Dai narcos alle letture di poesia Medellà­n cambia pelle

Rinascita della città  colombiana e forza dell’arte Medellà­n, una citta che fino a qualche anno fa era considerata infrequentabile per i continui sequestri di persona, per l’altissimo livello di violenza cittadina, per le rapine, gli agguati. Ora l’atmosfera è cambiata, dicono qui, da quando Bush, che per avere facile accesso al petrolio, favoriva il governo precedente tenuto in piedi da una corrotta e temibile forza paramilitare, è stato sostituito da Barack Obama.

Rinascita della città  colombiana e forza dell’arte Medellà­n, una citta che fino a qualche anno fa era considerata infrequentabile per i continui sequestri di persona, per l’altissimo livello di violenza cittadina, per le rapine, gli agguati. Ora l’atmosfera è cambiata, dicono qui, da quando Bush, che per avere facile accesso al petrolio, favoriva il governo precedente tenuto in piedi da una corrotta e temibile forza paramilitare, è stato sostituito da Barack Obama.
Una bella città colombiana: ricca di materie prime, ricca di musei, di talenti, bene organizzata dal punto di vista dell’educazione pubblica e della salute, ma anche poverissima e violenta. Il centro, pieno di grattacieli che sfidano il cielo sempre carico di nuvole grasse e pesanti di pioggia, è circondato da una valanga di casupole miserabili che gravano sulla città, come a ricordarle che qualcosa non va nella sua corsa al benessere. Troppi sono quelli che rimangono esclusi.
La notte, quando i grattacieli si fanno sagome scure contro l’orizzonte, le periferie delle baracche si accendono di mille luci che baluginano nel buio, creando una visione onirica, un miraggio splendente. Ma un miraggio non consolatorio bensì carico di allarme sociale.
Eppure i cittadini di Medellín sono appassionati di teatro e di poesia. Si rimane stupiti nell’assistere al successo popolare di un Festival internazionale letterario che appassiona tutta la città. Ascoltare un giovane poeta africano aspettando il turno per leggere a mia volta davanti a un pubblico di duemila persone in un enorme anfiteatro all’aperto, provoca una certa stupefazione.
Ma quando è che la poesia diventa popolare? L’australiano Philip Hammial è arrivato a sostenere, provocatoriamente, che in Paesi dove c’è libertà di parola e di pensiero la poesia si fa automaticamente intimista e irrilevante, mentre nei Paesi dove c’è repressione e censura, la poesia diventa una forza sociale esplosiva. A questi argomenti risponde con saggezza lo spagnolo José Luis Reina Palazón, ricordando che invece un poco di benessere e la vicinanza al potere hanno prodotto anche della ottima poesia. Si pensi a Goethe, a Whitman, a Thomas Eliot.
Quest’anno il tema del festival, diretto con mano felice da Fernando Rendón, è la globalizzazione: la dobbiamo considerare un pericolo per la poesia? Non finisce per ucciderla cancellando le identità minori? Farsene complici o combatterla? Il poeta greco Dinos Siotis sostiene che è sciocco pensare di starne fuori; la globalizzazione è già parte della nostra vita, in tutti i sensi. Inutile combatterla, semmai governarla nel miglior modo possibile.
Si parla di censura. Quanto influisce la censura sulla libertà di scrittura? Quali sono i limiti imposti dall’alto e quali quelli che gli stessi autori si autoimpongono per paura? Il poeta basco Kepa Murua rammenta che non esiste solo una censura politica ma anche una censura editoriale. La pressione degli editori, la forza del mercato, non incidono sulla libertà di parola e di pensiero? L’artista ha sempre una resistenza da portare avanti, sia che abiti in un Paese dalla repressione visibile e riconoscibile, sia che si trovi in un Paese in cui le forze dell’economia editoriale fanno da padrone e impongono restrizioni piu sottili ma altrettanto rigorose.
Eppure molti scrittori sono allarmati. La globalizzazione, dicono, favorisce il dominio della lingua piu forte, che finisce per schiacciare tutte le altre. La globalizzazione fagocita ogni differenza e distrugge le radici delle lingue minoritarie. La prova è che in questo grande festival internazionale le sole due lingue ammesse sono l’inglese e lo spagnolo. Ciascuno legge nella propria lingua, è vero, anche la piu minoritaria e limitata, come il Quechua o il Kamsá, ma poi verranno proposte al pubblico in spagnolo e saranno quasi sempre tradotte dall’inglese.
