Fascismo-Antifascismo

Corrado, Milton e Ulisse: due grandi romanzi e un memoir di alto valore letterario a firma rispettivamente di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Davide Lajolo, caratterizzati da un’evidente impronta autobiografica

 

L’8 settembre è la svolta che muta il destino di una generazione allevata dal fascismo nell’illusione di una italianità rediviva e, anzi, rivoluzionaria. Che lo stesso regime fosse viceversa una forza reazionaria, organica al grande capitale e alle istituzioni più retrive (a cominciare dalla Chiesa di Pio XI e, maxime, di Pio XII), quei giovani nati o maturati nel primo dopoguerra lo appresero tra la guerra civile spagnola e l’esito, presto rovinoso, della seconda guerra mondiale.

La caduta del regime, l’uscita degli antifascisti dalla condizione di clandestinità o di esilio, il progressivo organizzarsi della Resistenza segnarono dunque l’apice della Bildung generazionale.

NE SONO ESEMPIO (e tutti afferenti all’alveo da cui la Resistenza scaturì, il Piemonte orientale) due grandi romanzi e un memoir di alto valore letterario a firma rispettivamente di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Davide Lajolo, caratterizzati da un’evidente impronta autobiografica che ne declina in maniera ogni volta differente il decorso. Al centro del romanzo pavesiano, La casa in collina (1948), c’è il personaggio di Corrado, un intellettuale che pur detestando i miti belluini della propaganda fascista e appoggiando moralmente la Resistenza se ne astrae, si rinchiude in un suo altrove («Da tempo ero avvezzo a non muovermi», confessa a un certo punto) e rimane un desistente.

Corrado è non tanto il portavoce quanto lo specchio ustorio di Pavese in persona che porrà ad insegna del proprio percorso il motto shakespeariano Ripeness is all («maturare è tutto»). Perciò l’inerzia di Corrado blocca la dialettica di reale e ideale, di vita e utopia, che ordisce qualunque Bildungsroman: egli rimane al di qua della linea d’ombra, assiste a una maturazione generazionale cui non può o non riesce ad aderire. (Quando uno studioso benemerito, Lorenzo Mondo, al principio degli anni ’90 editò un taccuino pavesiano degli anni di guerra, gonfio di risentimento e disprezzo verso gli amici antifascisti, Carlo Dionisotti – poi in Ricordi della scuola italiana, Edizioni di Storia e letteratura 1998 – ne concluse saggiamente che non era giusto chiedergli in retrospettiva ciò che Pavese non avrebbe mai potuto essere: «Il suo coinvolgimento nella cospirazione antifascista era stato accidentale. Dal confino, era tornato più solo e diverso di quanto fosse prima, più vulnerabile e però con una maggiore urgenza di scrivere, di assolvere il suo proprio compito»).

NON POTREBBE ESSERE più antipode l’orizzonte di Beppe Fenoglio e del suo romanzo terminale, Una questione privata (1963), che nella forma linguistica e stilistica di rastremata esattezza nonché nella sua precisa obiettivazione, scampa al ciclo memoriale e inconcluso di Johnny. Qui la pulsione del protagonista Milton, un partigiano dall’indole aspra e introversa, ha un obiettivo che diviene via via una caccia al santo Graal: il quale è per lui certamente lo sterminio dei nazifascisti (il monarchico e badogliano Fenoglio non ebbe mai un tentennamento, in proposito) ma nello stesso tempo è la conquista di Fulvia, la ragazza che, fra le note di Over the rainbow, abita in modo ossessivo il suo ricordo.

MA PROPRIO PERCHÉ così intimo, così «privato», il pensiero ossessivo di Fulvia si carica per paradosso di un senso universale, come se, in altri termini, Fenoglio suggerisse che non è lecito distinguere fra pubblico e privato quando sono in gioco e in grave pericolo la dignità e il senso stesso dell’essere al mondo. Nitidamente lo comprese Claudio Pavone nel suo fondamentale studio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991) che tante pagine dedica a Fenoglio: «(Nella sua opera) era difficile distinguere il privato da una normalità che la situazione di emergenza, pienamente accettata, faceva sentire lontana, estranea e persino nemica».

INSOMMA FENOGLIO delega a Milton la sua mutria medesima, un sentimento di radicale e selvaggia serietà di fronte alla vita e alle scelte che essa comporta: perciò Una questione privata è un romanzo di formazione esistenzialista dove Fulvia corrisponde, reversibilmente, al nome dell’amore e della libertà dall’oppressione. È la morte del protagonista, dallo scrittore allusa in clausola un attimo prima che Milton cada falciato da una raffica, a dare compimento al romanzo e pertanto a suggellare nella maniera più drammatica la dialettica di realtà e utopia.

L’uscita degli antifascisti dalla condizione di clandestinità o di esilio, il progressivo organizzarsi della lotta di liberazione segnarono l’apice della Bildung generazionale. Non per caso chi era stato maestro di Fenoglio al liceo di Alba, il filosofo Pietro Chiodi (partigiano anche lui e firmatario di un bellissimo libro di ricordi partigiani – Banditi, Einaudi 1975), un giorno avrebbe detto che il suo ex allievo scriveva non per banale necessitas ma per necessitudo, non per costrizione esterna ma per assillo interiore.

