ABRAMOVIC: “CONDIVIDERE IL LUTTO SENTIMENTALE CI AIUTA A SOPPORTARLO”

L’artista, che ha spesso messo al centro del suo lavoro il rapporto con le passioni, spiega come sia possibile superare l’abbandono. Sappiamo che ‘per sempreà non significa niente eppure dobbiamo arrenderci allo stato di innamoramento   

L’artista, che ha spesso messo al centro del suo lavoro il rapporto con le passioni, spiega come sia possibile superare l’abbandono. Sappiamo che ‘per sempreà non significa niente eppure dobbiamo arrenderci allo stato di innamoramento   

Sostiene Marina che l’arte è l’ossigeno della nostra società. Essere artisti è una cosa seria, un impegno che pretende dedizione e coraggio. Serve una vita seriamente organizzata, perché il talento non si disperda. Abramovic padre era un militare e Marina è cresciuta nel culto della disciplina. Così qualche anno fa ha deciso di scrivere un decalogo, raccogliendo consigli per artisti. Il primo punto del “Manifesto per la vita di un artista” riguarda i precetti per una vita sentimentale che non intralci la professione. E dice: un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista/ un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista/ un artista dovrebbe evitare di innamorarsi di un altro artista.
Perché di tanta insistenza? «La storia insegna che questi legami sono crudeli e fallimentari. Pensi a Camille Claudel. A diciotto anni, durante la sua prima mostra, conobbe Auguste Rodin. Che aveva ventitré anni più di lei e un’altra donna, Rose Beuret. Si innamorarono e si amarono follemente, ma lui non rinunciò mai all’altra donna, quella che lo accudiva e non contrapponeva forza alla forza, arte all’arte. Camille passò gli ultimi anni della vita rinchiusa in un ospedale psichiatrico, scannata dai suoi fantasmi. Non è solo una questione di gelosia, o di invidia. È piuttosto un equilibrio di forze molto complicato. Due artisti si affrontano senza poter cedere mai di un millimetro, mentre quello che servirebbe a entrambi è piuttosto una casa, una cuccia. L’unico esempio che mi viene in mente di una coppia di artisti capaci di vivere insieme e lavorare fianco a fianco per tanto tempo è quello di Gilbert & George. Compagni di vita e sodali nell’arte ormai da quasi quarant’anni».
Fa una pausa, Marina Abramovic, e mi guarda. È nata nel 1946, a Belgrado. Adesso vive a New York, ma un attimo fa era a Londra e tra qualche giorno sarà a Venezia al Festival del cinema. Vive veloce e intensamente, e ha sempre usato se stessa e il suo corpo per esprimersi. Ogni sua performance è un evento dalle conseguenze imprevedibili, per sé e per il pubblico. Nel 1974, a Napoli, mise in scena Rhythm 0, quasi un sacrificio rituale. C’era solo lei, e un tavolo sul quale aveva apparecchiato strumenti per il piacere e il dolore, cibo, coltelli, una pistola, fiori, lamette. Avrebbe assecondato qualsiasi cosa le fosse stata fatta dal pubblico. Allo scadere del tempo assegnato, si ritrovò semi nuda, la pistola puntata alla tempia e l’energia erotica della sala fuori controllo. È questo che fa: ti spiazza, ti costringe alla presenza, ti chiama in causa. Negli anni si è tagliata fino a sanguinare, si è spogliata, stremata fino allo svenimento. Seguendo il precetto di Etty Hillesum, «si è offerta umilmente come campo di battaglia». Questa donna mi guarda e di colpo scoppia a ridere. In un attimo si trasforma dalla sacerdotessa oracolare in una ragazzina. «E comunque le regole raccontano di una condizione ideale — dice — sono consigli a chi è giovane. Non vuol mica dire che io mi sia sempre comportata come il mio decalogo chiedeva. Come tutti, ho sbagliato molte volte e molte volte sbaglierò ancora. E sarà giusto così».
Tra le opere di Abramovic, ce n’è una che ho sempre ritenuto cruciale non solo per l’arte ma per la costruzione della nostra idea di amore. Nel 1987, dopo una relazione sentimentale e artistica durata 12 anni, lei e il suo compagno, Ulay, decidono di separarsi. E scelgono di farlo mettendo in scena una struggente cerimonia d’addio. Partono a piedi, dai due lati opposti della Grande Muraglia, in Cina, e camminano per novanta giorni. Fino ad incontrarsi, a metà, soltanto per stringersi in silenzio la mano e congedarsi l’uno dall’altra. Questa performance è stata documentata in un video. Le separazioni, le nostre guerre sentimentali. Siamo sprovveduti, non riusciamo a gestirle, ad accettarle, a trasformarle in altro che non sia immendicabile lutto, spesso talmente traumatico da inibire la fiducia in amori a venire.