La scrittrice Atala Uriana, della etnia Wayuu del Venezuela, ci ricorda che c’è una globalizzazione estetica piu potente di quella etica, per cui gli scrittori si uniformano spesso volontariamente, ai modelli piu diffusi. La scrittura fa fatica a uscire dagli stereotipi, soprattutto quando il pubblico ci ha preso gusto e chiede soprattutto quel cibo lì.
Ma la poesia è anche vista come un lasciapassare universale. Dunya Mikhail di Bagdad (ma esiliata dal tempo della guerra negli Stati Uniti) racconta che sul suo passaporto c’è scritto: professione, Poeta. «Questo mi ha permesso di emigrare. I militari non hanno paura dei poeti, sono abbastanza antiquati da pensare che essi parlino solo della luna e di amori non riamati. La poesia mi ha fatto sentire a casa anche in viaggio, anche in esilio. Nonostante abbia lasciato la mia scarpa a Bagdad, come Cenerentola».
Dunya è una donna di cinquant’anni, dai lunghi capelli castani che porta sciolti sulle spalle, ha gli occhi appuntiti di un falco e il sorriso dolce di una donna che ha imparato a convivere col diverso, perfino col nemico. «Non chiedermelo, ti prego, America/ non ricordo i loro nomi,/non ricordo quanto hanno camminato sotto il sole/ e quanti sono morti/… Lascia i tuoi formulari al fiume, America/da tempo siamo due rive che fluttuano lontane/… e io intanto sono cresciuta/ sono piu grande di mio padre / che mi diceva: /un giorno andremo in America/andremo e canteremo una canzone/davanti alla statua della libertà./Ora sono venuta da te/ senza mio padre/i morti maturano prima dei fichi/ma non crescono, America,/vengono nel nostro sonno/ o si piegano ad arcobaleno/sopra le case/che abbiamo lasciato./… Ora io accarezzo la libertà come la gatta di casa,/ il mio amore è rimasto sull’altra riva, America e non risponde…».
Un giornalista curioso passa in mezzo agli scrittori chiedendo loro una definizione della poesia. Vengono fuori le cose piu strane. Ulugbek Esdauletov del Kazakistan dice che la poesia è un salmone che risale controcorrente le acque piu vertiginose, per andare a depositare le uova in luoghi sicuri. Dunya Mikhail dice che la poesia è una ameba, informe eppure capace di trasformazione e multiformità. L’ameba, sostiene lei, ha un occhio solo e un piede unico che lascia tracce sghembe e risolute sul terreno. Il giamaicano Malachi Smith sostiene che ogni poeta è un «perfetto primitivo». Che può fare un primitivo in un mondo globalizzato?
Jane King si chiede a questo punto cosa è che crea l’identità di cui tanto si parla: il luogo di nascita? La lingua? I valori? La religione? … E se uno è nato in un luogo ed poi è emigrato? Se parla piu lingue che ha appreso durante i suoi spostamenti? Se non ha religione alcuna? Se è nato dove non doveva nascere, per caso? Se i suoi valori non corrispondono a quelli gridati dai dirigenti della sua nazione? Quando e come comincia la rivendicazione di una identità? Nell’orgoglio di una vittoria al calcio?
Karenne Wood della etnia Monacan degli Stati Uniti ci ricorda che le storie sono raccontate sempre dai vincitori. «Dicono che Colombo ha scoperto l’America, ma noi eravamo lì da ottomila anni. Gli europei sono arrivati e ci hanno detto che erano loro gli unici esseri civili, gli unici religiosi, gli unici capaci. E in nome di quella unicità hanno ucciso la nostra lingua e la nostra cultura. E proprio dagli spagnoli la cui lingua oggi si mette al servizio delle minoranze etniche. È questa la globalizzazione?
