Assange dal balcone sfida l’America in diretta mondiale

Il grande accusato passa all’attacco «Basta con la caccia alle streghe»

Il grande accusato passa all’attacco «Basta con la caccia alle streghe»

LONDRA — Come un consumato attore davanti a mille telecamere convenute per lo show, Julian Assange ha predicato per qualche minuto dal balcone al primo piano dell’ambasciata ecuadoriana, attaccata al tempio dello shopping Harrods. Si è rasato e tagliato il ciuffo, perché le regole della comunicazione richiedono una bella e rassicurante presenza da «eroe» pulito e moderno, quasi da operoso banchiere della City, la camicia azzurra e la cravatta rossa, la voce seria e chiara: «Obama fermi la caccia alle streghe contro WikiLeaks».
Il tam tam durava da giorni: parlerà domenica. E di domenica il nemico della diplomazia americana ha parlato, illustrando con perizia e furbizia il suo manifesto politico. Si è guardato bene dall’indossare i panni del martire, dunque non ha oltrepassato i confini del palazzo diplomatico dell’Ecuador, altrimenti Scotland Yard lo avrebbe ammanettato. Allora, istruito dai legali guidati dallo spagnolo Baltasar Garzón, si è affacciato al terrazzino con la bandiera ecuadoriana. «Se vi è unità nell’oppressione, vi deve essere assoluta unità e determinazione nella risposta».
Julian Assange ha mirato al bersaglio grosso, Washington. Ha esaltato l’Ecuador e le nazioni sudamericane che si schierano dalla parte della libertà di pensiero, cioè dalla sua parte, e contro gli Stati Uniti. Ha accennato alle Pussy Riot condannate a Mosca. Ha chiesto la scarcerazione del «prigioniero politico» Bradley Manning, il militare e informatico Usa (il vero martire) che è dietro le sbarre per avere scaricato i documenti dagli archivi del dipartimento di Stato e per averli poi passati a Wikileaks. E ha sfidato Obama: «Dobbiamo sfruttare il momento per sottolineare la scelta che gli Stati Uniti hanno davanti». Ovvero: «Vogliono tornare ai principi rivoluzionari che sono alla base della loro fondazione? Oppure intendono barcollare sull’orlo del precipizio trascinandoci nel tirannico mondo nel quale i giornalisti sono costretti al silenzio e i cittadini bisbigliano nel buio?». Non c’è dubbio: un evento mediatico preparato, creato e diffuso con sapiente regia. Peccato, che dietro e attorno alla figura di Julian Assange si stia svolgendo una partita politica e diplomatica delicata.
Da 61 giorni il giornalista australiano è barricato lì dentro, nella sede della rappresentanza sudamericana, perché Londra lo vuole estradare in Svezia dove è accusato dello stupro di due donne. Ma lui e i suoi supporter temono che si tratti di un giochino escogitato per spingerlo nella mani di Washington, in cerca di vendetta dopo la pubblicazione dei documenti top secret. Su questo punto, tuttavia, è intervenuto ieri direttamente il ministro degli Esteri di Stoccolma Carl Bildt: la Svezia, ha spiegato al sito del Financial Times, «non può estradare qualcuno verso un Paese in cui rischia la pena di morte».
Julian Assange ha ottenuto l’asilo politico da Quito ed è diventato, suo malgrado, una scomoda marionetta mossa da Rafael Correa, il presidente dell’Ecuador che è impegnato a riscaldare i sentimenti antiamericani del Sudamerica. I due si sono conosciuti durante un’intervista per l’emittente Russia Today e, ciascuno, guardando ai propri interessi, ha dato una mano all’altro. Nel teatrino, Londra ha commesso il grave errore di minacciare di entrare nell’ambasciata ecuadoriana per prelevare Assange, tirandosi addosso le accuse di «colonialismo». Quando mai si viola un’ambasciata? Rafael Correa ha impugnato la bandiera pro Assange per scatenare i risentimenti che circolano dalla sue parti nei confronti di Washington e pensando alle elezioni del 2013. Assange, per parte sua, ottenendo asilo politico da Quito, ha evitato il «viaggio» negli Stati Uniti, via Stoccolma, e ha salvato la pelle.
Julian Assange ha affabulato sulla sua condizione di perseguitato (ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo) e le diplomazie stanno cercando una via d’uscita a questa commedia. Ora come ora, il fondatore di WikiLeaks non può volare a Quito: se esce Londra lo arresta e lo spedisce a Stoccolma. Domanda: ora che la stessa Svezia ha garantito che non lo consegnerà a Washington lui accetterà il processo per quelle imputazioni che respinge con forza? Come e quanto questa soluzione sia realistica è da vedere. Di certo c’è che, sull’onda del caso Assange, l’Ecuador ha chiesto e ottenuto la solidarietà di tutti i ministri degli Esteri sudamericani, rinsaldando così il fronte politico contro Washington e contro Londra.
Paradossi a non finire: per il populista Rafael Correa, Assange è una pedina importante per le sue strategie.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password