Ora il presidente Napolitano deve chiedere scusa a nome di tutte le istituzioni alle vittime della Diaz, di Bolzaneto, a tutti i cittadini italiani; deve chiedere scusa per le violenze commesse da rappresentanti dello stato, per il vergognoso silenzio mantenuto per undici anni dalle istituzioni, per aver promosso coloro che erano stati condannati per fatti gravissimi.
Ora il presidente Napolitano deve chiedere scusa a nome di tutte le istituzioni alle vittime della Diaz, di Bolzaneto, a tutti i cittadini italiani; deve chiedere scusa per le violenze commesse da rappresentanti dello stato, per il vergognoso silenzio mantenuto per undici anni dalle istituzioni, per aver promosso coloro che erano stati condannati per fatti gravissimi.
Napolitano lo deve fare anche per il rispetto verso il pubblico ministero Enrico Zucca, verso quei cinque giudici che emettendo la sentenza hanno certamente «semplicemente» compiuto il loro dovere, ma un dovere reso difficilissimo dai ricatti di ogni genere che sono scattati in queste settimane. «Se confermate le condanne decapitate le istituzioni di sicurezza del nostro paese», si sono sentiti ripetere incessantemente da chi con forza ha lavorato perché la ragione di Stato prevalesse sul diritto. Con la loro decisione i giudici hanno liberato le istituzioni da chi le occupava indegnamente, con la complicità dell’insieme del mondo politico.
Ed è bene non dimenticarsi delle responsabilità politiche, sia di chi in quelle ore si trovava immotivatamente nella caserma centrale dei carabinieri, sia di chi ha tentato in ogni modo di coprire i reati, sia di chi ha reso impossibile la formazione di una commissione d’inchiesta. Ed è bene ricordare che le responsabilità non sono tutte solo del centrodestra. La sentenza di oggi è stata possibile perché per ora in questo paese vi è ancora, seppure limitata e ferita, l’autonomia dei diversi poteri, a cominciare dall’indipendenza della magistratura dal potere politico. Oggi comprendiamo meglio quali rischi abbiamo corso recentemente, rischi mai del tutto superati, con il tentativo di modificare l’ordine costituzionale.
Tutti i condannati devono ora lasciare il loro posto; è vero, il numero uno, quello che allora era il capo della polizia, Gianni De Gennaro, non è stato condannato. Non era imputato in questo processo: ma sono stati condannati tutti i suoi più stetti collaboratori, coloro che da lui prendevano ordini e che a lui rispondevano. La sua responsabilità sia sul piano etico che professionale è fuori discussione. Deve immediatamente essere rimosso dall’incarico di sottosegretario con delega ai servizi segreti.
Non possiamo però dimenticare che la stragrande maggioranza degli autori delle violenze alla Diaz non sono stati individuati: avevano il volto coperto dal fazzoletto e dal casco. Alcune centinaia di poliziotti hanno agito contemporaneamente al di fuori e contro la legge. Questo è un enorme segno di allarme; va rilanciata la campagna per l’inserimento sulle divise dei codici di riconoscimento, vanno ridiscusse le modalità di formazione, va modificato il reclutamento dei poliziotti che oggi avviene soprattutto tra chi ha svolto anni di servizio militare in scenari di guerra: non è un caso che poi si pensi di gestire l’ordine pubblico come in guerra. E’ necessario tornare alle origini della lotta condotta negli anni ’70 e ’80 per un sindacato democratico nella polizia.
Oggi, per una volta, il diritto, la legalità hanno vinto contro la ragione di stato. Questa sentenza parla anche a noi, a coloro che in questi anni si sono battuti per ottenere verità e giustizia, a coloro che, anche a sinistra, hanno preferito voltare la testa dall’altra parte pensando che fosse possibile continuare nelle proprie attività sociali e politiche rimuovendo quanto avvenuto in quelle giornate.
Ora abbiamo il dovere di riprendere insieme, perché questa era la nostra forza principale, il filo interrotto allora. Insieme a coloro che a Genova non c’erano, anche per ragione anagrafica, ma che oggi stanno sperimentando sulla propria pelle proprio le conseguenze di quel sistema che noi a Genova, undici anni fa, volevamo completamente cambiare.
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