Un’alternativa senza lampadieri

SAGGI Fausto Bertinotti e Dario Danti rileggono «Le occasioni mancate»

SAGGI Fausto Bertinotti e Dario Danti rileggono «Le occasioni mancate»
Dalla svolta dell’Ottantanove al dialogo interrotto con i movimenti sociali. Prove tecniche di una soluzione alla crisi della sinistra Le occasioni mancate del Pci, di Rifondazione, del movimento, le occasioni mancate della sinistra. Nell’impegnativo pellegrinaggio si misura Le Occasioni mancate (edizioni ETS, pp. 192, euro 10) di Fausto Bertinotti e Dario Danti, un libro complesso sulle questioni che ci portiamo dietro, in parte direi sempre le stesse (a cominciare dalla più antica: la guerra), in parte nuove perché l’ultima ospite del viaggio è la post-democrazia con l’abito nuovo della rivolta.
Il libro è un coro a tre voci. Quella narrante, di Dario Danti, interroga i fatti, facendoli correre sul doppio binario: complessità dei contesti storico-culturali e riflessione soggettiva. Punti d’appoggio per i tre dialoghi con Fausto Bertinotti. Le foto di Tano D’Amico legano le tappe delle occasioni mancate con il filo della violenza in divisa contrapposta alla non violenza del movimento che ha sempre il volto dei ragazzi, fino alla foto conclusiva dove, invece, siamo alla manifestazione di Roma del 15 ottobre, la violenza è generale, viene anche dal movimento, con blocchi neri dentro la manifestazione.
La prima occasione mancata ci riporta al 1991, alle conseguenze italiane post ’89. Mi pare interessante il passaggio sulla spaccatura tra partito e popolo di sinistra che Bertinotti origina per il Pci in un periodo indefinito comunque molto precedente la svolta di Occhetto. C’è l’occasione mancata all’inizio degli anni ’60, nella difficoltà di capire la società dei consumi, l’occasione mancata dell’XI congresso quando vengono sconfitte le tesi eretiche dell’ingraismo con il gruppo del futuro Manifesto, occasione mancata conclamata con la primavera di Praga, quando nasce la rivista, il manifesto, con il titolo «Praga è sola» e poi il quotidiano comunista.
Perdere senza snaturarsi
Ma qual è il tarlo che consuma dall’interno il movimento operaio più forte dell’Occidente? Il tarlo si chiama, sintetizzo spero non troppo, «voglia di vincere». Progressivamente, sostiene Bertinotti, si accetta la tesi per cui la vittoria ha un valore in sé e la sconfitta è un disvalore. Ma a che prezzo si vince una guerra (in Iraq o in Libia), a che prezzo si arriva al governo? Giusto chiederselo, ma non sarebbe vano se, mentre si vola nei cieli della strategia, lo sguardo si volgesse alla palude della corruzione, snodo antropologico cruciale a proposito di voglia di vincere, e oggi, nella condizione in cui siamo, sempre più fattore di decomposizione di sistema (sinistra ovviamente compresa).
Citando Marx, tornato d’attualità sulle onde della crisi, è azzeccato il ragionamento di Bertinotti sul marxiano «pensiero dominante come pensiero delle classi dominanti», capace di contaminare anche gli oppositori in evidente stato di debolezza e soggezione culturale. È un nodo molto complesso, ma è il punto di analisi per capire come stiamo messi oggi, dopo vent’anni di contaminazione liberista e populista. La sinistra tutta, moderata e radicale, ha oscillato tra due estremi ugualmente nefasti: negli anni ’50 e ’60 lo scandaloso rock n’ roll non entrava nei luoghi di ritrovo dei lavoratori; negli anni ’70 c’era il vade retro contro la tv a colori, ed era ieri il tempo dei parvenu dell’egemonia sottoculturale berlusconiana.