Forse per lenire il dolore di una separazione servono riti che la codifichino, che la rendano accettabile. «Io non lo so. Credo che l’arte e la vita siano
due cose diverse. Io sono un’artista e non so dare consigli. Faccio il mio lavoro. Se vivo un’esperienza, non posso fare a meno di trasformarla in un gesto artistico Per me quella camminata era un rito, era il mio modo per separarmi. Ma non intendo farne una liturgia. Posso dire però che quel lutto riguarda tutti noi. Ognuno sa cos’è quello strappo, cosa accade quando un amore finisce. E forse avere coscienza del fatto che si tratta di un’esperienza così fortemente condivisa potrebbe già aiutarci a sopportarlo».
Nel Manifesto, Marina Abramovic scrive ancora che l’artista dovrebbe sviluppare una punto di vista erotico rispetto al mondo. Scrive: «Un artista dovrebbe essere erotico / Un artista dovrebbe essere erotico / Un artista dovrebbe essere erotico». Che cosa significa? «L’energia erotica è la più potente a nostra disposizione. Forse l’unica. Per un artista è molto importante entrare in relazione con questa energia, imparare a fidarsene e saperla tradurre in un linguaggio espressivo. Amiamo, distruggiamo e creiamo attraverso la nostra energia erotica. È preziosa, irrinunciabile per un artista. Basta pensare ai lavori di Louise Bourgeois. Non trova che siano sempre, incredibilmente, erotici?».
Sì, nonostante il tempo. Tanto da chiedersi se, davvero, le modificazioni del corpo col procedere dell’età, incidano sul nostro modo di amare. «No, non credo che il modo di amare abbia a che fare coi cambiamenti del corpo. Si può amare nello stesso modo ad età diverse. E l’erotismo, la sensualità, non hanno niente a che fare con quello che normalmente intendiamo per bellezza. L’esperienza del Meltdown mi ha molto colpito».
Lecture for women only, è il titolo della performance di Abramovic che si è svolta all’Elizabeth Hall, in occasione del Meltdown Festival, diretto da Antony Hegarty. Cantante del gruppo Antony and the Johnsons, voce inconfondibile, candida e struggente, in un corpo misterioso, sessualmente post-ambiguo, l’artista collabora con Marina dalla messinscena di Life and death of Marina Abramovic, spettacolo diretto da Bob Wilson e interpretato da Willem Dafoe, del quale ha scritto le musiche. «Ci siamo ritrovate in 2500 femmine — racconta — . Molto diverse per età e caratteristiche. C’erano ragazzine molto giovani, adulte, donne anziane, disabili. È stata un’esperienza fortissima. Nessuna di noi, ne sono certa, aveva mai vissuto una situazione del genere. In quel momento mi sono resa conto che la forma esterna del corpo non ha alcuna importanza».
Willem Dafoe è protagonista anche dell’ultimo video di Antony, Cut the world, uno dei brani che fanno da colonna sonora allo spettacolo di Bob Wilson. Sul finale, tra una folla grigia, appare anche Marina Abramovic, con la solita disarmante potenza emotiva, nel suo solo camminare e guardare. «Ho obbedito a lungo al mio destino di donna/ distraendo il tuo desiderio di ferirmi/I miei occhi sono coralli, che accolgono i tuoi sogni/ la mia pelle un confine da violare/ Il mio cuore contiene scene di orrore/ ma quando girando il viso taglierò via il mondo? » Canta Antony, e non è difficile capire perché questi due artisti siano tanto in sintonia.
Mi sembra che la dinamica passività/ aggressività, che spesso utilizza nei suoi lavori, possa essere usata anche per raccontare quello che accade in amore, nel sesso soprattutto. «Certo. Ma non è l’unica. Non dimentichi mai che in arte, come nell’amore, quello che sembra materia confina con la spiritualità. Per me lo stato di innamoramento è uno stato di grazia e di felicità. Una resa. Per questo penso che il nemico più grande sia la paura di arrendersi completamente e per sempre. Anche quando si sa — anche quando sappiamo — che per sempre non significa niente». Per questo sceglie certi film sull’amore, piuttosto che altri: «Mi piace molto L’anno scorso a Marienbad, di Alain Resnais (scritto da Alain Robbe-Grillet) e Hiroshima mon amour, sempre di Resnais ma scritto da Marguerite Duras. Ho sempre pensato che fossero le due facce dello stesso racconto, dal punto di vista dell’Est e dell’Ovest del mondo. E poi Teorema di
Pasolini».
Per questo l’immagine classica del cuore trafitto per rappresentare l’amore non la convince. «Mi sembra strana. L’amore non è nel cuore, o non solo. Se penso all’amore l’immagine che mi viene in mente è un corpo che si dissolve in luce.
Le piace?».

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