione del Chocò. Le nostre cinque lance vengono bloccate dalle motovedette dell’esercito in mare aperto, non vogliono farci passare e ci lasciano cuocere sotto il sole per tre ore.

La pressione delle organizzazioni per i diritti umani si fa sentire e la Fuerza Naval è costretta a farci proseguire, ma siamo di nuovo fermati e sottoposti a una perquisizione.

Le rive del Rio Cacarica sono costellate di palafitte di legno, piccoli caserios di comunità, per lo più afrocolombiane. Ci chiedono di non fotografare, non è sicuro. Risaliamo, stavolta in canoa, per stretti canali nel pieno della foresta, che poco dopo dobbiamo attraversare a piedi.

Quando arriviamo a Nueva Vida, di sera, militari stazionano all’entrata della comunità. «Ci sono anche i paramilitari», ci spiega chi ci accompagna. Stanno apertamente insieme all’esercito.

Lì incontriamo Ubaldo Zuñiga alias Pablo Atrato, ex comandante del fronte 57 delle Farc, oggi membro dell’omonimo partito. Lui in queste zone ha combattuto per vent’anni, da qui il suo nome di battaglia: «La gente è prigioniera nel proprio territorio – ci dice – In Cacarica sono 5/600 gli uomini delle Agc, in Chocò 3mila. Lo Stato sono loro, al servizio del modello estrattivista del governo. I narcos vengono usati contro la gente per sfollarla».

Gli ex combattenti Farc sono oggetto di una rappresaglia durissima (secondo Indepaz sono 174 quelli uccisi dall’accordo di pace, 13 solo quest’anno) e anche Ubaldo ha subito attentati: «Non stanno rispettando gli accordi presi all’Avana che avevano la redistribuzione della terra al centro, sia per le comunità che per noi guerriglieri, oggi impegnati soprattutto in attività agricole e cooperativismo. Di 250 richieste avanzate per progetti collettivi, visto che la nostra visione politica era ed è basata sulla gestione partecipata e anticapitalista, ne sono stati approvati 49. Ma la gente resiste».

Il prezzo però è molto alto e l’esiguo numero di deputati ottenuto dal partito delle Farc, nato dopo la consegna delle armi nel 2017, non facilita l’avanzare del progetto dell’ex guerriglia: «Anche se il processo di pace è il meglio che ci poteva accadere – insiste Ubaldo – la naturale evoluzione del nostro progetto politico».

L’ex guerriglia ha però ripreso le armi con Ivan Marquez, che l’estate scorsa ha annunciato l’avvio della Segunda Marquetalia, il luogo dove storicamente nacquero le Farc: «Non li giudico – dice – vista la situazione di inadempienza dello Stato. Alcuni compagni, anche se convinti della necessità di lasciare le armi, sono stati effettivamente costretti a tornare sulle montagne».

Poi c’è l’Eln, che non ha accettato la pace: «Gli elenos hanno una struttura federale senza un coordinamento centrale. Questo gli espone al pericolo di infiltrati, vedasi l’attentato dell’anno scorso a Bogotà (43 cadetti della scuola di polizia uccisi da un’autobomba, attentato rivendicato dall’Eln)».

Il governo continua a negare la persecuzione contro gli ex combattenti: «Dobbiamo prendere una posizione più forte. Sia nel Congresso, che a livello internazionale. Dobbiamo coordinarci fra di noi. Perché la mattanza dei nostri compagni, ammazzati come cani nelle strade, senza nessun onore, deve fermarsi, sennò finiremo come la Union Patriotica, sterminata negli anni ’80 (5mila morti ammazzati). Noi avevamo un progetto, una visione sociale, e il processo di pace è la nostra occasione per poterlo mettere in pratica, prima che le multinazionali si mangino il nostro Paese, sulla pelle della gente».

* Fonte: Francesca Caprini, il manifesto

La Bahri Yanbu accolto all’alba con razzi e lacrimogeni. Poi la prefettura dà ragione ai lavoratori: il materiale «border line» viene trasferito fuori dal porto

Hanno vinto i camalli, ha vinto la «guerra alla guerra». Lo sciopero e il presidio indetti a Genova contro la Bahri Yanbu è riuscito: la nave cargo saudita arrivata ieri mattina non verrà caricata con i generatori elettrici che sarebbero serviti per la guerra in Yemen. E il blocco da oggi si estende a tutti i porti liguri per evitare che il carico avvenga nel porto militare di La Spezia, lontano dai riflettori accesi meritoriamente da lavoratori e Cgil nel capoluogo.

SOTTO UNA FORTE PIOGGIA alle 4 e 30 la nave è stata accolta dagli striscioni e dai fumogeni del Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) che hanno anche tentato di salire sul cargo. Poi i lavoratori della Compagnia unica dei camalli hanno impedito le operazioni di carico nell’area di attracco della nave partendo con un presidio al varco portuale Etiopia, in lungomare Canepa.

Lo sciopero deciso domenica dalla Filt Cgil era mirato: riguardava tutti gli operatori di mare e di terra che avrebbero dovuto lavorare sulla Bahri Yanbu, il cargo della compagnia marittima dell’Arabia Saudita che trasporta materiale bellico diretto a Gedda e da lì al conflitto civile in Yemen.

