SULL’AMMIRAGLIA CHIAMATA STRADIVARI

Alla scoperta del Po/19. Nel ricordo di quello che un tempo fu il fiume, arriva un appello a salvarlo. “È diventato un canale pieno di veleni, un tempo i pesci saltavano ovunque”. La nave ci aspetta al porto di Boretto con una tavola di prelibatezze. Poi l’ultima pioggia di questàestate infernale dopo, non ce ne saranno più 

Alla scoperta del Po/19. Nel ricordo di quello che un tempo fu il fiume, arriva un appello a salvarlo. “È diventato un canale pieno di veleni, un tempo i pesci saltavano ovunque”. La nave ci aspetta al porto di Boretto con una tavola di prelibatezze. Poi l’ultima pioggia di questàestate infernale dopo, non ce ne saranno più 

Illuminata come un hotel di Las Vegas, la “Stradivari”, ammiraglia delle navi da crociera del Po, ci aspetta di sera al porto di Boretto con capitan Landini sul ponte e una tavola di prelibatezze in sala ristorante. Pelo rosso, corporatura da terzino, figlio di Ginetta ex mondina in Piemonte e di Giuseppe che sbadilava sulle pirodraghe a carbone, Giuliano Landini se potesse trasformerebbe il fiume una serie di piccoli laghi separati da chiuse. E c’è da capirlo, ormai il Po non lo cura più nessuno, soldi per dragarlo non ci sono più, e la “Stradivari” è ferma mezza estate in attesa che le prime piogge facciano risalire il livello.
«Pensate, questo è l’ultimo fiume libero d’Europa», brontola, e noi non abbiamo coraggio di dirgli che è proprio questo che ci ha incantato, e che noi bucanieri le dighe le tireremmo giù tutte, per lasciar spazio all’acqua. Inutile discutere, se davanti hai luccio con capperi e acciughe, polenta grigliata con cipolle borettane e uno schieramento delle migliori bottiglie di lambrusco. Qui si mangia, senza sensi di colpa, dopo secoli di fame nera. Il vecchio Landini le fette di polenta doveva grigliarsele sulle ceneri del carbone della pirodraga, prima di intingerle nel cuspetùn, un intruglio di aringhe secche.
Che terra di matti. «Ligabue il pittore – racconta Ginetta – era un invasato e tutti lo evitavano. Oggi lo inviterebbero tutti…». E poi c’è il piromane della bassa, che suscita il fuoco contro il diluvio… E il re del Po, che tiene fermo il fiume con la forza della retina e un giorno vaticinò uno tsunami in modo così convincente che Mediaset diede la notizia e i contadini sgomberarono le stalle. È pieno di re e imperatori da queste parti. Del tortello, della zucca, del culatello. E noi del Mississippi ci diamo dentro col blues alla chitarra, finché Marina Rossi, la donna del Volga, ci fa finire a vodka, con brindisi in russo dedicati nell’ordine “all’incontro”, “alla padrona di casa”, “all’amicizia”, “a coloro che amiamo”, fino a un formidabile “all’impazienza dei cavalli” propiziatorio di un rompete le righe capace di non straziare l’anima. «Ci vorrebbe Guccini in una serata così» sospira Alessandro. E subito parte l’idea di invitarlo sul “Gatto” e fare un pezzo di strada assieme. Se la godrebbe, lui che è nato in un mulino, magari gli verrebbe anche da suonare. E intanto vado a nanna mezzo brillo, per sognare draghe arrugginite nella nebbia e terribili meatori con baffi gelati come trichechi. Sonno micidiale, da abisso senza fondo. L’acqua dolce è così, ti narcotizza più del lambrusco.
L’indomani ripartiamo sotto la pioggia, l’ultima grande pioggia prima di un’estate infernale, con l’augurio di rivederci a fine viaggio per una mangiata e un grande racconto. Attenti, ci hanno detto, da qui in avanti non si dice più «andare al Po», ma «andare a Po», come fosse «andare da Mario». Il fiume è definitivamente una persona. «Vet a Po?» ti chiedono, vai a Po? Oppure: «Vet a veder se l’acqua la va a la bassa?», vai a vedere se l’acqua va verso il basso? Questo, brontolò Guareschi, è il luogo dell’antiretorica. Qui il Po non vuole sembrare diverso da ciò che è. È se stesso e basta.
Passiamo accanto a una
draga sputafuoco col muso a forma di lampreda, ferma al museo della navigazione fluviale, poi traversiamo sull’altra sponda per far sosta a Pomponesco, in un capanno chiamato Montecitorio perché lì i vecchi del paese «fanno le leggi », quelle non scritte di paese. Raccolgo battute mentre piove oltre i vetri.
«Lui ha fatto tanto per noi e adesso noi non facciamo niente per lui».
Sembra un funerale. E il de-
funto è lui, il fiume che regalava cibo e combustibile a piene mani, e oggi è ricambiato con i veleni.
«I pesci saltavano dappertutto. E nelle garzaie, dio che odore nei giorni della riproduzione! Gli uccelli coprivano il sole».
E il fiume com’era?
«Un labirinto di acque. Isolotti di pioppi, salici, acacie. L’autunno aveva colori stupendi».
Ripartiamo, piove forte, ora il fiume sembra il Don. Sottocoperta, a turno, ci diamo dentro con pane, pecorino e lambrusco. Sulla riva destra, una lanca piena di pescatori, oltre la famigerata Isola degli Internati, fino al superbo relitto di una nave intrappolata nelle sabbie. Ma la sorpresa arriva poco oltre Luzzara. Una house-boat con gente in mimetica attorno a una griglia fumante. Non sono pescatori, hanno il basco dei parà. Chiediamo permesso di attracco.
«Da dove venite?».
E noi: da Torino.
«Ce l’avete l’ampolla?».
No, naturalmente.
«Allora venite a mangiare con noi».
Madonna, è un raduno d’arma. Nostalgici della Folgore. Ma a loro basta che non siamo leghisti. Non importa se siamo di sinistra, i tempi di Peppone e Don Camillo sono finiti. Ci sono anche ragazzini con canna da pesca e fucili ad aria compressa. «Devono crescere con i nostri principi», dice Bruno Di Lorenzo, un mite settantenne dai folti capelli bianchi che ci rimpinza di pasta al sugo e braciole. Sono simpatici uno per uno, ma non so cosa farebbero inquadrati. Attorno a una tavola imbandita, anche donne in mimetica.
Una, bella assai, prova a sparare a un bersaglio e un tipo le fa: «Sembri Lara Croft». Lei, estasiata: «Adesso capisco perché indossate queste divise. Sono bellissime».
Dico: «Beh ragazzi adesso dobbiamo andare, il viaggio è lungo. Potreste anche farci un saluto».
E mentre il “Gatto” si stacca dal barcone, ecco partire il triplice urlo «Folgore!» con inevitabile braccio teso. Cui segue un «Tornate, sarete sempre bene accetti». E noi prendiamo il largo, confusi da quella ospitalità così aperta e così targata. Ma il fiume è così, è
sempre lui che decide.
(continua)

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