Ornette Coleman, il guerriero della pace

GENOVA. Un palcoscenico ricavato direttamente da una terrazza sporta sul mare: Lì finivano i Magazzini del cotone del Porto di Genova. Lì si tengono i concerti del Gezmataz Festival, piccolo grande Festival coraggioso che, come ogni atto audace, può anche ricavare piccoli miracoli, luminescenti epifanie. È successo mercoledì sera, quando mancava una mezz’ora alla mezzanotte. Sul palco c’era il veterano della musica coraggiosa, Ornette Coleman, attorno aveva i formidabili musicisti del suo Quartetto con due bassi, presente ovviamente l’immancabile figlio-manager Denaro dietro pelli e piatti. 

GENOVA. Un palcoscenico ricavato direttamente da una terrazza sporta sul mare: Lì finivano i Magazzini del cotone del Porto di Genova. Lì si tengono i concerti del Gezmataz Festival, piccolo grande Festival coraggioso che, come ogni atto audace, può anche ricavare piccoli miracoli, luminescenti epifanie. È successo mercoledì sera, quando mancava una mezz’ora alla mezzanotte. Sul palco c’era il veterano della musica coraggiosa, Ornette Coleman, attorno aveva i formidabili musicisti del suo Quartetto con due bassi, presente ovviamente l’immancabile figlio-manager Denaro dietro pelli e piatti. 

È successo che l’ottantenne Ornette Coleman, dopo aver chiuso le note di un concerto di radiante, pacata bellezza sia tornato sul palco, alla faccia degli acciacchi, del caldo tropicale e degli anni che lo costringono a muovere piccoli, impacciati passi da uccellino. Era commosso, Ornette, perché il pubblico, un pubblico con i numeri da rock, più che da «avanguardia» s’era accalcato sotto il palco, per avere un contatto fisico con lui, il «guerriero della pace» che ha combattuto una guerra senza sangue e senza violenza in nome della libertà dell’arte e della musica senza gabbie. E allora ha fatto cenno ai suoi, s’è rimesso dietro al microfono, ed è nato per la milionesima volta l’incanto straziato della più bella ballad che la storia del jazz ci abbia regalato, Lonely Woman. 

Ornette la incise nel 1959 per un disco che si intitolava «la forma del jazz del futuro», era uno schizzo amaro, desolato, ricavato dall’aver visto un dipinto in una galleria d’arte che raffigurava una signora bene dall’aria molto, molto amareggiata. Quando Ornette ha fatto risuonare sul suo contralto le prime lacerate note di Lonely Woman a pochi metri è passata una nave enorme, enorme come la sua musica: sulla fiancata c’era scritto «Splendid» E di splendori abbacinanti, oggi declinati sulle forze residue di una pronuncia inimitabile, appena appannata dal velo di una stanchezza inevitabile (fisica: non della mente) in concerto se n’è gustati molti. 
Perché Ornette Coleman, il jazzista che da tutta la vita propone Something Else, ossia, «qualcosa di assolutamente altro» non è un’icona immota che fa il verso il verso a se stesso: c’è più intelligenza, più sapienza, più capacità di articolare puro pensiero musicale in puro suono in quello che fa l’ottantenne Ornette Coleman oggi che in un intero scaffale di musica «jazz» che a lui deve natali, primogenitura, articolazione inesausta. Ad esempio nella scelta (per lui consueta da quando nel jazz non esistevano queste consuetudini) di raddoppiare i ruoli strumentali. 
Oggi, anno di grazia 2010, Ornette ha il basso elettrico di Tony Falanga, che suona come una chitarra intelligente sul registro più alto, incrociando in unisono le meravigliose, snervate frasi di Ornette, o contrappunta con plasticità inesausta il contrabbasso «classico» di Al Msacdowell, impeccabile anche quando, con l’archetto, tiene quelle note lunghe e gonfie d’armonici che fanno respirare la costipata, fremente bellezza dei profili melodici di Ornette. 
Un compromesso, dunque, tra le formazioni armolodiche «free funk» e il quartetto acustico, in bilico perenne sul nulla, e che invece suona «tutto». Che significa il repertorio ri-composto da una vita di Ornette «classico», e tutto quanto è venuto dopo, con visionaria capacità di cogliere il succo elettrico della popular music con un graffio prensile ritrovabile solo, mutatis mutandis, in Miles Davis. Chi altri saprebbe risuonare, come fa oggi l’ottantenne Coleman, il preludio alla Suite in Sol Maggiore di Bach lacerandone il tessuto e ricomponendolo per frammenti di desolato lirismo? Chi, senza finire nel kitch più grottesco, potrebbe usare le prime sei note della Sagra della Primavera di Stravinsky per ri-formarle in ballad? Ornette Coleman declina, riflette, articola: «Spelling The Alphabet» si chiama una sua bruciante incursione nelle asimmetrie più imprendibili della musica, riproposta nel concerto genovese. 
Lui è sempre l’uomo con le radici blues che ha sporto pensieri e suono nell’avvenire. Mezzo secolo dopo, verrebbe da dire, è il futuro che non se la passa tanto bene, non lui.

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