La mobilitazione partita già la scorsa settimana sotto la scia del boicottaggio avvenuto al porto francese di Le Havre aveva visto saldare le posizioni dei camalli con quelle delle ong laiche come Arci, Amnesty, Libera, Opal per il disarmo e cattoliche Acli, Salesiani del Don Bosco, comunità di San Benedetto. Tutti uniti dallo striscione: «Porti chiusi alla guerra, porti aperti ai migranti».

Sotto accusa c’erano i generatori della Defence Tecnel di Roma, materiale militare che invece l’agente a Genova della Bahri sosteneva essere «civile». La scoperta dei generatori «border line» aveva portato anche la Cgil – dopo il collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) – alla mobilitazione totale anche sotto la spinta della affollata assemblea pubblica di venerdì.

IL SUGGELLO ALLA VITTORIA dei lavoratori è arrivata dalla riunione tenuta in prefettura con i rappresentanti sindacali, i vertici dell’Autorità portuale e i dirigenti del Gmt, il terminal. Niente carico e generatori spostati in un’area protetta del Centro smistamento merci (Csm). Quando verso mezzogiorno la polizia ha scortato gli operatori che spostavano i grossi generatori il blocco è stato tolto fra la felicità di tutti. «Avevamo proposto noi di portare fuori la merce contestata e ci hanno ascoltato», commenta Luigi Cianci della Cooperativa unica dei camalli e delegato Filt Cgil. «A parte il comportamento vergognoso di Cisl e Uil, questa volta c’era tanta voglia nei lavoratori di fare qualcosa, di cominciare ad agire, di scrollarsi di dosso l’apatia», spiega Richi del Calp.

NEL PRIMO POMERIGGIO però iniziava a farsi concreta la possibilità che il generatore potesse essere spostato al porto di Spezia dove secondo indiscrezioni potrebbero arrivare nelle prossime ore, via treno, anche gli 8 cannoni Caesar che sono stati all’origine del blocco al porto di Le Havre.

Per evitare che il problema di Genova si ripresenti perfino peggiorato a La Spezia la Filt Cgil assieme alla Cgil Liguria hanno indetto uno sciopero preventivo per tutti i porti della regione. «Abbiamo deciso di dichiarare lo sciopero dei lavoratori addetti a tutti i servizi e alle operazioni portuali, di mare e di terra, che riguardano gli scali liguri dove avvenga l’eventuale attracco della nave Bahri Yanbu – spiega Laura Andrei, segretaria regionale della Filt Cgil – perché non si proceda con l’imbarco di materiale bellico impiegato in operazioni definite dalle Nazioni Unite “crimini di guerra”. Anche all’arsenale di Spezia riusciremmo a bloccare il carico».

FILT E CGIL LIGURIA «auspicano che anche l’Italia, come gli altri stati europei, decida finalmente di dare un segnale forte contro la più grave catastrofe umanitaria del mondo».

A conferma del livello di intatta civiltà di buona parte di Genova arriva il commento del presidente di Federlogistica ed ex presidente dell’autorità portuale Luigi Merlo: «Credo che la decisione dei camalli e della comunità dei lavoratori portuali vada rispettata perché fa parte della loro storia e identità. È vero che c’è il libero scambio delle merci – ha completato Merlo – ma c’è anche la scelta individuale, importante, etica e morale, che credo debba essere rispettata e faccia pienamente parte della storia del porto di Genova».

* Fonte: Massimo Franchi, IL MANIFESTO

In guerra. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove

Per scatenare una guerra non serve più nemmeno la «pistola fumante» dei tempi di Bush. Ricordate la sceneggiata di Colin Powell con le fialette di antrace , per convincere il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad avallare la guerra contro Saddam Hussein. Una guerra basata su una «fake news», come ce ne sono state molte nella storia, poco importa se si è distrutto un paese che non aveva le armi di distruzione di massa. Quindici anni dopo chi se lo ricorda?

La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove.

Basta un’«autocertificazione» di Macron o di Trump: «Abbiamo le prove» che Damasco ha usato i gas a Duma e lanciano i missili. Damasco ha superato quella che Obama aveva definito la «linea rossa» (l’uso di armi chimiche). E proprio nel giorno in cui gli esperti dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) dovevano iniziare le loro indagini per verificare l’uso o meno dei gas, scatta l’intervento occidentale preventivo. Non servono le prove, soprattutto se rischiano di non assecondare la follia di Trump e dei suoi seguaci. Per ora, si dice, si è trattato di un atto dimostrativo, forse un test per verificare la reazione di Mosca (informata preventivamente). Vista l’efficienza dimostrata dai sistemi antimissilistici siriani (informati dai russi), che avrebbero abbattuto la maggior parte dei 110 missili lanciati, non sarà il caso di sottoporli a una prova più pesante? Il rischio di un’escalation non è da escludere. Del resto Trump sta cercando il modo meno «disonorevole» per uscire da una guerra che ha perso: Assad è ancora al potere e, anzi, ieri dopo l’attacco la popolazione nelle piazze di Damasco ha inneggiato ad Assad. I curdi siriani, aiutati dagli Usa per sconfiggere l’Isis, sono stati abbandonati sotto le bombe del sultano Erdogan.