Infine, A conquistare la rossa primavera (1975) è la memoria che Davide Lajolo, il comandante «Ulisse», scrive di getto appena dopo la Liberazione e fa uscire nell’ottobre del ’45 come Classe 1912, titolo che rimanda alla data di nascita dello scrittore. Lajolo ha origini contadine ed è piemontese di Vinchio (Asti), ha un’ottima educazione letteraria che lega, giovanissimo, ai miti mussoliniani e all’idea che il fascismo sia la conclusione del Risorgimento, poi combatte in camicia nera a Guadalajara, lavora per il Pnf e il 25 luglio lo sorprende nella federazione di Ancona. Lo sbandamento dell’8 settembre lo riporta a Vinchio dove inizia un duro percorso di resipiscenza che lo conduce, all’inizio tra forti diffidenze e ostilità, a entrare nelle Brigate Garibaldi e a guadagnarsi sul campo il nome leggendario di «Ulisse».

LO STILE DI LAJOLO è denso, ellittico, la sua memoria è ascensiva e culmina nell’immagine della liberazione di Torino. (Basterebbe a dare il tono del libro una notazione come questa, ad apertura di pagina: «L’inverno batte ormai alle porte. Un vento freddo porta alla mattina l’annunzio che la vita partigiana diventerà ancora più aspra. Piove. I ragazzi con le scarpe rotte tirano qualche bestemmia. Coi calzoni corti fatti di telo da tenda si batte i denti»). C’è pure una quota di retorica, e qui si aggiunga ovvia e persino necessaria, con l’esaltazione del Pci ed un paio di riferimenti encomiastici a Giuseppe Stalin ma qui va ricordato ciò che oggi volentieri è ignorato o rimosso e cioè che il Pci fu la forza decisiva nella Resistenza italiana e che il nome di Stalin, del despota Stalin, non poteva allora, per il movimento partigiano, che essere sinonimo di lotta senza quartiere al nazifascismo.

Il protagonista del libro «La casa in collina» rimane al di qua della linea d’ombra, assiste a una maturazione collettiva cui non può o non riesce ad aderire Lajolo tornerà al contenzioso autobiografico e alle scelte cruciali della propria giovinezza in un libro fra i suoi più belli, commissionatogli da Giacomo Debenedetti, che di A conquistare la rossa primavera rappresenta un bilancio e nel frattempo una mise en abyme, Il voltagabbana (1963).

A non troppi chilometri dal Piemonte che fu di Pavese, di Fenoglio e Lajolo, nascosto nel villaggio di Céreste, dipartimento delle Basses-Alpes, agiva un comandante partigiano, «capitaine Alexandre», noto per il coraggio e l’etica inflessibile. Si trattava del grande poeta René Char, che un giorno avrebbe scritto lui l’epigrafe per il Bildungsroman generazionale: «Sono nato come la roccia,/ con le mie ferite/. Senza guarire dalla mia giovinezza superstiziosa,/ in fondo a una fermezza limpida,/ entravo nell’età fragile».

 

SCHEDA

Martedì 10 settembre 2024 l’incontro al «Pavese Festival»

«Terra di scrittori: Cesare Pavese, Davide Lajolo e Beppe Fenoglio» si intitola l’incontro di martedì 10 settembre (Chiesa SS. Giacomo e Cristoforo, ore 18) a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nell’ambito del «Pavese Festival» promosso dalla Fondazione Cesare Pavese (info@fondazionecesarepavese.it ).

Coordinato da Alberto Sinigaglia, presidente del Comitato scientifico della Fondazione, l’incontro prevede interventi di Pierluigi Vaccaneo («Middle East Piemonte»), Laurana Lajolo («Le storie biografiche di Pavese e Fenoglio dalla parte delle radici»), Bianca Roagna («Dialogo tra Alba e le Langhe») e Massimo Raffaeli («Corrado, Milton e Ulisse») di cui anticipiamo una sintesi.

* Fonte/autore: Massimo Raffaeli, il manifesto

L’idea della Liberazione piace poco alla destra. Preferisce una generica libertà. Gli italiani sono tutti ugualmente vittime in patria e all’estero

 

«Il 25 aprile ci troveremo con migliaia di giovani» per «parlare di libertà e orgoglio e non contro qualcuno». Salvini l’ha dichiarato soltanto il mese scorso. Lo aveva già detto nove anni fa che non si riconosce nei valori dell’antifascismo. Ma nella «Libertà con la elle maiuscola che non è riconducibile a una sola parte politica». Anche il ministro Lollobrigida dice che il concetto di “anti” «non mi ha mai convinto» e il fascismo ha un valore storico, «quello di aver governato l’Italia per un periodo come altri in epoche diverse».

Tajani da presidente del parlamento europeo ha dichiarato  che fino alla guerra Mussolini «ha fatto delle cose positive». Poi fa la lista: «Strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia…». La Russa che colleziona ciarpame del ventennio e gioca a non dirsi mai antifascista ha dichiarato che Mussolini è stato un grande statista fino al 1938. La marcia su Roma, l’omicidio Matteotti, le leggi razziali fascistissime, i crimini in Spagna e nelle colonie sono ignorati completamente. Ma all’origine dello sdoganamento c’è Berlusconi che nel ’96 lo usa per sminuire Prodi e afferma che «Mussolini è stato un protagonista di vent’anni di storia nel bene e soprattutto nel male». Mentre il suo avversario è una «comparsa». Qualche anno più tardi dichiara che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno» e che «mandava la gente a fare vacanza al confino».

Contestualmente non mancano quelli che vorrebbero ripristinare la celebrazione del 4 novembre “Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate” come festività vera e propria. E declassare 1 maggio, 2 giugno e anche il 25 aprile a celebrazioni minori da ricordare nella domenica più vicina.

