Rubato il filo spinato dal lager

Un italiano ad Auschwitz: mio padre morì qui

Un italiano ad Auschwitz: mio padre morì qui MILANO — Per cosa si ruba. Per malinconia. Per la stretta improvvisa di una memoria dolorosa. «Ha voluto prendere un ricordo da Auschwitz perché suo padre morì in quel lager», ha spiegato un portavoce della polizia polacca. Parlava di un uomo, 66 anni, italiano, fermato all’aeroporto di Cracovia. Nei bagagli aveva un pezzetto di filo spinato, poco meno di 30 centimetri. L’ha preso, non si sa bene come, durante una visita nel campo di concentramento. Lo hanno scoperto, sabato sera, attraverso le macchine che scannerizzano i bagagli a mano dei passeggeri. Ce ne sono in tutti gli aeroporti, e davanti agli uomini della sicurezza negli scali di tutto il mondo sfilano immagini stilizzate di batterie, pettini, caricatori di cellulari, asciugacapelli. A Cracovia no, nell’antica città polacca ogni tanto si scoprono oggetti che si trascinano il dolore dello sterminio nazista. Il male della storia in valigia, sotto i metal detector. L’anno scorso un cittadino francese aveva preso due pezzi di filo spinato, e ancor prima una coppia israeliana aveva provato a imbarcarsi con alcuni oggetti portati via dal museo dei deportati.

L’italiano è stato trattenuto, sabato, e poi rilasciato, nel tardo pomeriggio di domenica. Secondo alcune fonti si tratterebbe di un pensionato milanese, ma ieri né il consolato di Cracovia, né l’ambasciata italiana di Varsavia hanno confermato il particolare: «La persona ha chiesto il massimo riserbo sulle sue generalità». Un portavoce della polizia, Mariusz Ciarka, ha invece raccontato come si sia svolta l’«istruttoria»: l’italiano «ha mostrato il luogo da cui ha raccolto il pezzo di filo spinato. Ha spiegato che non si trattava di una zona protetta dal museo. Non c’è quindi alcun reato».
La visita ad Auschwitz non è semplice turismo e i furti scoperti all’aeroporto di Cracovia galleggiano in complicate motivazioni interiori. «Scusatemi, ho sbagliato», disse ad esempio al quotidiano israeliano Yediot Ahronot un uomo sessantenne, figlio di un deportato. Rimorso e mortificazione. Era giugno dell’anno scorso e il suo furto lo spiegò così: «Abbiamo visto alcuni oggetti gettati per terra nel museo. C’erano un coltello, una forchetta, un coperchio, in parte bruciati e infangati». Era con sua moglie e pensarono che quegli oggetti andassero ripuliti e salvaguardati con più cura. I pezzi erano nel museo e i coniugi vennero condannati. Trafugamenti di storia. Ognuno con la sua motivazione. La polizia polacca, che è l’unica polizia del mondo a occuparsi con una simile frequenza di questi reati, accetta spiegazioni (come è successo per l’italiano rilasciato domenica), ma è non è disposta alla clemenza per chi va oltre.
Per cosa si ruba: anche per uno sfregio estremo, per una nostalgia deviata e criminale. Auschwitz ha sopportato l’oltraggio peggiore nella notte tra il 17 e il 18 dicembre del 2009. Scomparve la scritta in metallo Arbeit macht frei («Il lavoro rende liberi»), che appariva sull’ingresso principale del lager. Venne ritrovata tre giorni dopo, divisa in pezzi, pronta per essere inviata fuori dalla Polonia. Vennero arrestati in cinque, poi gli investigatori risalirono al mandate: Anders Hoegstroem, ex leader neonazista svedese, poi condannato a due anni e otto mesi di carcere. Istigazione al furto. Da allora la scritta è all’interno del museo.

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