Tra gli obiettivi attaccati dall’operazione unilaterale di Trump (Macron e May), secondo la Cnn, che cita fonti della difesa Usa, vi sarebbero anche due siti di stoccaggio di armi chimiche nell’area di Homs. O i siti erano vuoti (gli stessi americani nel 2014 avevano annunciato che i siriani avevano consegnato tutte le armi chimiche) oppure si tratta di un gesto folle che avrebbe potuto provocare la dispersione nell’ambiente delle famigerate armi con conseguenze letali sulla popolazione. Ma forse per gli Usa non è così importante: in Iraq, nel 2003, l’avanzata americana aveva fatto fuggire i guardiani che controllavano i depositi di Yellow cake, poi saccheggiati dalla popolazione che, ritenendolo un fertilizzante, lo aveva utilizzato provocando l’inquinamento delle acque e dei terreni.

Ora si aspetteranno i risultati dell’indagine condotta dagli esperti dell’Opac? E i risultati saranno chiari e definitivi? Ma anche se troveranno tracce di gas, chi li avrà usati?

Il pensiero torna all’Iraq quando il rapporto presentato dagli ispettori dell’Unmovic (Blix) e dell’Aiea (el Baradei) al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 14 febbraio 2003 (il giorno dopo lo show di Powell) non interessava a nessuno. Anzi, «ho avuto l’impressione, subito prima che prendessero la decisione di dare il via all’attacco, che il nostro lavoro li irritasse», aveva detto Hans Blix in una intervista al giornale tedesco Welt am Sonntag.

C’è da supporre che anche l’indagine dell’Opac, qualsiasi siano le conclusioni, non scalfirà le convinzioni di Trump, Macron e May, che con questo attacco militare possono distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. Merkel e Gentiloni non hanno partecipato ma hanno approvato «l’azione necessaria» senza chiedere prove. Con questa nuova battuta militare si rafforza l’asse britannico-americano, indispensabile dopo la Brexit, ma Trump è riuscito anche a riallineare il leader turco Erdogan, che ha approvato l’azione, dopo le sue intemperanze che avevano portato un paese della Nato (la Turchia) a trattare con la Russia e l’Iran. Il presidente Usa ha anche rassicurato Israele proprio mentre continua il massacro dei palestinesi.
Trump sta scherzando con il fuoco e forse non ha tenuto conto che sul terreno siriano oltre alla Russia c’è anche l’Iran.

FONTE: Giuliana Sgrena, IL MANIFESTO

Photo: Alisdare Hickson , Anti-war protest in London, via Flickr.com, Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

Per chiedere la liberazione di Ocalan e per denunciare le connivenze europee con la Turchia

Nel giorno in cui il direttore dell’ospedale di Afrin, il dottor Mohammad, accusa la Turchia di aver usato armi chimiche contro il cantone curdo siriano, a Roma in 5mila si ritrovavano in Piazza dell’Esquilino per marciare in solidarietà con Rojava e chiedere la liberazione di Abdullah Ocalan.

Sono trascorsi esattamente 19 anni da quando il leader del Pkk (a cui l’Italia rifiutò l’asilo) fu catturato dai servizi di Ankara in Kenya. Da allora vive in isolamento nell’isola-prigione di Imrali. Lungo un percorso militarizzato, blindati, file di poliziotti e anche un idrante (e con gli attivisti da Firenze che denunciavano online di essere stati bloccati in autostrada), hanno marciato Uiki, Rete Kurdistan, Comunità Curda e decine di associazioni.

Aprono il corteo le donne curde vestite negli abiti tradizionali, tra le bandiere del Pkk, delle Ypg/Ypj, il volto di Ocalan e un fantoccio di Erdogan.

«Siamo qui oggi per due motivi: per denunciare il complotto internazionale che 19 anni fa fece imprigionare il nostro presidente Ocalan e per dare voce a chi resiste in Turchia e a Rojava, da più di 25 giorni sotto i bombardamenti turchi», dice al manifesto un rappresentante del centro Ararat, che chiede di non essere citato.

«Afrin ha accolto in questi anni più di 300mila profughi. Non solo dopo il 2011 e lo scoppio della guerra in Siria, ma anche prima: tanti curdi fuggiti dalla Turchia si sono rifugiati qui. Oggi stiamo vivendo un secondo Sykes-Picot, 100 anni dopo: l’obiettivo è disegnare nuovi confini, una nuova mappa del Medio Oriente, sulla base degli accordi di paesi stranieri che proteggono gli interessi delle industrie delle armi e del petrolio. E se nel 1920 divisero il Kurdistan in quattro parti, ora provano a separare Afrin, creando cinque Kurdistan diversi. Devono sottomettere il popolo kurdo per interessi energetici, ma anche per l’acqua del Tigri e dell’Eufrate. Non è un caso che la Turchia stia costruendo nuove dighe o che quelle esistenti vengano affidate a compagnie straniere, anche italiane, come a Mosul».