Bertinotti fa spesso riferimento al pensiero di Walter Benjamin, alla «rammemorazione», che non è appunto solo memoria, ma esplorazione delle ragioni dei vinti, accettazione della sconfitta, il dire «meglio perdere che snaturarsi». Ma così forse si evita la risposta alla domanda vera della svolta occhettiana: comunismo sì o no? Anche perché una risposta c’è stata con la scissione e la nascita di Sel (sinistra, ecologia e libertà) quando Nichi Vendola propone un superamento dell’orizzonte ideologico comunista sgonfiando il paracadute delle due sinistre. Oggi le liste civiche (il laboratorio di Alba, la forza elettorale dei sindaci) battono sullo stesso terreno, affrontano la questione della forma partito alla radice, rifutando l’organizzazione leninista, l’avanguardia che indica la strada e alla fine rischia di parlare solo a se stessa. Il libro ricorda la metafora di Tom Benetollo, storico presidente dell’Arci: «In questa notte scura qualcuno di noi è come quei lampadieri che, camminando innanzi, tengono la pertica rivolta all’indietro, appoggiata alla spalla con il lume in cima. Così il lampadiere vede poco davanti a se ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri». Chi sono i lampadieri di oggi? Alla vivace assemblea della Fiom con Bersani, Vendola, Di Pietro e Ferrero, un intellettuale comunista come Mario Tronti ammoniva a fare attenzione, perché se dietro l’avanguardia Fiom non seguisse poi il grosso dell’esercito, se non ci si misurasse con la prova del governo (naturalmente per Tronti senza snaturarsi, anzi riportando il lavoro nell’economia e l’economia nella politica), si resterebbe testimoni perdenti.
Seconda occasione mancata: 2001, Genova, 11 settembre. Ma qui Danti devia improvvisamente sul delitto di Novi Ligure, la strage di Erika e Omar. È il tema della violenza individuale e primordiale, dell’uomo che «di tutte le cose tremende è la più tremenda», come scrive Luigi Pintor, sul manifesto citando Sofocle. Viatico per la violenza poliziesca inedita di Genova, per riflettere sul perché quel movimento non produce un ripensamento della sinistra moderata che resta sempre dentro la gabbia della compatibilità economica. E questo è chiaro. Ma, alla fine, perde anche la sinistra radicale perché Rifondazione non si scioglie, non tenta l’osmosi con il movimento, non si sviluppa un processo capace di rigenerare tutta la sinistra. Bertinotti scrive che avrebbe dovuto sciogliere il partito, ma non è chiaro se quello di oggi è un ripensamento o un rimpianto.
Arriviamo al 2011, quando ancora scotta il disastro del 2008, Berlusconi è al governo e la sinistra Arcobaleno è fuori dal parlamento proprio mentre in Italia inizia una stragione straordinaria di movimenti di protesta che non trova più sponde politico-parlamentari. Le cause della crisi economica sembrano disporsi quasi naturalmente lungo la linea del pensiero critico, ma la politica, le istituzioni, i partiti non raccolgono, non traducono in atti conseguenti, non danno risposte in sintonia con quel che chiede una parte sempre più larga della società indignata. Neppure 27 milioni di persone che resuscitano il referendum bastano a suggerire un cambiamento nei contenuti e nelle forme della partecipazione democratica: l’autoreferenzialità dei partiti è totale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Un po’ come il Quirinale che non sente il grande botto elettorale del Movimento 5 Stelle.
Una democrazia esangue
La protesta, diffusa e tumultuosa, mette il dito nella piaga della democrazia esangue. Diventa consueta la citazione degli anni ’30. Suggeriscono gli autori: non potendo più colonizzare altri mondi, il capitalismo finanziario si rivolge contro il suo territorio. Si rompe il compromesso dei trent’anni gloriosi tra capitalismo e movimento operaio. Il capitalismo è il padrone assoluto del campo, ma se nel 2001 era al massimo splendore, nel 2011 la globalizzazione è in crisi, e l’altra differenza di fondo segnala una politica non più interlocutrice, «la politica istituzionale non ha alternative nel suo corpo», questa la tesi del libro. Ormai siamo nella generazione di internet senza bisogno di leader, la comunicazione è orizzontale, la forma è il contenuto. Un endorsement per Grillo? Domanda: se in Italia, siamo allo scontro con due soli attori in campo, politica e antipolitica, se quelle a cui andiamo incontro sono elezioni contro la casta dei politici da sostituire con la casta dei tecnici, la proposta di liste civiche o di una lista civica nazionale, embrione di una coalizione radicale, è la risposta?

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