Sentenza storica: l’ex generale Videla condannato a 50 anni di carcere
Sentenza storica: l’ex generale Videla condannato a 50 anni di carcere L’uomo che per 32 anni s’è finto suo padre da bambino gli raccontava delle storie: «Quando prendevamo le terroriste, sosteneva, ingoiavano pillole di cianuro per suicidarsi. Le guerrigliere incinte, gli ho sentito ripetere tante volte, usavano i figli che avevano in pancia come scudi umani». Invenzioni. Non per addormentare: per prolungare l’incubo. «Ero il suo bottino di guerra — dice ora, quasi urla al telefono, Francisco Madariaga Quintela —, non m’aveva rubato per crescermi con amore, ma per perpetuare la violenza, fisica e psicologica. Era un piano».
L’ha stabilito ieri anche una corte di Buenos Aires (nella notte in Italia), tre decadi dopo la fine della dittatura (1976-83), pronunciando una sentenza che è un pezzo di Storia argentina. Lacrime, e poi applausi, festa, musica davanti al maxischermo che trasmetteva dal tribunale in diretta. Condannato a cinquant’anni di reclusione, come aveva chiesto l’accusa, il capo della prima giunta militare, il volto più duro e celebre del regime, Jorge Videla, adesso vecchio e incerto nel banco degli imputati, accanto all’ex generale Reynaldo Benito Bignone (15 anni). Alla sbarra altri sette repressori del calibro del «Tigre» Acosta (30 anni) e di Antonio Vañek (40). Insieme ai genitori che raccontavano le favole dell’orrore: l’ufficiale dell’esercito Victor Gallo (15 anni) e sua moglie Susana (5). L’ultima a parlare in aula: «Per me è stato un inferno. Francisco figlio di un desaparecido? Io non lo sapevo…».
Una cricca di ladri di bambini, portata a giudizio per 35 casi su 500 neonati che mancano all’appello, rapiti dopo il parto all’Esma, all’Automotores Orletti, all’Olimpo o in altri centri clandestini di tortura e morte. Affidati a famiglie vicine al regime. Non vittime isolate, ha confermato il giudice, ma cavie di un esperimento preciso e perverso: estirpare il germe dell’opposizione; far scomparire i genitori, «correggere» il Dna dei figli educandoli al nazionalismo, alla forza militare, all’economia dei latifondi e dei grandi capitali. «Piano sistematico di appropriazione di minori», lo chiamano.
Francisco risponde dalla Casa delle Abuelas de Plaza de Mayo. «Sì, sono anche io un nipote ritrovato». Il numero 101, sui 105 finora riabbracciati dai nonni. La sua vicenda ne contiene molte altre: «Ho vissuto 32 anni di angoscia e maltrattamenti, ero come un fantasma, con un vuoto dentro che non si può spiegare». Finché due anni fa si è rivolto alla Banca nazionale dei dati genetici che raccoglie il Dna dei familiari dei desaparecidos (quel codice che i militari volevano sanare), ha fatto il test e ha scoperto di essere un altro: «Avere la propria identità è la cosa più bella. E io sono stato anche fortunato: sono tra i pochi ad avere il padre in vita», Abel Madariaga, ora segretario delle Abuelas, rifugiatosi all’estero durante la dittatura. «È meraviglioso averlo trovato, e potergli chiedere di mia madre», Silvia Quintela, sequestrata dagli squadroni nel ’77 incinta di quattro mesi, tenuta in vita fino al parto al Campo di Mayo, «eliminata» nel Río de la Plata con un «volo della morte».
Sapere la verità, andare avanti. «Con mio padre non ci siamo mai detti “avremmo potuto incontrarci prima”. Abbiamo deciso di ripartire dal momento in cui ci siamo riabbracciati, guardando oltre».
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