Che gli interessi italiani in Turchia fossero consistenti lo si è visto due settimane fa quando Erdogan, in visita a Roma, ha trascorso un’intera serata con decine di aziende nostrane: «Gli elicotteri usati per bombardare i curdi sono italiani – continua – E sono tantissime le aziende italiane presenti in Turchia o che fanno affari lì tramite appalti, sfruttando il lavoro locale: operai turchi e curdi che lavorano in aziende italiane in Turchia vengono pagati 300 euro al mese per 8 ore al giorno; il governo turco acquista un chilo di nocciole dai contadini per 8 lire turche, 1,5 euro, e poi le rivende alla Ferrero a 6-7 euro Chi è responsabile di questo sfruttamento?».

Un altro grido che si alza dalla piazza romana e che svela i fili che permettono ad Ankara di agire indisturbata.

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO

«C’è grande ansia sociale di capire che coinvolgimento hanno avuto politici, militari e imprenditori nel finanziare i paramilitari che hanno eliminato sindacalisti e contadini»

BOGOTA’. Julieta Lemaitre Ripoll, avvocatessa, dottorato in Diritto ad Harvard, insegna Sociologia del diritto, Teoria del diritto e Costituzione e democrazia all’Universidad Los Andes di Bogotá. Autrice de «El derecho como conjuro. Fetichismo legal, violencia y movimientos sociales» (Bogotá, 2009), ha militato nei movimenti delle donne, occupandosi delle vittime della violenza e di quelle costrette ad abbandonare le proprie zone di residenza a causa del conflitto armato.

Lemaitre è stata selezionata tra 2.328 candidati da una commissione, composta da cinque membri in rappresentanza di organismi internazionali e colombiani, come una dei 51 magistrati (dei quali tredici supplenti) che dovranno dare attuazione alla Jurisdición Especial por la Paz (Jep).

Di questi venti sono assegnati al Tribunale per la pace e altri diciotto, tra i quali Lemaitre, alle tre Salas in cui si articola la Jep: Accertamento della verità, delle responsabilità e determinazione dei fatti e delle condotte; Definizione delle situazioni giuridiche; Amnistia e indulto.

«Per il mio profilo – ci spiega – dovrei essere assegnata alla prima delle tre Salas, incaricata di valutare le relazioni e redigere le istruttorie. La norma stabilisce che le relazioni devono essere presentate dalla Procura generale della Repubblica e dagli organismi della società civile (ong, Asociación colombiana de juristas católicos, ecc.) e avranno per oggetto le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra compiuti dai guerriglieri delle Farc, dai terceros (compresi gli agenti civili dello Stato, cioè funzionari, dirigenti e membri eletti delle istituzioni politiche e amministrative a livello centrale o periferico) e dai militari, compresi quelli già condannati dalla giustizia ordinaria che vorranno contribuire al chiarimento della verità».

«Si tratta in totale di circa 27mila persone – aggiunge Lemaitre –, ma essendo molte di esse coinvolte in più situazioni delittuose, calcolo che i casi che dovremo esaminare si aggirino sui 100mila circa. Tenete conto che i paramilitari delle formazioni di autodifesa in quanto tali non ricadono sotto la nostra giurisdizione, avendo goduto delle condizioni previste dalla legge “Justicia y Paz” del 2005».

Si tratta di un numero impressionante. Come organizzerete il vostro lavoro?

Intanto avremo bisogno di un supporto informatico. In una prima fase la Jep dovrà stabilire le priorità e i criteri in base ai quali graduare la gravità dei delitti, per esempio tra crimini di guerra e crimini contro l’umanità, oppure tra esecutori e mandanti. Dovrà procedere, poi, a una sistematizzazione della grande quantità di documenti relativi alle vittime e, infine, individuare i responsabili che saranno chiamati a concordare la soluzione del caso che li ha visti coinvolti. A questo punto i presunti responsabili saranno davanti a un bivio. Potranno accettare di presentarsi davanti al Tribunale per la pace che stabilirà la pena, che non potrà essere detentiva, ma di restrizione della libertà individuale e che consisterà in un’attività di riparazione dei danni inferti alle vittime. È previsto che una commissione verifichi il rispetto delle sanzioni. Oppure non accetteranno e allora il loro caso passerà alla Procura della Jep che aprirà una nuova fase istruttoria al termine della quale ci sarà un processo e una sentenza.

A che punto è l’organizzazione della Jep? Quando prenderà avvio l’intero processo e che tempi avrete per portarlo a termine?

Il Congresso ha dibattuto la Ley Estatutaria (approvata da Camera e Senato rispettivamente il 28 e 30 novembre, ndr), che tra le altre cose dovrà finanziare il sistema. Prevedo quindi che al massimo entro febbraio saremo in condizione di operare. Per ricevere le relazioni la Sala incaricata di accertare la verità avrà due anni di tempo, che potranno diventare tre e ai quali potrà aggiungersi una breve proroga per casi eccezionali debitamente motivati. Nel suo complesso la Jep avrà dieci anni di tempo per completare la fase istruttoria, ai quali se ne aggiungono cinque per concludere la fase giurisdizionale, questi ultimi prorogabili per legge su richiesta dei magistrati della Jep.

Che impatto avrà tutto questo sulla società colombiana?