Ma su tutte queste esternazioni apparentemente sbrindellate c’è la lettera esemplare di Giorgia Meloni dello scorso 25 aprile. In tre righe sintetizza che rappresenta «la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni», ma immediatamente sostiene che subito dopo continuò una «sanguinosa guerra civile» e che i «nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia» subirono «eccidi e il dramma dell’esodo».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Un 25 aprile per una riforma intellettuale e morale

Nella lettura faziosa della destra l’Italia ha subito una violenza in cui si mischia di tutto. Bombe americane, occupazione tedesca, eccidi dei comunisti jugoslavi e appena un pizzico di fascismo. A quest’ultimo dedica due righe in più. Ma non di condanna. I fascisti sono quelli che hanno «combattuto tra gli sconfitti e quella maggioranza di italiani che aveva avuto verso il fascismo un atteggiamento “passivo”». E proprio i “passivi” e i “fascisti” hanno il merito di «traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica».

Riassumo: l’idea della Liberazione piace poco alla destra. Preferisce una generica libertà. Gli italiani sono tutti ugualmente vittime in patria e all’estero. Vittime delle bombe americane, dell’occupazione tedesca e dei comunisti jugoslavi. Nemmeno i fascisti sono criminali. No. Sono semplicemente “sconfitti”. E con quale conseguenza? Nessuna.

È significativo che in tutta la lettera di Meloni non si usi mai la parola verità e una sola volta la parola giustizia (per indicare il ministero). Perché alla vicenda della Liberazione quel che manca è proprio la verità e la giustizia. Molti di quegli «sconfitti» sono criminali. Oltre mille hanno commesso reati raccapriccianti fuori dai confini nazionali per i quali non furono nemmeno processati. Hanno bombardato civili in Spagna, incendiato villaggi in Jugoslavia, affamato i greci, bruciato la popolazione con le armi chimiche in Etiopia, comandato stragi e deportazioni ovunque. Qualche criminale fascista più anziano è andato a annaffiare le rose in giardino e altri hanno fatto carriera. Dopo il ’45 da questa parte della cortina di ferro contava più essere anticomunisti che antifascisti. E i fascisti erano certamente anticomunisti fidati.

«La Costituzione è un pezzo di carta», ma è anche «il testamento di centomila morti» diceva Calamandrei. Perché è nata «nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati».

Per vivere fino in fondo il significato della Liberazione dobbiamo tornare alle battaglie combattute dagli antifascisti. Dire chiaramente che i fascisti furono criminali e aggiungere che la «sanguinosa guerra» che «si protrasse» come scrive la Meloni fu quella dei neofascisti che prepararono i colpi di Stato nel ’64 e nel ’70, che aderirono alla P2, che fecero le stragi dal 12 dicembre del ’69 al 2 agosto del 1980.

Invece di togliere la celebrazione del 25 aprile, sarebbe il caso che tra tante giornate dedicate alle varie memorie ce ne fosse almeno una che ricordi i crimini fascisti. Prima e dopo il 25 aprile 1945. E allora meno male che c’è l’iniziativa de il manifesto a Milano, alla quale aderisco con passione.

* Fonte/autore: Ascanio Celestini, il manifesto

L’Europol ridimensiona il fenomeno, ma le destre vogliono più repressione. Condanne in Germania, polemiche in Francia. Al parlamento Ue tante proposte contro i movimenti

 

Il primo a dirlo fu Donald Trump: «Antifa è un movimento terrorista». Era il giugno del 2020 e negli Stati Uniti la tensione era alle stelle per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia, a Minneapolis. Ma chi erano questi Antifa? I collettivi antifascisti, per farla breve, i singoli e i gruppi, spesso destrutturati ai limiti della disorganizzazione, che partecipavano alle manifestazioni di Black Lives Matter.

In Europa i collettivi cosiddetti Antifa esistono da oltre un secolo, ma solo negli ultimi anni hanno cominciato a guadagnare considerazione nel dibattito pubblico, soprattutto in virtù della campagna portata avanti da tanti partiti di destra del continente, pronti a recepire e rilanciare l’idea che Trump aveva lanciato su Twitter: inserire i movimenti antifascisti nell’elenco delle organizzazioni terroriste al pari dell’Ira, dell’Eta, delle Nuove Br e di decine di altre sigle. Ci sono varie proposte di questo tipo che giacciono al parlamento europeo. L’ultima è del marzo 2023 e ha come primo firmatario Bernhard Zimniok di Alternative für Deutschland. «Antifa continua a commettere violenze in Europa e negli Stati Uniti – si legge nella proposta di risoluzione -, sopprimendo la libertà di pensiero e di espressione in Europa». Poi un’accusa: «Alcuni Antifa sarebbero stati addestrati da altri gruppi terroristici in Siria». E infine un passaggio sulle «ultime aggressioni con intenti omicidi» avvenute a Budapest nel febbraio precedente. Si tratta delle azioni per cui Ilaria Salis è ancora adesso sotto processo in Ungheria.

A scorrere l’ultimo rapporto dell’Europol sul terrorismo nell’Unione Europea, però, al capitolo dedicato alle formazioni più o meno a torto definite «di sinistra», la parola «Antifa» compare una volta sola e si segnala un «campo di addestramento» fatto in Austria (non in Siria) nel 2022. Gli investigatori europei, inoltre, non arrivano mai a parlare di terrorismo, ma al massimo di «movimenti estremisti».

IN GERMANIA, però, negli ultimi anni la lotta contro i movimenti di sinistra si è fatta dura. Non sono pochi i procuratori che proclamano la «tolleranza zero» per l’antifascismo militante, definito come un «attacco al sistema democratico». Un vero e proprio teorema: gli investigatori sono convinti dell’esistenza di autentiche «organizzazioni criminali» che attaccano gli oppositori politici di estrema destra. Questo nonostante i dati del ministero dell’Interno di Berlino: i reati attribuiti agli attivisti di sinistra sono calati del 31% tra il 2022 e il 2023, mentre, al contrario, quelli dei neonazisti sono cresciuti del 16%.

