Diaz, decapitati i vertici della Polizia la Cassazione conferma le condanne

“Ora dovranno lasciare l’incarico” Mentirono e calunniarono sulla notte delle violenze al G8    

“Ora dovranno lasciare l’incarico” Mentirono e calunniarono sulla notte delle violenze al G8     E FORSE ne chiude per sempre una pagina di storia. Perché in quel verdetto è la conferma per intero, in fatto, in diritto e nella determinazione delle pene, delle condanne pronunciate sui fatti della Diaz dalla Corte di appello di Genova il 18 maggio del 2010 nei confronti di 25 tra agenti, funzionari e dirigenti. Piangono gli avvocati di parte civile. Piange l’anziano Arnaldo Cestaro, il vecchio con la quinta elementare che non venne risparmiato dalla furia dei tonfa e ora, aggrappato a una sedia di legno dell’aula come un naufrago alla zattera, ha solo la forza di dire «dopo 11 anni da suddito torno ad essere un cittadino». Piangono alcuni degli avvocati delle difese, che non hanno la forza di avvicinare il cellulare all’orecchio per comunicare con gli imputati che, assenti, aspettano. Osserva impassibile e composto Pietro Gaeta, il sostituto procuratore generale, che questo processo ha difeso con appassionato rigore e infine vinto.