C’è grande aspettativa, un’ansia sociale di capire soprattutto che coinvolgimento hanno avuto alcuni politici, alti gradi dell’esercito e i vertici di imprese, nazionali e internazionali, per esempio nel finanziare i paramilitari che hanno eliminato sindacalisti o contadini proprietari delle terre di cui volevano impossessarsi. Ansia sociale di capire dov’è finito il denaro e i passaggi di proprietà avvenuti durante il conflitto. Ansia, infine, sul piano locale, perché dalle relazioni emergeranno i nomi dei delatori. Un problema tipico di tutte le guerre civili.

FONTE: Alfonso Botti, IL MANIFESTO

Quando viene convocata una marcia Perugia-Assisi raramente resisto al richiamo della foresta. Quest’anno, con la guerra dappertutto, più che mai. E perciò, nonostante la stampella, ci sono andata: per il convegno promosso dai sindacati, dall’Arci e qualche altra associazione il sabato, e, almeno per la partenza, al solito magnifico Frontone, del corteo coordinato da Flavio Lotti, la domenica mattina.

Io credo che le scadenze in qualche modo rituali non siano superflue, aiutano la memoria e questa serve. (Le donne, per esempio, hanno imparato a fare buon uso del vecchio 8 marzo).

Ho detto richiamo della foresta perché, come i più vecchiotti fra i lettori de il manifesto si ricorderanno, fummo in passato parte decisiva di quel movimento pacifista.

Un movimento che si sviluppò in Europa negli anni ’80 per protestare contro le nuove installazioni nucleari sui nostri territori e per reclamare «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali».

Fu allora che riscoprimmo questa marcia ideata molto tempo prima da Capitini e la reinverammo assieme ai tantissimi del nord e del sud del nostro continente con i quali avevamo via via stretto legami profondi. E che assunsero le due città umbre come luogo simbolico e unificante di pellegrinaggio. Poi venne l’Iraq, e fummo 250.000.

Cosa è cambiato da allora?

Anche domenica i partecipanti sono stati tanti. A sfilare le scolaresche di più di 100 scuole che hanno risposto all’appello della Tavola della pace, molti gli immigrati recenti che hanno voluto unirsi al corteo. Numerosi anche i gonfaloni dei comuni. Presenti le associazioni promotrici, ovviamente.

Ma è un fatto, evidente nella marcia e ormai chiaro da anni nella dimensione quotidiana: il corpo militante delle organizzazioni sociali, dei partiti e dei movimenti che pure esistono sembrano non mobilitarsi più di tanto per la pace. È da tempo, oramai, che la lotta per la pace non morde come dovrebbe. La debolezza non è solo organizzativa, ma anche politica.

Anche qui a Perugia nelle parole d’ordine, negli striscioni, nei discorsi importanti che sono stati tenuti alla partenza, soprattutto dai prelati (per la prima volta ha preso la parola anche un cardinale), è prevalso, mi pare, soprattutto un discorso morale. Necessario e anzi prezioso. E però è risultata incerta l’indicazione di una proposta politica, del come rimuovere le cause delle emergenze con cui ci dobbiamo confrontare, così come una denuncia precisa delle responsabilità, antiche e recenti, di quello che accade.

Sottolineo questa debolezza non per sminuire il significato di questa Marcia, ma solo per ricordare che il nuovo pacifismo nato negli anni ’80 aveva invocato anch’esso il ripudio della guerra, ma aveva anche avuto l’ambizione di suggerire un’altra idea dell’Europa (fuori dai blocchi, dicevamo), un’altra politica estera, un modo diverso di affrontare i problemi internazionali, non più ricorrendo al medioevale metodo delle armi, ma alla comprensione delle ragioni dell’altro. I patti – dicevamo – si debbono fare con il nemico, non con l’amico. Per questo non possono essere patti militari. Purtroppo in questi anni è accaduto il contrario: la Nato si è ingigantita e ha preteso di rappresentare l’Europa.
A Perugia è stato detto forte l’essenziale: la condanna della tuttora massiccia esportazione da parte dell’Italia e dell’Europa di armi verso i paesi dove si aprono conflitti che grazie ad esse crescono paurosamente di livello; il No all’invio di eserciti e di bombardieri, ancorché chiamati «umanitari». Se l’Isis si è scatenato è dovuto anche a questo massiccio invio.

So bene che oggi è sempre più difficile individuare amici e nemici nel groviglio che si è determinato – basti pensare alla Siria (paese che non a caso non è stato mai evocato se non per parlare dei migranti che da lì provengono).

E però proprio in questo momento, in cui si riaffaccia il rischio di una spedizione militare in Libia, è urgente ripetere a voce alta che sebbene Gheddafi fosse un dittatore l’intervento militare occidentale in quel paese ha prodotto il peggio e guai a ripeterlo, quale che sia la scusa. E che sarebbe doverosa da parte di chi ha portato ai disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq una autocritica pubblica, anche in parlamento.

La debolezza del nostro discorso (e dunque la scarsa mobilitazione che ne consegue) sta comunque nel fatto che è difficile oggi una risposta politica all’interrogativo: come aiutare i popoli vittime di guerre, di dittature, di fame?

È proprio questa che è emersa sopratutto nell’assai interessante convegno del sabato, durante il quale – oltreché per descrivere la loro condizione – hanno preso la parola anche per chiederci di aiutarli i rappresentanti dei sindacati indipendenti dell’Algeria, della Tunisia (il premio Nobel per la pace del 2015, Hassine Abassi), dell’Egitto e della Libia (quella di Bengasi), prima donna capo di un sindacato, una bella grinta e si capisce, visto il pezzo di paese da cui proviene e le condizioni incredibili in cui lì deve operare un/a sindacalista.