La leggenda di Orfeo, sostiene Rita Mestokosho della etnia Innu del Canadà, ci ricorda che è meglio non guardarsi indietro. Si rischia di perdere la cosa che piu amiamo. In questo caso, la patria. «Vedete la forza dell’immaginazione greca!», incalza lo scrittore francese Francis Combes, questo non significa che ci nutriamo tutti delle stesse radici? Anche questa è globalizzazione. Non dobbiamo averne paura. La pluralità arricchisce, non mortifica. D’altronde non abbiamo appena sentito la poesia di un giovane poeta colombiano, Jorge Torres Medina, che racconta di un ascensore che come la vita, va su e giù trasportando le puzze e i dolori di un mondo moderno che non sa più fare le scale?
«I pazzi che pensano di potere cambiare il mondo, sono i soli che in qualche modo ci riescono», dice sorridendo Apirana Taylor della nuova Zelanda. «È vero che la poesia non può cambiare il mondo», prosegue Didier Awadi, un magnifico rapper senegalese, citando una frase famosa, «ma coloro che leggono i libri dei poeti, sì».
La sera vado a teatro a vedere «L’Elettra» di Euripide in una bella messa in scena di Farley Velásquez, che è attore e regista nello stesso tempo. La sua Elettra (Carola Martínez Bandera) difende furiosamente le ragioni del padre. Oreste, che ha appena ucciso la madre, appare in scena reggendo un pezzo di carne sanguinante. «È di plastica?» mi chiede sottovoce José Luis Razón. «No, è di carne» rispondo io. Poi il regista ci dirà che si tratta di un cuore e di un intestino di maiale, che ogni sera vengono lavati e conservati in frigorifero per la prossima rappresentazione.
Inutile dire che Elettra, piu che una figlia innamorata del padre e vogliosa di vendetta, appare qui come l’anima rabbiosa di un Paese che vede nella infedeltà di una classe dirigente sfrontata e avida la fonte di tutte le ingiustizie e di tutti gli orrori che gravano sui figli.
Secondo le regole del Festival le poesie vengono lette in tutte le ore del giorno, sia nei pueblos dei dintorni — anche distanti due ore da Medellín — sia nelle varie sale cittadine: scuole, stazioni, alberghi, musei, biblioteche, università. E dovunque c’è gente che ascolta, partecipa, approva o disapprova rumorosamente. Appena fuori, nel caldo e nel puzzo di un traffico inestricabile e rumoroso, ci si imbatte inevitabilmente in qualche gigantesca scultura di Botero.
A uno sguardo europeo sembra un visionario che ama il grottesco e la caricatura. Passeggiando per le strade di Medellín si capisce invece che è un osservatore attento di corpi e di culture. Il grasso appartiene alla povertà, alla cattiva nutrizione, a una estetica dell’abbondanza vista come compensazione di una vita di stenti. Fra l’altro in questi giorni si può visitare una bellissima Via Crucis boteriana nel museo Antiochia. Un Cristo grasso e gonfio, costellato di ferite di coltello, anziché fare pensare a una caricatura un poco perversa, provoca una pietà nuova, tenera e desolata, che ricorda tutti i poveri del mondo, i quali sognano con occhi affamati l’abbondanza delle carni.
In questa città difficile ma pure così attenta alla cultura, l’Italia arriva attraverso i suoi film, la sua musica, la sua poesia. Angelo Mazzone, il direttore dell’Istituto di cultura, corre da una città all’altra — come dimenticare la bellissima Cartagena, la città che offre le piu carezzevoli memorie di una lontana architettura coloniale? —, organizzando mostre e luoghi di incontro, nonostante gli ultimi drastici tagli ministeriali. L’ambasciatore Elio Menzione che assomiglia straordinariamente a Giuseppe Mazzini, segue con sorriso severo tutto quello che si fa per un Paese che crede poco alla sua cultura e nonostante questo viene sempre amato e apprezzato.
Voglio finire con una poesia di Francis Combes che mi sembra appropriata ai tempi che viviamo: «Abbiamo vinto /la peste bubbonica/il colera/lo scorbuto/la tisi galoppante/ … siamo riusciti anche a fare regredire / la lebbra, la tubercolosi e la scarlattina…/ forse domani, /grazie ai progressi della medicina, / riusciremo a vincere/ il cancro finanziario».

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password