La sua opera libertaria accusata d’eresia e oscenità Q uello che può a buon diritto essere considerato il primo romanzo in senso moderno non ha avuto bisogno di aspettare con pazienza il suo momento. Nel 1534, si contano già otto edizioni del Pantagruel. L’epopea dei giganti, fin dalle prime edizioni, si aprirà con il successivo Gargantua, pubblicato la prima volta nel 1535 o poco prima, e dedicato all’infanzia e alle gesta del padre di Pantagruel.
La sua opera libertaria accusata d’eresia e oscenità Q uello che può a buon diritto essere considerato il primo romanzo in senso moderno non ha avuto bisogno di aspettare con pazienza il suo momento. Nel 1534, si contano già otto edizioni del Pantagruel. L’epopea dei giganti, fin dalle prime edizioni, si aprirà con il successivo Gargantua, pubblicato la prima volta nel 1535 o poco prima, e dedicato all’infanzia e alle gesta del padre di Pantagruel. Si tratta di due libri gemelli, concepiti intorno a un’idea centrale che il prologo del secondo rende esplicita: in ogni opera veramente degna di questo nome, alla scorza o rivestimento esteriore di un senso letterale ed evidente corrisponde una molteplicità di significati riposti, di preziosi insegnamenti di cui solo l’intelligenza dei migliori lettori saprà trarre partito. Bisogna, in ogni caso, «aprire il libro», vale a dire distinguere l’aspetto esteriore del discorso da ciò che vi è nascosto, il «sostanzioso midollo». Ma nel momento stesso in cui Rabelais afferma questo fondamentale principio ermeneutico, così tipico del suo tempo, sottilmente invita i suoi lettori a diffidarne, abbandonandosi al puro piacere del racconto, alla virtù terapeutica del riso che i giganti e i loro amici saranno capaci di suscitare.
L’allegoria di Rabelais, insomma, non è mai un involucro puramente strumentale, al quale si può facilmente rinunciare una volta compiuto il percorso verso il significato nascosto. L’energia del comico scompagina tutte le più prevedibili strategie testuali, comprese — qui sta la massima sorpresa, e il massimo godimento — quelle di cui l’autore stesso intende consapevolmente servirsi. Non sono forse i giochi più belli quelli che, in una certa misura, sfuggono di mano? Suprema medicina di un’umanità governata dalla follia, il riso punta l’indice sulle magagne del mondo, solleva gli innumerevoli veli tessuti dall’ipocrisia, ma proprio nel momento in cui sembra rigettarlo per sempre nella sua nullità, quasi fosse la Maya di un saggio induista, gli conferisce uno spessore e una sostanza mai prima sperimentati in un libro di così alta fattura letteraria.
Nel 1533, un membro della Sorbona inserisce il Pantagruel in una lista di libri accusati di oscenità. È l’inizio di una lunghissima serie di accuse e persecuzioni, che oltre l’oscenità toccheranno il tasto ben più dolente dell’eresia. Ma Rabelais, in questi anni, è finalmente entrato nell’orbita del più importante dei suoi protettori, Jean du Bellay, favorito di Francesco I, grande ambasciatore, uomo di lettere e protettore di letterati, cardinale a partire dal 1535. Si tratta, senza mezzi termini, di uno degli uomini più importanti della sua epoca, segnata dalla complicata vita matrimoniale di Enrico VIII e dal conseguente scisma d’Inghilterra. Nel delicatissimo scacchiere diplomatico, Jean du Bellay svolse un ruolo fondamentale di mediazione tra Enrico, Carlo V e Paolo III, guadagnandosi sul campo, per così dire, il cappello cardinalizio. Forse in qualità di medico, forse di segretario, Rabelais lo segue per la prima volta a Roma nell’inverno del 1534. Assieme ad altri membri della corte del potente ambasciatore, percorre le rovine della Città Eterna progettando una topografia. A Roma tornerà a maggio dell’anno dopo, per restarci fino al maggio del 1536. Tre lettere di questo periodo, indirizzate all’antico protettore Geoffroy d’Estissac, ci mostrano uno straordinario Rabelais «giornalista», capace di afferrare al volo le più elusive dicerie politiche e diplomatiche. Ma il 1535 è l’anno del Gargantua, che ben presto (e fino a oggi, per consuetudine ormai invalsa) inizierà a fare corpo con il Pantagruel precedendolo, come è logico che sia dal punto di vista narrativo, raccontando questo secondo libro le gesta del padre di Pantagruel.