Chiara la risposta di quanto occorre fare sul piano economico: cambiare drasticamente le politiche economiche del nord che hanno distrutto le economie del sud.

E allora occorre però contestare il liberismo stesso, che ha ispirato tutti i Trattati Mediterranei (dall’Accordo di Barcellona in poi), fondati sulla liberalizzazione degli scambi che, quando i partner sono enormemente disuguali, accresce la disuguaglianza anziché ridurla.

L’Europa avrebbe dovuto invece avere il coraggio, e la lungimiranza, di proporre un compromesso fra nord e sud, analogo a quello che nel dopoguerra si stabilì fra movimento operaio e capitalismo e che, pur con tante ombre, ha però garantito diritti per gli uni e stabilità per l’altro. Fu, questa, la proposta avanzata almeno trent’anni fa da Samir Amin e da Giorgio Ruffolo; e cadde nel vuoto.

Meno evidente è cosa si possa fare su altri piani : aiuto alla società civile, per contribuire alla crescita di partecipazione politica, anche per rendere chiaro che un parlamento di per sé non garantisce democrazia? Sì, certo. Ma proprio per questo non bastano assistenza e carità, serve politica. Proprio quella che oggi sembra latitante.

Cosicché le generose iniziative che, a partire dai Forum sociali del Maghreb, si sono continuate ad assumere non sono riuscite a suscitare la collaborazione che avrebbero dovuto ottenere. Insomma: la pace è un bene primario, ma se oggi l’indifferenza cresce, è perché, anche su questo, c’è un vuoto di iniziativa politica. E perciò di impegno.

È, anche questo, un aspetto della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Anche a casa nostra.

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Il «cantiere per la pace » che è nato in una saletta affollatissima e piena di giovani del centro congressi di via Frentani a Roma coinvolgerà in ogni sua iniziativa locale o nazionale anche rappresentanti delle comunità musulmane in Italia, i cosiddetti musulmani moderati, ovvero un milione e mezzo di persone che vivono e lavorano nel Belpaese. Per vincere oltre i guerrafondai e le politiche securitarie contro i migranti, l’islamofobia e en passant le sirene dei media che tornano ad evocare lo scontro di civiltà.

«Questo terrorismo sta colpendo soprattutto noi musulmani, anche a Parigi 30 dei 129 morti lo erano. Siamo in prima linea», ricorda, raccogliendo l’invito dell’assemblea, Izzedin Elzir, palestinese nato a Hebron ora imam di Firenze e presidente dell’Ucoii, l’Unione comunità islamiche d’Italia. «Colpire noi vale di più che colpire un miscredente– continua a spiegare — in quanto considerati traditori perché abbiamo il vostro stesso sistema di vita e condividiamo gli stessi valori, quelli democratici della bellissima Costituzione della Repubblica, laica e rispettosa delle diversità».

Ora che il terrorismo jihadista è qui, dietro casa, anche le comunità islamiche hanno scoperto una paura più diretta, tangibile. Questa paura è una novità rispetto alle altre crisi, sottolinea Luciana Castellina nel suo intervento. È con questa paura che ora il mondo del pacifismo e dell’antirazzismo è chiamato a misurarsi, oltre che con un possibile restringimento dell’agibilità democratica, dato da un diffondersi di stati d’eccezione e censure.

Castellina propone al cantiere delle associazioni, Ucoii compresa, presidi mobili ovunque — «si possono chiamare gazebo, visto che la parola è di moda» — per avvicinare le persone, informare e proporre soluzioni diverse dalla guerra.

Anche Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, e deputato di Sinistra italiana, arrivato in una pausa del dibattito parlamentare sul rifinanziamento delle missioni all’estero, invita a considerare la variabile dell’empatia nell’approccio da usare. «Non si può perdere il contatto con il sentire comune e serve un approfondimento culturale anche tra di noi — avverte — perché il reclutamento dei terroristi non può più essere spiegato solo con il disagio delle periferie, c’è anche, nella fascinazione per Daesh, l’idea di uno stato-guida da contrapporre alla secolarizzazione monetaria delle nostre società senza un livello di trascendenza laico che serva da antidoto».

Il dibattito nell’assemblea romana tocca temi complessi, dalla analisi del colonialismo con la creazione di stati con il compasso sulla linea immaginata da François Picot e Mark Sykes ai tempi della prima guerra mondiale — «è quella che stiamo ancora vivendo e non la terza come dicono», sostiene Castellina — alla critica del modello di sviluppo. Tutte le associazioni e le ong mettono a disposizione le loro elaborazioni: i papers di Archivio Disarmo sull’export italiano di armi, il rapporto sui Diritti globali messo in rete da Legambiente, le elaborazioni di Sbilanciamoci e Lunaria.

Obiettivo: organizzare a tamburo battente momenti di confronto sui temi delle migrazioni, delle guerre e dei disastri ambientali, nelle città e soprattutto nelle scuole e nelle università. «Bisogna costruire anticorpi, monitorare gli stati di eccezione e le violazioni dei diritti civili, disvelare le verità nascoste», dice Francesco Martone di Un Ponte Per.