Lo scorso giugno, a Dresda, è finito il processo contro Lina Engel, ritenuta capa degli Antifa tedeschi responsabili di almeno cinque attacchi contro estremisti di destra avvenuti tra il 2018 e il 2020 in Sassonia e Turingia. È qui che i giornali hanno coniato il nome con cui adesso l’organizzazione viene identificata: Hammerbande, banda del martello. Arrestata il 5 novembre del 2020, alla fine Engel è stata condannata a 5 anni e 3 mesi, ed è uscita subito dal carcere in attesa del giudizio d’appello. Il giudice Hans Schlüter-Staats, nel leggere la sentenza, ha tra le altre cose sottolineato che le indagini contro i neonazisti sono troppo spesso segnate da «deplorevoli carenze». Altri Antifa, attualmente, sono ricercati dalla polizia tedesca. E non solo: sulle loro tracce ci sono anche gli estremisti di destra di tutta l’Europa, che nelle chat si scambiano foto segnaletiche, indirizzi e numeri di telefono dei loro nemici.

IN FRANCIA, nell’ultimo anno, si è spesso discusso (sempre su proposta delle destre) di sciogliere Jeune Garde, collettivo nato a Lione nel 2018 e fino a qualche tempo fa guidato da Raphaël Arnault, peraltro candidato con la Nupes di Jean-Luc Mélenchon alle legislative del 2022 (senza essere eletto). L’accusa, per quelli di Jeune Garde è di non limitarsi a organizzare conferenze e tavole rotonde sull’estrema destra francese, ma anche di schedarne i militanti, inseguirli per le strade, aggredirli e creare in questo modo «un clima di paura» (parole di Eric Ciotti, presidente dei Repubblicani). Per ora, ad ogni modo, la giustizia francese non ha mai preso iniziative contro il movimento, limitandosi a perseguire i singoli militanti.

Proposte di inserire gli Antifa negli elenchi delle organizzazioni terroristiche sono anche in discussione al parlamento austriaco e al consiglio federale svizzero, sempre ad opera dei partiti di estrema destra, talvolta anche con l’appoggio delle formazioni più moderate.

IN ITALIA si segnala un processo ai limiti del paradossale subito da alcuni militanti antifascisti di Pavia per una manifestazione non autorizzata del 2016, quando l’estrema destra sfilò per le strade nell’anniversario del missino Emanuele Zilli morto negli Anni 70 e decine di persone scesero in strada per impedire che il corteo arrivasse in centro. Caricati dalla polizia, manganellati e infine denunciati, in 23 hanno affrontato un processo durato 7 anni e finito soltanto nel dicembre del 2023 con tutte assoluzioni, alcune nel merito e altre per avvenuta prescrizione

* Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto

ph by Albertomos, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Oggi, 12 maggio 2023, sono stato chiamato dal quotidiano “La Provincia”, che mi ha chiesto conferma della perquisizione che ho subito ieri mattina, in quanto indagato dalla procura di Como per aver danneggiato la lapide del dittatore fascista Benito Mussolini la notte del 28 aprile 2023.

Nego nella maniera più assoluta di aver danneggiato la lapide. Rivendico invece di avere tolto i fiori che erano stati posti da una squadra di fascisti quella notte.

Chi mi conosce, sa che sono abituato ad assumermi le responsabilità di quello che faccio. Senza problemi, e a viso aperto.

Il 28 aprile è una data simbolo e Giulino di Mezzegra è un luogo simbolo: lì è finito il regime fascista dell’epoca (altro è il discorso sul fascismo eterno descritto da Umberto Eco e che si ripropone oggi), con il dittatore travestito da tedesco e i gerarchi in fuga da loro stessi e dalle loro nefandezze. Fermati da 27, ripeto 27, eroici partigiani della Cinquantaduesima Brigata Garibaldi.

In quel luogo ci dovrebbero essere le loro fotografie, non quelle di un dittatore giudicato dagli Alleati come il criminale di guerra numero due. Il primo era Adolf Hitler.

Quella lapide lì, a Giulino di Mezzegra, è, in sé, apologia di fascismo. Come se a Berlino ci fosse una lapide sul bunker di Hitler. Cosa che i tedeschi si sono ben guardati dal fare o dal lasciar fare. Cosa che invece le istituzioni in Italia hanno sempre concesso, permettendo allo stesso tempo la reiterazione del fascismo eterno.

Con i fascisti che ogni anno intervengono con tutti i segni e i gesti dell’apologia del regime, nel silenzio e nell’ignavia della magistratura di Como.

Invece di perseguire i fascisti, si mettono alla caccia degli antifascisti. Sono antifascista e comunista dall’età di 15 anni. E ne ho settantacinque.

Bene, prendo atto che esiste un nuovo reato: l’antifascismo. Il rovesciamento della storia. O l’adeguamento ai tempi.

Queste righe sono l’abbozzo della memoria solo tecnicamente difensiva che consegnerò al sostituto procuratore Simone Pizzotti. Insieme a una copia del mio libro “Sotto l’ombra di un bel fiore”. Già, perché la perquisizione in cerca di chissà che cosa ha portato al sequestro, oltre che del telefono di lavoro, su cui vengo chiamato ogni giorno da persone in cerca di aiuto, di un quaderno di appunti con segnata la data del 28 aprile e lo svolgimento di quella giornata. Bene, si trattava degli appunti per il capitolo sul 28 aprile 1945 contenuti nel libro. Così il dottor Pizzotti potrà leggere la Storia per come è stata.

E non a rovescio.

Onore al commissario politico Pietro, al comandante Pedro e ai partigiani dimenticati della cinquantaduesima Garibaldi, che anche la notte tra il 24 e il 25 aprile 1945 hanno dato la loro vita durante un rastrellamento nazifascista.