Dal punto di vista astratto della «trama», un riassunto del Gargantua, del Pantagruel e dei successivi tre libri (l’ultimo dei quali postumo e in parte apocrifo) potrebbe essere contenuto in poche righe. Sia di Gargantua che di Pantagruel vengono raccontate la nascita, l’infanzia e l’educazione, che li porta a essere sovrani giusti e generosi. A entrambi tocca affrontare una guerra contro nemici accaniti e pericolosi. Entrambi si circondano di una piccola corte di compagni d’avventura — primo fra tutti, per importanza, è Panurge, incontrato da Pantagruel durante i suoi studi a Parigi. Nei suoi pregi e nei suoi difetti, Panurge è l’incarnazione totale dello spirito comico di Rabelais, e del suo senso dell’umano. È scaltro e ingegnoso, avido di piaceri, capace di cavarsi dai peggiori impicci ma anche di coltivare ossessioni e paure che lo rendono del tutto incapace di ragionare. È lui il protagonista del Terzo libro, apparso nel 1546. Indeciso tra il matrimonio e il celibato, Panurge interroga un’indovina, un poeta, un mago, un medico, un filosofo, in un crescendo di episodi comici e assurdi dal quale non potrà che derivare un’unica conclusione, ovvero che «tutto è follia».
E la follia è anche il motore narrativo che fa proseguire la saga, poiché è il pazzo Triboulet che consiglia Panurge di andare a consultare l’oracolo della Divina Bottiglia, l’unico in grado di dirgli se farà bene o no a sposarsi. Al lunghissimo viaggio per mare in cerca dell’isola della Divina Bottiglia sono dedicati sia il Quarto che il Quinto libro, apparsi rispettivamente nel 1552 e nel 1564. Ed è la struttura del viaggio, con la sua infinita apertura sul possibile, quella che sembra perfettamente adeguata all’arte narrativa e allo spirito satirico di Rabelais nella fase più matura del suo sviluppo. In ogni isola visitata da Pantagruel e dal suo equipaggio, un nuovo aspetto della follia del mondo viene affrontato fino alle sue estreme conseguenze, tali da trasformarlo in un prodigio o in un paradosso, suscitatori di un riso salutifero e liberatorio.
«Trinch!», ovvero «bevi!» è l’agognato oracolo della Divina Bottiglia. Il cosiddetto «pantagruelismo» non è un rimedio alle storture del mondo, e nemmeno una chiave capace di rivelarne i segreti per possederlo e governarne il corso. L’atteggiamento morale che Rabelais esige dai suoi lettori è quello di chi, invece di adeguare l’infinita e ingovernabile varietà delle cose umane a un ordine di valori prestabilito, accetta di essere parte di questo incessante e universale movimento. Questo significa l’invito a berci sopra, una volta compreso che nessuna formula umana potrà garantire il possesso di una verità ultima, esente da ulteriori discussioni. In altre parole, nessuno potrà dire a Panurge se sarà meglio, per lui, sposarsi o no. Il fatto che molti possono consigliarci e nessuno garantirci un consiglio infallibile potrà essere frustrante, ma è la garanzia della nostra unicità di individui, della nostra preziosa irriducibilità a un modello astratto. Proprio perché è un uomo, nel senso più nobile e insieme più buffo della parola, Panurge non sa che pesci pigliare, non sa se il suo desiderio lo consigli per il meglio o lo stia turlupinando. Alla fine, l’ammonimento più sensato, la regola di vita più efficace da opporre all’insensatezza di tutte le regole è il «Fa’ ciò che vorrai» inciso sulla porta dell’Abbazia di Thélème, fondata da Gargantua al termine della guerra vittoriosa contro il malvagio e stupido re Picrochole, caricatura di Carlo V e di ogni futuro tiranno destinato ad affliggere la storia dell’umanità.
A differenza di tutte le Utopie del Rinascimento, da Tommaso Moro fino a Campanella, troppo consacrate all’esercizio delle virtù civiche e familiari per indurre in qualcuno la voglia di viverci davvero, l’Abbazia di Thélème è forse il luogo più desiderabile dell’intera storia della letteratura.
Meravigliosamente vestiti, nutriti di cibi raffinatissimi, cullati da ogni forma di diletto dei sensi e della mente, e soprattutto liberi da leggi, regole, statuti, gli uomini e le donne che vivono nell’Abbazia non possono che tendere a una vita «onesta e libera». Basta che uno solo dei membri di questa comunità perfetta esprima un desiderio, e tutti gli altri spontaneamente lo seguono, come se quel desiderio fosse il loro. E questa «lodevole emulazione», scrive Rabelais, è il più prezioso frutto della libertà. È la forma suprema dell’empatia, quella che ci viene descritta in questa pagina indimenticabile: fondata sul piacere, crea la forma di comunità umana più armoniosa e accogliente che si possa immaginare. Non c’è individuo che non abbia almeno un desiderio da mettere in comune con i suoi simili. E in questa circolazione, che rompe la gabbia dell’Io e della sua malvagia solitudine, Rabelais ha rappresentato il più alto ideale umano e morale a cui la sua epoca tutta intera potesse pervenire.
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