Nel frattempo il cantiere per la pace — nato ieri su impulso dell’Arci con l’adesione di un lungo cartello di sigle, tra cui anche Libera, Uds e Rete G2 — chiede che le manifestazioni già in programma ospitino uno spazio di rilievo per le tematiche pacifiste e antirazziste. Gli organizzatori della marcia italiana per il summit mondiale sul clima, il Cop21 di Parigi, in programma sabato 29 novembre a Roma, hanno già accettato. «Un ambientalismo che non tenga conto delle questioni sociali, incluso quella dei migranti economici, non avrebbe senso», sintetizza Maurizio Gubbiotti di Legambiente.

Francesca Redavid della Fiom romana si farà portavoce verso la Fiom nazionale per una decisione analoga relativa alla marcia Unions di sabato prossimo a Roma.

Se la Coalizione sociale di Landini deve battere un colpo, è il momento per farlo.

«Una linea non ce l’ho», ammette Rossana Rossanda quando, dopo aver risposto con numerose domande alle domande dell’intervista, le si chiede se questa volta dalla sua analisi delle circostanze non deriva un’indicazione, una proposta di strada da seguire. Dalla Parigi nella quale abita da tempo, parla avendo alle spalle una notte trascorsa fino alle due del mattino ad ascoltare notizie sugli assalti di venerdì. A 91 anni, la comunista eretica alla quale i capelli bianchi vennero a 32 nei giorni dell’invasione sovietica di Budapest, anche se la radiazione dal Pci con il gruppo del Manifesto risale a più tardi, resta critica verso i governi occidentali eppure non offre proposte di strategie. «Capisco che non è semplice per la polizia prevenire o bloccare offensive così», riconosce. E teme che, nel complesso, possa andare peggio di adesso.
Stava dicendo che vede un rischio di cortocircuito tra integralismo islamico e razzismo? Di fronte a questa domanda nel corso della conversazione, Rossana Rossanda osserva: «Sì, di un cortocircuito tra fondamentalismo, razzismo e disagio sociale. Non abbiamo ancora capito bene e del tutto da dove vengano quelli che hanno sparato. Esiste comunque a Parigi e altrove un disagio sociale forte. E per ragazzi scombussolati, avviliti, forse è più facile sentire le predicazioni di un imam, elementari, ma chiare, piuttosto che quelle della destra atea».
Lei ha vissuto passaggi anche brutali della storia. Da «ragazza del secolo scorso», per usare la definizione data di sé nella sua autobiografia, quali le evocano le stragi di venerdì?
«Non i tedeschi o la guerra. Con lo Stato Islamico siamo davanti a un fenomeno del tutto nuovo. Non era il modo di operare dei tedeschi in guerra. Qui c’è un gruppo, non si sa quanto consistente, di persone decise a morire. Non le spaventi. Hanno messo la morte nel conto. Quelli che fanno esplodere le cinture sono tagliati in due».
Uno dei suoi articoli più celebri per il Manifesto fu un commento nel quale, pur condannandoli, definì i terroristi rossi degli anni 70 parti dell’«album di famiglia» del comunismo italiano. I terroristi che hanno agito a Parigi non appartengono ad alcuna famiglia culturale europea: come influisce sui modi di contrastarli?
«È una domanda. Vorrei capire: chi sono? Vengono dalla Siria o sono francesi?».
Se si capirà che venivano principalmente dalla Siria sarebbe stata un’operazione più marcatamente militare?
«Sì. Una risposta ai bombardamenti voluti da François Hollande in Siria».
Se i terroristi erano in prevalenza francesi?
«Problema ancora più grosso: allora venivano dalle periferie, si confondono con il disagio sociale».
Neppure per lei sarà però una disperazione assecondabile: le sembrano «i dannati della terra», oppressi in cerca di giusto riscatto?
«No, non sono i dannati della terra. A giudicare dai casi passati non sono neppure i più poveri. Ci sono tracce di disperazione vendicativa: perché un ragazzo si faccia ammazzare serve una decisione. Non posso pensare che siano tutti musulmani integralisti che si fanno uccidere perché sarebbero accolti da bellissime vergini. È un fenomeno che nel ‘900 non c’era, e c’è la necessità di capire come e perché avviene».
Rossanda, dunque non ha una linea? Al di là della condanna, naturalmente.
«Una linea non ce l’ho. Se non osservare che l’Occidente finora non ha fatto altro che alimentare questo furore, questa disperazione. La Libia oggi è incontrollabile e per una scelta di Nicolas Sarkozy. Abitanti di alcuni Paesi sono stati profondamente offesi, non si poteva fare operazione più cretina di quella fatta da Bush in Iraq» .
Lo pensa da anni. Ma adesso?
«Come Etienne Balibar (filosofo francese, ndr ) credo che quanti varcano le frontiere non sono decapitatori, li si appoggi per dare una scossa a un’Europa basata sull’austerità».

