QUEI TURBANTI NELLE TERRE MANTOVANE

Alla scoperta del Po/20. Alla confluenza dell’Oglio, il treno delle acque deraglia. Il serpentone si dibatte e cerca strade diverse, rompe gli argini. Da Guastalla in giù, ecco ovunque alvei abbandonati. Tra Curtatone e Bagnolo San Vito il fiume sembra il Gange: sikh, indiani e pakistani del Punjab abitano qui. Una volta càerano i bergamaschi che sapevano domare le piene 

Alla scoperta del Po/20. Alla confluenza dell’Oglio, il treno delle acque deraglia. Il serpentone si dibatte e cerca strade diverse, rompe gli argini. Da Guastalla in giù, ecco ovunque alvei abbandonati. Tra Curtatone e Bagnolo San Vito il fiume sembra il Gange: sikh, indiani e pakistani del Punjab abitano qui. Una volta càerano i bergamaschi che sapevano domare le piene 

Ma basta quest’aria da funerale, basta vecchi che piangono sulle ceneri del fiume perduto. Da quando ha preso il comando del “Gatto”, il riminese Fabio Fiori, cerca sangue nuovo, sangue barbarico. «Voglio donne d’altri mondi, cacciatori di frodo, vituperati extracomunitari». Tutto gli andrebbe bene, anche i rumeni che van di notte, accusati di tutti i possibili furti tra Torino e l’Adriatico. Anche i feroci ungari cacciatori di siluri. E subito la sterminata Padania lo accontenta. Gli basta salire sull’argine di Borgoforte. Le terre mantovane tra Curtatone e Bagnolo San Vito, dove il Mincio luccica lontano nella pioggia, sono punteggiate di turbanti, e ogni turbante ha un colore: rosa, blu notte, giallo oro, rosso fuoco.
Ora non è più il Mississippi: è il Gange che trasuda vapori di vacca e incenso, ricotta e stufato al curry. E i turbanti sono loro, dei sikh, degli indiani e dei pakistani del Punjab, abitatori di golena che mungono giorno e notte per il “Pil” del Grande Nord. Una volta le terre inondabili erano abitate dai Lumbard, bergamaschi soprattutto, che sapevano come ripararsi dalle piene anche oltre l’argine maestro. Bastava mettere la roba buona al primo o secondo piano, e lasciare gli aratri e le bestie di sotto. Oggi, mi disse un giorno Andrea Goltara, super-esperto di fiumi, i nipoti dei Lumbard hanno perso la memoria di questa convivenza col fiume e nelle ultime piene, come nel 2000, tagliare gli argini per far defluire le piene è stata una mezza tragedia. «Molte cascine si erano trasformate in villette e i padani non sapevano più sfollare al primo piano». I figli del Gange, invece, se l’erano cavata alla grande.
Dopo il ponte della Modena- Brennero e l’argine a filo di corrente dove Olmi girò
“Centochiodi” all’altezza di San Giacomo Po, il fiume compie un’altra delle sue incomprensibili giravolte. Qui, come venti chilometri prima, alla confluenza dell’Oglio, il treno delle acque deraglia. Eppure non ci sono ostacoli. Per capire basta leggere le cronache dei monaci di San Benedetto Po, mirabile pieve in mezzo al nulla della pianura.
A 150 chilometri dal mare il serpentone già si dibatte, indeciso, cerca strade sempre diverse, rompe gli argini, vorrebbe già essere Delta, e costringe gli uomini a continue opere di arginamento e deviazione. Da Guastalla in giù, non abbiamo un fiume, ma tanti fiumi saldati provvisoriamente tra loro. Ovunque, i segni di alvei abbandonati. Come quello del fantastico Lirone, ben visibile nelle pergamene dell’abbazia.
Dio che argini. Arrivarci sopra
è una scalata. Come a Correggio Micheli, dove sotto un cielo inglese ci accoglie un porticciolo pieno di magiari e slovacchi panzoni, tutti felici in mimetica e tutti armati di ami terrificanti. E giù fiumi di birra e patate fritte a vagoni, in un clima da Oktoberfest, sotto un tendone, in cima alla ripidissima scala che sale dal fiume. «Questi sono il mio pane — ammonisce il gestore — preferiscono non mangiare pur di pescare». E davvero il Po è un fiume straniero. Se lo
godono tutti, tranne gli italiani. Con qualche eccezione, come la nostra barchina dove sventola la bandiera di un gatto dalla lunga coda.
Dormiremo qui, a tiro di San Benedetto Po, dove ci aspetta l’amico Fabio Malavasi, uomo di fiume e di treni. È nato qui, da dinastia di ferrovieri, nel casello numero 15 della Ferrara-Suzzara (Km. 16.726) che ha preso in affitto e cura come un museo. Ci mostra il letto dove è nato sia lui che suo padre e dove nel dopoguerra si scaldava il materasso con un elmetto tedesco messo preventivamente sul fuoco. «Ancora oggi i treni fischiano per salutare, quando passano di qua» racconta, e ci schiude un mondo da film in costume. Tutto è come cent’anni fa, dall’archivio dell’officina al fanale a olio. E tutto dice di un mestiere dalla dignità perduta, di tempi in cui la bandierina rosso-verde del casellante veniva portata con un sussiego da ufficiale britannico, impugnata non solo per indicare ma anche per minacciare.
Poi la sera prende la piega che prendono sempre le sera da queste parti: mangereccia. Fabio stacca da una trave un culatello e solennemente ce lo consegna come premio per la nostra sfida fluviale. Sappiamo già dove appenderlo: sottocoperta, all’altezza dell’albero. E sappiamo anche che lo mangeremo in un occasione solenne, forse alla fine del viaggio, davanti al mare. Poi sotto le stelle finiamo “Da Martinella”, una locanda di quelle di una volta, sulla strada alta che porta a Quistello. Martinella è il nome delle campana che chiamava al pranzo operai e carrettieri, e Bianca invece è il nome della minuscola cuoca, cognome Cavicchioli, da 43 anni ai fornelli, che ci scodella tortelli di zucca imperiali, con burro e salvia.
Stefano Benni scrisse: «Solo in pochi erano abilitati a entrare al bar sport e dire “Uno Zabov, presto”», e anche a noi fa voglia di tornare qui un giorno senza preavviso, di sederci sulla sedia impagliata e chiedere “un torta tagliadela, in fretta, che ho fame”. Piacerebbe anche a Guccini questo luogo. Già Guccini, ci ha telefonato che non ce la fa a scendere in pianura e a navigare con noi. Ma possiamo ben noi salire da lui, ha detto, fino a Pavana. E figurarsi, Francesco non è uno che si schioda facilmente.
Notte di evocazioni inquietanti sulla piazza immensa e vuota davanti all’abbazia. L’argine a pochi metri porta odore di limo e la leggenda del Po-Lirone scomparso, mentre le ombre dei benedettini mantovani chiamano quelle dei cistercensi piemontesi di Staffarda, partenza del nostro viaggio. Dormirò sotto un baldacchino, senza avere la minima idea che di lì a pochi giorni arriverà il terremoto.
(20 — continua)

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