Così quella trattativa oscura tra mafia e pezzi dello Stato finisce nelle telefonate al Colle

Nuovo scontro sul caso a 20 anni dalle stragi

SONO passati vent’anni e in molti fanno ancora finta di niente. Sono passati vent’anni da quando Paolo Borsellino è saltato in aria e in troppi si voltano sempre dall’altra parte. 

Nuovo scontro sul caso a 20 anni dalle stragi

SONO passati vent’anni e in molti fanno ancora finta di niente. Sono passati vent’anni da quando Paolo Borsellino è saltato in aria e in troppi si voltano sempre dall’altra parte. 
VENT’ANNI: 19 luglio 1992 e 19 luglio 2012, tutto è come prima, tutto è indicibile in questa Italia che celebra pomposamente i suoi eroi ma non vuole mai scoprire la verità.
La storia della trattativa fra i Corleonesi e pezzi delle istituzioni è tutta qua, una storia da dimenticare, da seppellire, da cancellare per sempre. E ogni volta che qualcuno la fa riemergere, ci sono sempre tentativi di indagati eccellenti per depotenziare un’indagine o addirittura strapparla ai legittimi titolari. Se rileggiamo quelle telefonate fra un sospettato di avere cercato il patto con la mafia e un altissimo funzionario di Stato, se riascoltiamo quelle conversazioni fra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, c’è poco spazio per commenti o interpretazioni: sono loro stessi che ci spiegano tutto su ciò che stavano facendo per allontanare l’ex ministro dall’inchiesta di Palermo, sono loro stessi che ci fanno capire ogni dettaglio con le loro parole.
L’attenzione di questi ultimi giorni e di queste ultimissime ore si è spostata su quelle altre telefonate – due in particolare – fra l’indagato «per falsa testimonianza» Mancino e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano («Occasionali, imprevedibili e irrilevanti sotto il profilo penale », hanno chiarito i procuratori siciliani), ma sono le prime e solo quelle – delle quali più nessuno parla – che ci trasportano nel mistero della trattativa, che ci raccontano come Mancino si senta in qualche modo abbandonato per essere diventato oggetto di un’inchiesta e chieda protezione, e come il consigliere D’Ambrosio gli suggerisca la strada giusta per tirarsi fuori dalla sabbie mobili dove è sprofondato con i suoi silenzi. Prima di ritornare però su quelle telefonate, facciamo un passo indietro e ricordiamo come e quando è nata la trattativa, un patto che non ha cercato la mafia ma che ha cercato lo Stato italiano.
Sempre vent’anni fa, il 12 marzo. A Palermo uccidono Salvo Lima, il potentissimo proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. E’ considerato un «traditore», i Corleonesi l’ammazzano perché non è riuscito a farli assolvere al maxi processo. E’ il momento della paura. Ci sono uomini politici che si spaventano, hanno paura di fare la stessa fine di Salvo Lima. E attraverso alcuni reparti investigativi cercano un «contatto» con la mafia per trovare un accordo. Secondo questa ricostruzione – che è raccolta in migliaia di pagine della procura di Palermo – ministri del tempo come il siciliano Calogero Mannino si muovono per una tregua. E’ l’inizio della trattativa. Ma finisce subito male. Il 23 maggio c’è Capaci, l’uccisione di Falcone. Il 19 luglio c’è via D’Amelio, tocca a Paolo Borsellino. Poi le bombe «italiane» di Firenze, Roma e Milano. Durante quei mesi in molti continuano a trattare con la mafia per fermare le stragi. Promettono e concedono un alleggerimento del 41 bis, il carcere duro. Riescono a mettersi d’accordo per catturare Totò Riina, che è in qualche modo «consegnato » da Bernardo Provenzano in cambio di una tranquilla latitanza. Discutono di legge sui pentiti, promettono ancora. In questo «gioco» sono coinvolti ufficiali dei carabinieri del Ros e l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, ministri della Repubblica. In tanti sono al corrente di incontri con i mafiosi ma stanno zitti. Ritrovano la memoria dopo quasi 20 anni. Qualcun altro invece la memoria non la ritroverà mai. Secondo i magistrati, uno di questi è proprio Mancino. Viene ascoltato un paio di volte dai pm e nega, nega sempre ogni suo coinvolgimento in qualsiasi trattativa. Finisce dritto al centro delle indagini.
E’ a quel punto che comincia a telefonare al Quirinale. La Dia intercetta. L’ex ministro dell’Interno chiama, il consigliere giuridico del Presidente risponde. Sempre. Il pretesto è un «mancato coordinamento» dell’inchiesta fra i pm di Palermo e quelli di Caltanissetta e di Firenze, è quella la leva – nei propositi di Mancino per “togliere” l’indagine a Palermo.
Sono telefonate che vanno dal 25 novembre del 2011 al 5 aprile del 2012. In più di un’occasione Loris D’Ambrosio fa il nome di Napolitano, spende il nome del Capo dello Stato. «.. Io ho parlato col Presidente e ho parlato anche con Grasso», gli comunica un giorno a Mancino. Gli dice: «Ma noi non vediamo molti spazi purtroppo, perché non…, adesso probabilmente il Presidente parlerà con Grasso nuovamente… vediamo un attimo anche di vedere con Esposito… (il procuratore generale della Cassazione, ndr).. qualche cosa… ma non… la vediamo insomma difficile la cosa ecco.. (..)..Dopo aver parlato col Presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’… lo vedrò nei prossimi giorni. Però, lui, oggi mi ha detto: ma sai, io non posso intervenire. Capito, quindi, mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il Presidente parlava di… come la Procura nazionale sta dentro la Procura generale, di vedere un secondo con Esposito».
Il consigliere giuridico del Quirinale parla molto al telefono e fa sempre riferimento al Presidente, accenna alla ferma decisione del procuratore nazionale Pietro Grasso di non intromettersi nell’inchiesta palermitana, spiega che solo il procuratore generale della Cassazione potrebbe in qualche modo intervenire scavalcando lo stesso Grasso. L’ex ministro è molto agitato, teme di essere incriminato dai pm di Palermo per la trattativa fra Stato e mafia.
Il consigliere giuridico del Quirinale gli comunica un giorno che il segretario generale della Presidenza della Repubblica Vincenzo Marra ha inviato una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa». E dice a Mancino: «…Per cui in realtà quello che adesso uscirà, se esce, esce la lettera del Presidente, esce la lettera di Marra a nome del Presidente. E cioè che gli dice: dovete coordinarvi, tu Grasso, cioè fai il lavoro tuo ecco».
E’ il 19 aprile di quest’anno quando il nuovo procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani convoca Grasso sulla questione del coordinamento sollevata da Mancino e condivisa da D’Ambrosio. Il procuratore Grasso ribadisce la sua posizione: il coordinamento fra quelle procure c’è già. Non ci sono gli estremi per avocare l’inchiesta come sperava anche un consigliere del presidente.

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