Un materasso ad acqua, solo telefoni fissi le notti in ufficio di Julian con l’incubo Fbi

Gli inquirenti Usa hanno raccolto 42 mila documenti. Il via vai di amici e collaboratori nel palazzetto a due passi da Harrods. Il vero rischio ora è il dossier americano e l’incriminazione per spionaggio   

Gli inquirenti Usa hanno raccolto 42 mila documenti. Il via vai di amici e collaboratori nel palazzetto a due passi da Harrods. Il vero rischio ora è il dossier americano e l’incriminazione per spionaggio   

«SONO molto felice: è stata una presa di posizione molto coraggiosa», ha detto Assange parlando via computer con i suoi collaboratori subito dopo aver appreso della decisione dell’Ecuador. Ma la sua gioia è durata poco. «La situazione diventerà ancora più difficile ora», ha spiegato quando le prime reazioni hanno cominciato ad arrivare. Le parole con cui la Gran Bretagna ha ribadito la sua volontà di procedere con l’estradizione in Svezia, dove Assange è accusato di violenza sessuale, hanno ricordato al fondatore di WikiLeaks qual è il vero pericolo che lo attende. Non il processo per stupro, ma la possibilità che Stoccolma possa procedere con l’estradizione verso gli Stati Uniti: qui, da mesi, l’Fbi indaga sulle sue attività. Secondo i sostenitori di WikiLeaks avrebbe raccolto più di 42mila documenti e l’atto di accusa contro Assange sarebbe già stato scritto. L’idea sarebbe quella di spionaggio: un’imputazione che, in caso di condanna, prevede che si possa arrivare alla pena di morte per l’imputato. Che la battaglia non sarebbe finita con il verdetto di ieri, che l’asilo dell’Ecuador non avrebbe risolto tutti i suoi problemi, Assange se lo aspettava. Ma il 19 giugno, quando tutte le altre opzioni si stavano esaurendo e l’estradizione si avvicinava di giorno in giorno, non c’erano molte scelte di fronte a lui: e cercare rifugio nell’ambasciata dell’Ecuador era la più semplice. Il paese sudamericano è uno dei pochi governi che hanno accolto con favore la pubblicazione dei cablogrammi dell’ambasciata americana a Quito. L’immagine che del governo ne usciva ha favorito la retorica anti-americana del presidente Rafael Correa, stretto alleato del venezuelano Hugo Chavez, che della battaglia contro gli Stati Uniti e dell’alleanza con Cuba ha fatto il motivo conduttore della sua politica estera. Correa stesso aveva promesso rifugio ad Assange quando i due si erano parlati direttamente.
Ciò non significa che l’annuncio di ieri non sia stato accolto con gioia: quando è arrivato, Assange era con un gruppo di amici. «Per Julian e per tutti noi è stata una bella giornata – spiega uno dei collaboratori a lui più vicini – c’è voluto del coraggio da parte dell’Ecuador per arrivare a questa decisione nonostante tutte le pressioni degli americani e degli inglesi. Julian lo sa bene: per questo ha ringraziato il personale dell’ambasciata».
La vita dentro il piccolo edificio in queste settimane non è stata facile: Assange ha occupato una stanza fino ad allora destinata ad ufficio e lì ha dormito su un materasso ad acqua. Il via vai di collaboratori ed amici che andavano a trovarlo non si è mai interrotto, creando non poca confusione fra i diplomatici al lavoro. Molti portavano cibo, altre volte vassoi colmi sono stati consegnati direttamente alla porta dell’ambasciata dai fattorini dei ristoranti più “in” della zona. Il lavoro ha
tenuto Assange impegnato: via computer e, raramente, telefono fisso – mai con i cellulari, considerati meno sicuri – ha tenuto le fila dell’organizzazione. Le sue maggiori preoccupazioni sono state quella di trovare un modo per bypassare il blocco imposto al gruppo dalle maggiori banche e carte di credito internazionali, che per mesi ha chiuso i rubinetti dei finanziamenti. E quella di seguire, per quanto possibile, l’inchiesta dell’Fbi.
Per il resto la sua vita è stata piuttosto monotona: il fondatore di WikiLeaks vive agli arresti domiciliari da un anno e mezzo. Ma le poche stanza dell’edificio dell’ambasciata, senza neanche un piccolo giardino, sono tutta altra cosa rispetto alla tenuta di Ellingham Hall, dove ha passato la maggior parte degli ultimi due anni, ospite del giornalista Vaughan Smith. A confortarlo, la vicinanza dei suoi fedelissimi: dopo le uscite dei mesi passati, intorno a lui è rimasto un piccolo ma compattissimo gruppo di uomini e donne. Anche durante quest’ultima fase della sua lunga odissea giudiziaria, forse la più drammatica, nessuno ha suggerito che il destino del fondatore potesse essere scisso da quello della sua creatura, che Assange affrontasse i giudici svedesi per ribadire la sua innocenza e poi riprendesse la guida di WikiLeaks. «Non avremmo mai potuto farlo – conclude il collaboratore – le accuse di stupro sono una scusa. Quale sarà il futuro ora non possiamo dirlo: Julian, e tutti noi con lui, sta combattendo per avere un futuro. Ma una cosa è certa: l’indagine svedese non è che un ingranaggio del meccanismo per arrivare al punto vero della questione, estradarlo negli Stati Uniti ». Da oggi, ancora una volta, fermare questo meccanismo diventa la priorità numero uno per Assange.

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