Ora e sempre Resistenza

 

* Cecco Bellosi è coordinatore dell’Associazione Comunità Il Gabbiano. Ha collaborato per diversi anni alla redazione del Rapporto sui Diritti Globali. E’ autore di diversi libri, l’ultimo è  L’orlo del bosco (DeriveApprodi, 2022).

Resistenza

Il libro ricostruisce la stagione del lungo dopoguerra che ha visto affermarsi la prospettiva della «continuità dello Stato», il ritorno degli ex fascisti in molti settori decisivi dell’apparato pubblico e la messa sotto accusa, spesso anche nelle aule giudiziarie, degli appartenenti alle formazioni della Resistenza

 

Le radici del presente. Alla vigilia di un 25 aprile che vede per la prima volta alla guida del governo della Repubblica gli eredi del neofascismo, l’importante opera della storica Michela Ponzani («Processo alla Resistenza», Einaudi, pp. 234, euro 28) acquista una forza e un’urgenza inedite.

Docente a Tor Vergata, conduttrice di programmi culturali per Rai Storia, e già autrice di testi significativi sulla memoria dei partigiani, Ponzani ricostruisce la stagione del lungo dopoguerra che ha visto affermarsi la prospettiva della «continuità dello Stato», il ritorno degli ex fascisti in molti settori decisivi dell’apparato pubblico e la messa sotto accusa, spesso anche nelle aule giudiziarie, degli appartenenti alle formazioni della Resistenza.

Un contesto, per molti versi all’origine di quell’humus revisionista che ancora oggi alimenta le posizioni delle destre del nostro Paese, che si nutriva di una serie di falsificazioni della portata stessa della evidenza partigiana.

Dall’idea che la Resistenza non sarebbe stata necessaria per la Liberazione del Paese, «tanto ci avrebbero liberato gli Alleati», alle «azioni partigiane equiparate ad atti di terrorismo (vedi via Rasella)», fino alla lettura dell’8 settembre «come tragica disfatta morale», «il bisogno di ricordare altre tragedie nazionali, come le foibe o le violenze perpetrate dai partigiani di Tito, contrapposte alle stragi nazifasciste (sulla base di un bizzarro revanscismo dall’ottica compensativa)», l’enfasi posta sull’uccisione «dei vinti» nel dopoguerra, argomento prediletto dai bestseller di Giampaolo Pansa.

Per finire con «la richiesta di riabilitare alcuni militi della Rsi, trasformati in legittimi belligeranti (secondo una proposta di legge presentata nel ’94 da An e mai andata in porto)». Affrontando tappa dopo tappa il modo in cui dopo il ’45 l’esperienza partigiana fu almeno in parte «criminalizzata», Ponzani rintraccia così la genesi di miti e luoghi comuni «anti-resistenziali» che a quanto pare pervadono ancora il dibattito pubblico.

* Fonte/autore: il manifesto

Una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio) ha trasformato una banda armata in una banda musicale

 

Ha raccontato Franz Bertagnoli, uno dei componenti del battaglione di polizia Bozen aggregato alle SS, colpito dai fascisti a Roma a via Rasella: «Pretendevano che noi sfilassimo per le strade sempre cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori, a urlare in continuazione un cadenzato chicchirichì». Cantavano anche sfilando in via Rasella, armati fino ai denti, tanto che – come racconta un altro di loro, Konrad Sigmund – «avevamo tutti cinque o sei bombe a mano attaccate alla cintola , e ne esplosero parecchie, colpite dalle schegge, altre per il calore dell’incendio che si sviluppò». Se fossero stati meno armati ne sarebbero morti di meno.

Ma ci vuole poco a trasformare una banda armata in una banda musicale, come ha fatto adesso una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio). Ai bambini del quartiere, quei soldati che marciavano cantando (riluttanti) piacevano assai, e gli andavano appresso. Nella loro memoria infantile questa immagine si trasforma in quella di una banda di innocui musicisti («l’armi che ciavevano quelli erano la tromba e il tamburo», mi ha raccontato uno di loro, figlio di un ucciso alle Ardeatine), e da lì si diffonde nel senso comune antipartigiano e anti-antifascista, intrecciandosi con tutta la mitologia su via Rasella e le Ardeatine – i poliziotti-SS nazisti «erano vecchi», i partigiani «dovevano presentarsi», «li hanno uccisi solo perché erano italiani», «c’era la regola dei dieci italiani per un tedesco», «la rappresaglia è autorizzata dal diritto internazionale» e così via.

Basta informarsi per sapere che queste cose non sono vere. Per fare un esempio: ci sentiamo ripetere in tutte le salse che «la rappresaglia era autorizzata del diritto internazionale». Però, (a parte il fatto che si trattasse di regole già allora anacronistiche), proprio perché era autorizzata la rappresaglia era anche regolata: per essere legittima doveva rispettare certe modalità, proporzioni, selezione delle vittime. Nel 1949, Il tribunale militare italiano del processo Kappler dichiarò che nessua di queste norme era stata rispettata e pertanto non si doveva parlare di rappresaglia ma di «omicidio continuato». Aggiungiamo: la rappresaglia non era automatica, e che non esisteva nessuna «regola dei dieci italiani per un tedesco»: a Civitella in Val di Chiama ne ammazzarono 156 per 3, a Boves in Piemonte 19 per uno; e anche a Roma l’ordine di Hitler era di 50 a 1. Ma si continua impunemente a parlare di rappresaglia e dieci-a-uno, inquinando il senso comune e legittimando arbitrariamente il crimine nazifascista.