NEGLI ULTIMI ANNI Roger Waters ha dedicato molto del suo tempo al movimento chiamato “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” (Bds). Ogni artista che intende esibirsi in Israele riceve da lui una lettera di rimprovero. Durante la guerra di Gaza, l’anno scorso, Neil Young ha finito per annullare i suoi concerti – secondo Waters, però, nessun artista ammette di aver cambiato i propri programmi grazie a lui. Cyndi Lauper, Robbie Williams e persino Alan Parsons, per citarne solo alcuni, hanno invece ignorato le sue suppliche, tenendo concerti in Israele. Non vi è dubbio però che Waters sia riuscito ad instaurare un certo clima a livello internazionale. Il suo coinvolgimento contro Israele è nato sula scia di una sua esibizione avvenuta qui nove anni fa.
Quando e in che modo è iniziato il suo coinvolgimento politico in Medio Oriente?
«Mi era stato chiesto di suonare in Israele, ed è proprio qui che è iniziato tutto. In realtà il mio coinvolgimento nacque senza che me ne rendessi conto, perché nel 2006 ero molto ingenuo. Non pensavo. Quando il mio agente firmò il contratto per il mio concerto a Tel Aviv io, con mia imperitura vergogna, mi occupavo di tutt’altro. Poi però iniziai a ricevere delle mail».
Da parte di chi?
«Centinaia di organizzazioni diverse. Erano soprattutto mediorientali, ma vi erano anche degli europei che dicevano: “Hai sentito parlare di questa nuova organizzazione?”. La Bds aveva un tono era misurato e convincente, quindi iniziai a dialogare con loro».
Le dicevano di non andare?
«Sì. Dicevano che andando avrei favorito l’occupazione. Quanto ero ingenuo! Certo, negli Stati Uniti la hasbara , ossia quella che chiamano la diplomazia pubblica israeliana, è estremamente potente. Alla fine annullai il concerto e mi recai invece a Neve Shalom».
Chi le suggerì Neve Shalom?
«Non mi ricordo. È una comunità agricola nella quale ebrei, cristiani e musulmani tentano di vivere insieme. Era e continua ad essere un esperimento fantastico, che andrebbe incoraggiato in ogni modo possibile. Alla fine pronunciai un breve discorso, nel quale suggerii che quello era il modo in cui i giovani israeliani avrebbero dovuto far pace con i propri vicini. Il pubblico si zittì completamente. In seguito, riflettendo sulle implicazioni delle restrizioni sugli spostamenti, mi resi conto che era piuttosto improbabile che tra i presenti vi fossero dei palestinesi o degli arabi, e mi dispiacque moltissimo».
Ritiene di aver scoperto la verità sul Medio Oriente?
«Non sono un profeta, ma parteggio per il fronte opposto a quello di chi – a prescindere dall’appartenenza — sgancia bombe e uccide bambini».
E qui arriviamo al nocciolo del discorso. Molti si domandano: perché Israele, quando tanti altri Paesi fanno lo stesso?
«Be’, se sei determinato a stare dalla parte della giustizia, dei diritti umani, delle libertà individuali, dell’eguaglianza politica e della libertà direligione, di tanto in tanto ti si presentano delle situazioni che richiedono più di altre la tua attenzione. C’è anche chi si lamenta per il paragone con il Sudafrica dell’apartheid. Nel caso dei territori occupati, il paragone è legittimo. Negli anni ‘70 e ‘80 ci concentrammo tutti sul Sudafrica perché pensavamo che saremmo riusciti a determinare un cambiamento in quella piccola parte di mondo. Oggi quella piccola parte di mondo è Israele».
Non c’è il rischio che Bds unisca gli israeliani rendendoli ancora più nazionalistici?
«Non credo. Penso che la consapevolezza di poter contare fuori dal loro Paese su amici e sostenitori che li appoggiano e ammirano il coraggio di israeliani che si battono per ciò che è giusto darà maggiore forza a quegli israeliani che non sono soddisfatti della politica interna ed estera del loro governo. Che alternativa abbiamo? Qualcuno mi mostri un’alternativa alle proteste nonviolente di chi crede che l’occupazione sia sbagliata e che i cittadini palestinesi di Israele debbano sottostare alle stesse leggi dei cittadini ebrei di Israele».
Lei è per la soluzione che prevede uno o due Stati?
«Preferirei un unico Stato democratico, laico, con pari diritti per tutti, suffragio universale, parità di diritti sulla proprietà, libertà assoluta di religione. Sono molto contrario alle teocrazie».
Cosa risponde a chi ritiene che sia sufficiente boicottare il progetto delle colonie?
«Le colonie rappresentano un problema enorme perché annettono i territori occupati. Tuttavia è sul governo di Israele che occorre esercitare delle pressioni».
Riesce ad ipotizzare una situazione nella quale lei tornerebbe ad esibirsi in Israele?
«Quando vedremo che ce l’abbiamo fatta, che tutti godono di eguali diritti e nessuno uccide nessuno. Allora verrò e suonerò tutto The Wall».
Cosa vorrebbe dire agli israeliani?
«Che nel 1945, o nel ‘47-‘48, avete avuto la solidarietà del resto del mondo, e che purtroppo avete dilapidato quel sentimento di benevolenza. Dovete trovare il coraggio di vivere insieme ai vostri vicini. Guardare alla realtà, anziché restare attaccati all’immagine di una falsa realtà, richiede coraggio».
© Haaretz (Traduzione di Marzia Porta)

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