UNA VERITÀ DEFINITIVA
La verità giudiziaria su quella notte è dunque definitiva. Il 21 luglio del 2001, a Genova, nel «plesso Diaz-Pertini», gli uomini della Polizia di Stato violarono due volte il giuramento di fedeltà alla Costituzione. Prima abbandonandosi a violenze indicibili su 93 donne e uomini inermi ospiti della scuola. Poi, costruendo consapevolmente sul loro conto la calunnia che, accusandoli da innocenti quali erano, avrebbe dovuto dissimulare le responsabilità dello scempio. E questo, accreditando una «resistenza» che non c’era mai stata con prove farlocche. Una coppia di bottiglie molotov, manici di piccone raccolti alla rinfusa in un cantiere non lontano, intelaiature in alluminio sfilate dalle armature degli zaini di chi in quella scuola voleva solo dormire. Una doppia violenza. «Premeditata all’istante». Nelle more di una notte maledetta in cui non una sola norma venne osservata.
IL PREZZO DELLA CONDANNA
La Cassazione dice ora che non ci furono innocenti, quella notte. Non lo fu il «braccio» che consumò le violenze, non lo fu la testa che, a posteriori, cercò di coprirle. Ma il conto definitivo – in una singolare nemesi governata dalla prescrizione – lo paga solo la testa. Dei tredici imputati del VII Nucleo speciale della Celere, nove (l’allora vicecomandante Michelangelo Fournier e i capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri, Vincenzo Compagnone) vedono estinto il reato di lesioni per «intervenuta prescrizione » e dunque dissolte le condanne di secondo grado (Fournier era già prescritto) e le pene detentive e accessorie ricevute in primo e secondo grado. Pagano solo in tre. Vincenzo Canterini, che quel Nucleo comandava, vede ridotta la pena da 5 a 3 anni e 6 mesi, per il solo reato “superstite”: il falso aggravato. Lo stesso che condanna gli agenti Massimo Nucera e Maurizio Panzieri responsabili della messa in scena di un’aggressione mai avvenuta con un coltello che si voleva vibrato contro un corpetto di protezione antisommossa (3 anni e 5 mesi). Canterini, che ha lasciato la Polizia e si divide oggi tra l’Italia e santo Domingo, non sconterà né la pena detentiva (coperta pressoché per intero dall’indulto di 3 anni fa), né quella accessoria dell’interdizione. Al contrario, Nucera e Panzieri, che pure non affronteranno il carcere, da ieri sono «interdetti » e dunque fuori dalla Polizia. Come l’uomo delle molotov: l’enigmatico agente Pietro Troiani, che in 11 anni, si è rifiutato di indicare se e da chi ricevette l’ordine di introdurre nel cortile della scuola quei due ordigni sequestrati altrove e custoditi nel bagagliaio di un Land Rover.
DECAPITATA L’ANTICRIMINE
Ma, appunto, è la “Testa” a pagare per tutti. Francesco Gratteri, direttore della Direzione Centrale Anticrimine (4 anni), Gilberto Caldarozzi, direttore del “Servizio Centrale Operativo” (3 anni e 8 mesi), Giovanni Luperi, capo della direzione analisi dell’Aisi, il Servizio Interno, e con loro quelli che, quella notte del 2001, erano giovani funzionari e oggi dirigono importanti squadre Mobili (Filippo Ferri e Fabio Ciccimarra) o sono diventati questori (Spartaco Mortola). Da ieri sera, la condanna alla pena accessoria di 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e a quel che resta, tolti i 3 anni di indulto, della pena detentiva (per la quale verosimilmente le difese chiederanno la sospensione o la sostituzione con l’affidamento in prova ai servizi sociali) li colloca fuori dalla Polizia. Di cui – è senz’altro il caso di Gratteri, Caldarozzi, Luperi – sono e sono stati la spina dorsale, l’eccellenza investigativa.
SENZA DISTINGUO
Il destino di questi «uomini dello Stato», per altro assolti in primo grado, giustamente e legittimamente celebrati e apprezzati in questi anni per la cattura di Provenzano, piuttosto che per le indagini sulle nuove Br e la strage di Brindisi, erano la vera posta in gioco di questo processo. L’elemento simbolico capace di dare sostanza o, al contrario, svuotare del tutto il senso e il significato di quella notte e di una vicenda processuale durata 11 anni. In queste settimane, per una ragione legata al lungo rinvio tra la discussione del processo e la camera di consiglio (20 giorni) si era avuta la percezione che troppo era il “carico” sulla Corte per non consigliarle una decisione “articolata”. Dei “distinguo”, insomma. Che rimodulassero le responsabilità di questi uomini in ragione di ciò che fecero o non fecero quella notte. Della circostanza di aver firmato (è il caso di Caldarozzi) o non firmato (Gratteri e Luperi) i falsi verbali di sequestro e arresto che calunniavano i 93 della Diaz. Ebbene, la quinta sezione penale della Cassazione ha deciso – come le aveva chiesto il pg Gaeta che non ci fosse spazio né per i distinguo, né per un azzeramento delle responsabilità della catena di comando. Di più, che la severità nei loro confronti imponesse non solo la conferma della condanna di appello, ma anche il rifiuto di riconoscere a questi imputati le attenuanti generiche (come pure avevano chiesto i loro avvocati ricordando i “crediti” che nei confronti dello Stato questi uomini hanno accumulato nel tempo) che avrebbero fatto scattare nei loro confronti la prescrizione del reato di falso. Insomma, il tradimento del falso e della calunnia, nel giudizio della Corte, ha finito per avere un peso persino maggiore, perché più odioso, della violenza fisica sugli inermi.
UGUALI DAVANTI ALLA LEGGE
Ezio Menzione, legale di parte civile, usa parole intelligenti e meditate che afferrano il cuore di quest’esito. «Questa sentenza non ci sarebbe stata – dice – se questo Paese non avesse conosciuto i casi Cucchi e Aldrovandi. Se la cultura giuridica e non solo di questo Paese, non fosse cresciuta nella consapevolezza che il principio di uguaglianza davanti alla legge non è e non deve essere una chimera quando imputati sono degli uomini e dei servitori dello Stato che hanno sbagliato». Che, insomma, il monopolio della forza riconosciuto allo Stato ha il suo imprescindibile reciproco nella forza del rispetto delle leggi, perché ne va della nostra convivenza. È il punto cruciale su cui, da ieri sera, fa i conti il vertice del Dipartimento di Pubblica sicurezza e tutta la Polizia. Attraversata in queste ore da umori cattivi. Dall’idea che non meriti di essere punito «in questo modo» chi allo Stato «ha dato la sua vita». Che, oggi, paghino «solo alcuni» di una catena di comando inspiegabilmente monca. E, per giunta, paghino più di un qualsiasi colletto bianco. Di quelli che, in questi 11 anni, lo Stato e il Paese lo hanno depredato. Come se, insomma, l’inflessibilità avesse trovato l’occasione sbagliata per manifestarsi. Ma alla fine hanno avuto e hanno ragione le parole del pg Gaeta: «In quest’aula si processano i presenti. Si processano i fatti della Diaz. Nient’altro». E così è stato.

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