Ora, finché queste storie circolano come folklore, sono un problema ma ci si può lavorare, come su tutte le credenze popolari. Quando diventano verità di Stato proclamate dal presidente del Consiglio e dal presidente del Senato (e propalate su stampa e TV da “fior” di giornalisti che evidentemente non sanno fare il loro mestiere), queste favole diventano una minaccia non solo alla verità storica ma al processo democratico stesso: come si fa a discutere civilmente con chi è impermeabile ai fatti perché ha un bisogno disperato di credere a queste cose (o di raccontarle pure sapendo che non sono vere) perché se no dovrebbe interrogarsi sulle fondamenta stesse della sua identità politica?

Ma poi, quando un’altra voce autorevole esprime solidarietà a «donne e uomini» uccisi alle Ardeatine senza sapere che gli uccisi dentro quelle cave erano tutti uomini (una donna fu uccisa quasi accidentalmente, ma fuori), allora la domanda è un’altra: che classe dirigente abbiamo? Perché se dall’alto dei loro scranni mediatici e istituzionali politici e “fior” di giornalisti parlano su queste cose a vanvera senza sapere di che parlano e senza nessuno che li aiuti a informarsi (ma non hanno fior di ben retribuite staff?), che speranza abbiamo che non agiscano con la stessa incompetenza, disonestà e disinformazione quando parlano di Pnrr o altre cose che ci riguardano tutti i giorni? In altre parole: in che mani siamo?!

* Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto

 

ph by Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-10 / Koch / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944, ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo.

Blumstein non è un caso isolato. Gli stranieri uccisi alle Fosse Ardeatine sono una dozzina. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni (così vuole essere chiamata) vanta giustamente la sua origine alla Garbatella, quartiere popolare di Roma. La Garbatella è direttamente contigua alle Fosse Ardeatine. Chi è cresciuto lì non può non aver sentito parlare di che cosa è successo.

Le sue sorprendenti parole non sono frutto di ignoranza ma di inconfessata e tracotante vergogna. Non fu ucciso perché era italiano neanche il generale Simone Simoni, cacciato da Mussolini perché si era permesso di dubitare dell’inevitabile vittoria delle armate nazifasciste. Non fu ucciso perché era italiano Celestino Frasca, colpevole soltanto di essersi trovato vicino via Rasella dopo l’azione partigiana. Non fu ucciso perché era italiano Bruno Bucci, colpevole di avere nascosto sotto il letto una copia di un giornale antifascista. Non è stato ucciso perché era italiano Pilo Albertelli, professore di filosofia, colpevole di avere combattuto anche con le armi contro i tedeschi occupanti e i loro servitori fascisti.

Come scrisse a suo tempo Vittorio Foa, sono stati uccisi per quello che erano, per dove si trovavano, per quello che avevano fatto: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano; si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano; si uccidevano uomini che non c’entravano per niente solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine». In tribunale, Herbert Kappler, che aveva diretto il massacro, spiegò che secondo lui includere gli ebrei era stata una buona idea perché «se non avessi messo gli ebrei avrei dovuto aggiungere altre persone la cui colpevolezza era meno chiara»: in altre parole, gli ebrei erano colpevoli per definizione; gli altri (italiani o meno) no.

Infatti il comunicato tedesco affisso dopo la strage spiegava perché li avevano uccisi: non perché erano italiani ma perché ai loro occhi erano tutti «comunisti badogliani».

Quando l’italiano Guido Buffarini Guidi, ministro degli interni di quella che si era chiamata Repubblica sociale italiana, consegna ai nazisti la lista di una cinquantina di italiani da uccidere, non lo fa perché erano italiani. Lo fa precisamente perché, agli occhi del suo regime, erano tutto il contrario: nemici della patria, letteralmente «anti-italiani». Perché gli italiani non erano, non sono mai stati, una cosa sola. In un certo senso, questo tema degli «italiani vittime della barbarie tedesca», che risuona nei commenti odierni alla malaugurata uscita di Giorgia Meloni, rinvia a una narrazione della Resistenza, a lungo anche da parte antifascista, che ha cancellato le divisioni fra gli italiani (tanto che quando Claudio Pavone ricominciò a parlare di guerra civile molti furono come minimo disorientati).

Raccontare la Resistenza come sollevamento unitario di tutto il popolo italiano contro l’invasione nazista, o l’invasione nazista come crimine contro gli italiani in quanto tali significa assumere il popolo, o adesso «la nazione», come un tutto unitario, indistinto. La guerra civile significa invece che «il popolo», «il paese», «la nazione» sono entità conflittuali e divise – e continuano ad esserlo.

Quella di Giorgia Meloni è una reazione istintiva che maschera una sorta di afasia, ma che anche evoca l’ invereconda e ipocrita par condicio dell’anti-antifascismo contemporaneo, e ribadisce quel senso di vittimismo che accompagna tante narrazioni del nazionalismo italiano che si adopera a resuscitare (non a caso applica pedissequamente alle Fosse Ardeatine il mantra di destra sulle foibe – che come sappiamo non funziona davvero neanche per quel crimine lì). Ma le sue parole sono comunque preziose: ci aiutano a capire che le Fosse Ardeatine sono ancora una memoria insopportabile e vergognosa per gli eredi dei carnefici. Per generazioni, hanno sparso menzogne cercando di infangare i partigiani e giustificare i nazisti; adesso Meloni prova maldestramente a disinnescarla in nome dello ius sanguinis della nazione.

Il giornale clandestino trovato sotto il letto dagli assassini di Bruno Bucci si chiamava “Italia Libera”. Perché è vero, di Italia si trattava; ma l’aggettivo non è meno importante del nome – di che Italia parliamo? È vero, i partigiani e gli antifascisti erano italiani; i partigiani si definivano «patrioti» ben prima che di questa parola si impadronissero i fratelli d’Italia. Ma l’Italia che volevano, la patria a cui appartenevano, era un’altra.

* Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto

 

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Solo in un tempo scardinato è possibile rispondere a un’aggressione fascista minacciando di sanzioni un’insegnante antifascista, o dare la colpa di una strage in mare a genitori snaturati che, chissà perché, hanno portato con sé i figli su una barca clandestina e precaria

 

I tempi sono fuori sesto, diceva Amleto, e mi fa rabbia che tocchi a me rimetterli a posto. Solo in un tempo scardinato è possibile rispondere a un’aggressione fascista minacciando di sanzioni un’insegnante antifascista, o dare la colpa di una strage in mare a genitori snaturati che, chissà perché, hanno portato con sé i figli su una barca clandestina e precaria. Per questo tocca a noi, con rabbia serena, rimetterli a posto scendendo in strada come antifascisti a Firenze e come antirazzisti a Milano. Che poi è la stessa cosa.

Nel 1939, una nave chiamata Saint Louis attraversò l’Atlantico cercando di portare in salvo 937 ebrei rifugiati dalla Germania nazista. Le autorità del nuovo mondo – a Cuba, negli Stati Uniti, in Canada – furono tutte concordi nel rifiutargli il permesso di sbarcare.

La nave dovette riattraversare l’oceano e tornarsene in Europa, dove almeno un terzo di quelle persone furono assassinate dei campi di sterminio nazisti.

Nel 2023, i rifugiati delle guerre, delle catastrofi climatiche, della povertà e della mancanza di futuro non hanno nemmeno una nave che provi a portarli in salvo. Devono attraversare il mare come possono, ma ancora una volta trovano i porti chiusi e se muoiono è colpa loro.

In questi tempi fuori sesto i criminali sotto processo sono Mimmo Lucano che aveva provato ad accoglierli, o il contadino francese Cédric Herrou. Colpevole di solidarietà verso i migranti attraverso le Alpi.

Ha proprio ragione l’improbabile ministro Valditara: non c’è pericolo di un ritorno del fascismo. Da un lato, è’ improbabile che torni il fascismo del folklore, coi gagliardetti, gli slogan, i gerarchi in camicia nera che saltano nel cerchio di fuoco, il fez con la nappa. Dall’altro, non “tornerà”, perché non se n’è mai andato, il fascismo che chiudeva i porti ai rifugiati ebrei del 1939 e che adesso li chiude ai rifugiati africani e mediorientali col colore sbagliato e la pelle sbagliata. Per questo le due manifestazioni di oggi a Firenze e Milano sono la stessa cosa: è lo stesso fascismo quello che aggredisce chi non è d’accordo e quello che lascia morire chi non è uguale. L’ipocrita «prima gli italiani» di Salvini e complici e successori significa solo gli «italiani»: sono non-italiani e non hanno diritti i “clandestini” fuori dei confini; e dentro i confini sono «antitaliani» (questi sì proprio come nel ventennio) quelli che non si accodano disciplinatamente al consenso verso chi comanda.

Nel 1984 immaginato da George Orwell, il senso delle parole si rovesciava: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». Nel 2023 in cui viviamo noi, abbiamo fatto molti passi avanti su quella strada. Antifascismo e solidarietà sono reati, le vittime sono colpevoli, i carnefici buoni samaritani, lasciar morire la gente è pietà. Nei suoi discorsi, Giorgia Meloni – madre, cristiana, ma soprattutto italiana – ci insiste ripetutamente. «Siamo umani, noi», proclama, «noi siamo quelli umani che si pongono il problema del destino di persone che stanno in difficoltà e per evitare che muoiano in mare con nostro grande dolore gli diciamo di non partire, vantando una politica di respingimento come un atto umanità e di buoni sentimenti.

In quanto madre, Giorgia Meloni non ha una parola umana per i ragazzi massacrati di botte dai fascisti a Firenze; in quanto cristiana, non ha niente di umano da dire sugli esseri umani morti per mancanza di soccorsi nel mare della Calabria. D’altra parte, è in nome di umani sentimenti paterni che il suo accolito Piantedosi dà ai loro stessi genitori la colpa della morte di bambini che sarebbe stato suo compito salvare. E non ci dimentichiamo che il suo alleato Matteo Salvini schedava i rom perché «non come ministro, ma come papà» voleva «salvare quei bambini che crescono nella schifezza» di campi che sarebbe stato suo dovere rendere vivibili.

Ma sarebbe stato, ed è, anche dovere nostro. Abbiamo senz’altro il cuore dalla parte giusta, ma non basta. Anche una solidarietà rassegnata rischia di risolversi in inerzia, che è una forma attenuata di indifferenza. Ho cominciato con Amleto, finirei con Yeats: le cose vanno in pezzi, scriveva, perché «ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata». Basta ascoltare i comizi di Giorgia Meloni per capire di che cosa parlava. Ebbene, è arrivato il momento di scrollarci ci dosso il torpore interiorizzato di chi si sente sconfitto, e di ritrovare le nostre convinzioni , le nostre passioni, la nostra intensità. Forse non è troppo tardi per provare a rimettere il mondo in sesto.

* Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto

 

 

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Nel 79esimo anniversario della liberazione dai nazifascisti la commemorazione italiana, slovena e crota

Ieri al Memoriale delle vittime del fascismo dell’isola di Rab (Arbe), in Croazia, si è svolta la commemorazione del 79esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento.

Alla presenza del ministro della Difesa sloveno Marjan Šarec e del presidente dell’associazione partigiana croata Franjo Habulin, il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo ha ricordato «le vittime del campo di Rab, giustamente definito da tanti campo di sterminio, dove morirono di stenti e fame 1.500 persone. Nel mio paese ancora oggi i crimini del fascismo in ex Jugoslavia sono sconosciuti ai più: una vera rimozione. La mia presenza rappresenta perciò un doveroso gesto di riparazione. A maggior ragione oggi quando in Italia si minimizzano le responsabilità dei fascisti, si mettono sullo stesso piano aggrediti e aggressori».

Nei giorni scorsi una delegazione di storici guidati da Eric Gobetti ha visitato il campo.

* Fonte/autore: il manifesto

 

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Dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943, cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso Auschwitz-Birkenau e altri campi di sterminio (Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli e Bolzano). I vagoni piombati, con il loro carico umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale. I convogli, nascosti alla vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori. Furono oltre 1500 le persone caricate a forza dai fascisti repubblichini al servizio dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più.

IN ORIGINE il Binario 21, prima dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi visibile tra i mosaici. Dal 27 gennaio 2013 l’originario Binario 21 è parte del Memoriale della Shoah. La lunga notte di Milano iniziò .con l’ingresso, il 10 settembre 1943, dei primi granatieri della divisione corazzata delle Waffen-SS Leibstandarte Adolf Hitler.

UN CORPO D’ÉLITE che solo pochi mesi prima, a Geigova, nella ritirata di Russia, si era macchiato dello sterminio di quattro mila prigionieri russi per rappresaglia, e nel volgere di pochi giorni, dopo aver varcato il confine italiano, compiuto il massacro di Boves in provincia di Cuneo, 25 le vittime inermi. Tra il 15 e il 23 settembre truciderà per odio razziale, oltre che per rapinare i loro beni, 54 ebrei sfollati sul lago Maggiore, tra Stresa, Baveno, Meina e Arona. La strage del Verbano fu il primo eccidio di ebrei compiuto in Italia.

GIÀ A PARTIRE dal 13 settembre a Milano entrò in funzione la struttura delle SS, guidata dal capitano Theodore Saeweche, direttamente dipendente dal colonnello Rauff, capo del comando interregionale della «Polizia e servizio di sicurezza», la cosiddetta Sipo-Sd, che comprendeva Piemonte, Liguria e Lombardia. Walter Rauff era stato l’inventore dei “camion della morte” in Polonia e Russia che anticiparono le camere a gas, 90.000 le vittime. La sede del comando interregionale e milanese fu installata in pieno centro, a pochi passi da piazza Duomo, all’Hotel Regina. Oggi l’albergo non esiste più. Al suo posto gli uffici di alcune società finanziarie.

Il carcere di San Vittore passò sotto la gestione delle SS. Il penitenziario si riempì rapidamente. Due dei suoi sei bracci, il IV, il V, furono destinati ai detenuti politici, il VI agli ebrei. A dirigerlo inizialmente il maresciallo Helmuth Klemm, poi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto «la belva», sempre con il frustino e un’inseparabile cane lupo. Tra il settembre 1943 e il 12 aprile 1945 su un totale di 18.828 arrestati, 4.982 furono deportati in Germania. A ricordare orrori e sofferenze una targa murata sull’ingresso di via Filangieri 2 posta il 25 aprile 1965 dall’allora sindaco Pietro Bucalossi. Ma non erano solo le SS ad arrestare. Almeno nella metà dei casi, come risultò dagli stessi registri, furono le organizzazioni fasciste e le molte polizie politiche a consegnare i prigionieri ai tedeschi, tra loro la Legione Muti, la X Mas, le Brigate nere e la banda Kock.

VIA ROVELLO E VIA TIVOLI. Almeno otto furono i corpi investigativi che operarono indipendentemente l’uno dall’altro con proprie carceri. In via Rovello 2, attuale sede del Piccolo Teatro, la Legione Muti istituì la propria caserma comando. A dirigerla Francesco Colombo, un pregiudicato per reati comuni nominato vicequestore dal ministro degli Interni. In via Tivoli si trovava invece la caserma “Salinas”. A comandarla il capitano Pasquale Cardella, lo stesso che guidò il plotone d’esecuzione in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, per fucilare 15 patrioti. Al posto dell’edificio in via Tivoli si trova ora solo un giardino, davanti al teatro dedicato a Giorgio Strehler.

TUTTA MILANO ERA disseminata di comandi e caserme. Il «Servizio sicurezza» delle SS si trovava in corso Littorio 10. Divenne poi corso Matteotti. L’ufficio stampa e propaganda della X Mas, era alloggiato all’albergo Nord, accanto al comando della Wermacht, in piazza Fiume, ribattezzata dopo la Liberazione piazza della Repubblica.

MA È LONTANO dal centro che bisognava andare per rintracciare il covo della banda Koch, a “Villa Triste”, così soprannominata per le torture che vi si infliggevano, in via Paolo Uccello, dalle parti di San Siro. Una villa storica. Nel giugno del 1944 vi si installò Pietro Koch, proveniente da Roma, dove aveva gestito un «Reparto speciale della polizia repubblicana», ma soprattutto aveva fornito un elenco di nomi ai nazisti per la strage alle Fosse Ardeatine. Nei sotterranei furono allestite cinque celle. In qualche periodo vi furono stipate fino a un centinaio di persone. Le urla dei seviziati si sentivano fin dalla strada. Alla fine, il 24 settembre 1944, quasi solo per ragioni di lotta intestina fra le diverse bande fasciste, “Villa Triste” fu chiusa. La famiglia Fossati, proprietaria dell’immobile, decise di non abitarla più e lasciarla in eredità ad un istituto missionario, che a sua volta lo donò a una congregazione di suore.

* Fonte/autore: Saverio Ferrari, il manifesto

 

ph by Camelia.boban, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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