Pubblicato da Transeuropa «Fuga in blu» di Jakuta Alikavazovic
Pubblicato da Transeuropa «Fuga in blu» di Jakuta Alikavazovic
Che Parigi fosse la città degli specchi – o, meglio, lo scenario di una fantasmagorica irruzione della strada negli spazi chiusi di negozi e caffè – era circostanza già nota a Walter Benjamin, che nello sfondamento prospettico artificiale prodotto dalle pareti riflettenti coglieva una ennesima manifestazione di quell’«incrocio degli spazi» da cui il flâneur «è catturato senza scampo». Ma che l’ambiguità connaturata agli specchi, nonché la loro capacità di incarnare visivamente il «patto tra le cose e il non essere», fossero investite di una valenza protettiva (o, finanche, terapeutica) è un’intuizione che la trentatreenne Jakuta Alikavazovic ha saputo elaborare con geometrico talento nel suo secondo romanzo recentemente pubblicato da Transeuropa nella fluida traduzione di Alice Volpi (pp. 170, euro 13,50).
Costruito come un elaborato castello di carte intorno al tema crepuscolare e insieme postmoderno dell’assenza, Fuga in blu si innesta sull’architettura immaginaria, ma resa con grande dovizia di particolari, del cinema di inizio Novecento Londra-Luxor, trasformatosi a metà degli anni Novanta in luogo di ritrovo della diaspora balcanica. Quello che a suo tempo era un enfatico sacrario del revival egizio (situato, assai benjaminiamente, in un passage «che pochi conoscono ma in cui molti soddisfano i propri bisogni naturali») diventa così punto d’approdo per un’umanità eterogenea e disorientata che nella fuga prospettica creata dai suoi specchi preferirebbe senza dubbio scomparire.
I personaggi della Alikavazovic appartengono infatti «a una geografia di fratture e di scarti»; le loro esistenze, «minacciate dall’assenza e dall’astrazione», vanno trascolorando nella figura retorica del chiasmo, dacché «un paese si riflette in un altro, una lingua materna (dimenticata) in una lingua d’uso (acquisita), un paese d’origine perduto, impossibile da ritrovare nella somma dei suoi frammenti». Quale nascondiglio migliore per loro dell’ex cinema – ora opportunamente riconvertito in bar – dove pareti scorrevoli, paraventi e grandi specchi rendono lo spazio incomprensibile, costringendo ogni cosa a confondersi con il proprio riflesso?
A tale universo fittizio non è estranea neppure la protagonista Esme, che l’incipit coglie nell’atto di varcare per la prima volta la soglia del Londra-Luxor (identificato in definitiva con il testo stesso; non a caso il titolo originale era Le Londres-Louxor), nella speranza di ritrovare in quello scrigno della specularità il proprio doppio, la sorella Ariana, salita insieme a lei da bambina sull’ultimo aereo decollato da Sarajevo durante l’assedio. Ciononostante, nell’architettura illusionistica edificata dall’autrice l’asse di simmetria si è irrimediabilmente incrinato e l’unità dispersa in una miriade di riflessi che, in realtà, non si somigliano affatto.
Così è per Ariana, «sosia» che incarna le potenzialità inespresse di Esme, non ultima quell’esuberanza balcanica à la Kusturica che la protagonista personalmente evita come la peste. In questa proliferazione di parole senza cose (o di cose senza parole), di segni e di echi che è l’esistenza dell’esule, Esme riserva per sé la dimensione appartata e dimessa del silenzio, l’unica continuità che le è propria, come tiene a precisare la stessa Alikavazovic.
Un silenzio dai risvolti ampiamente autobiografici che l’autrice, in una densa intervista rilasciata ad Alice Volpi, ricollega alla propria esperienza indiretta del conflitto, rievocando il rarefatto mutismo dei suoi genitori, l’uno originario del Montenegro, l’altra della Bosnia, di fronte al naufragio cruento dell’entità sovranazionale jugoslava. E forse è proprio la prospettiva straniata di una ragazza nata nel 1979 a Parigi, per cui la Jugoslavia fino al 1992 era stata soltanto meta di vacanze estive, a rendere le riflessioni sulla dimensione dell’esilio sparse per Fuga in blu così intrinsecamente metafisiche e poco scontate. Per Esme che vive «in una democrazia assoluta del visibile e dell’invisibile» il passato infatti non esiste, e la sua rimozione è la conditio sine qua non per tenersi in bilico sul filo instabile di finzioni sempre più astratte.
Figura donchisciottesca (non a caso l’amante Adam la definisce «la donna delle somiglianze selvagge, (…) simile a una moltitudine di cose che avevano tutte in comune il fatto di essere un po’ vaghe», Esme si guadagna da vivere prestando nome e volto a un celebre scrittore francese, restio a farsi attirare nelle spire dello showbusiness letterario. In fuga dalle proprie radici, la protagonista trova dunque asilo in una messinscena ancora una volta speculare (lei che non scrive, lui che non firma…) che, pur esponendola agli strali di critici malevoli quanto ignari, le lascia confortevoli spazi di inattività, sufficienti per coltivare indisturbata il proprio oltranzismo estetico.
Esme è infatti una variante postmoderna del flâneur, ovvero colui che sa percepire la strada come intérieur, e cammina per Parigi non tanto in preda a quella che Benjamin chiamava «ebbrezza anamnestica», quanto nella consapevolezza che la realtà non sarà mai altrettanto ospitale quanto la cartografia interiore elaborata dalla sua mente («Il feng shui in esterni non è una cosa facile», questo è il fulminante incipit della terza parte, Riservato al personale).
D’altronde, il tema della mancata corrispondenza tra l’immagine reale e la sua ricostruzione mentale ispira anche la trama poliziesca volutamente esile che la Alikavazovic a un certo punto sembra inanellare intorno alla duplice sparizione di Ariana e di quattro quadri scomparsi dalla fondazione di Zurigo in cui quest’ultima lavorava. Un plot che, con una mossa a effetto, si affloscia su se stesso nel finale, tradendo le fonti eminentemente visive cui l’autrice si è ispirata per il suo libro.
Se infatti la vicenda dei quadri non è che un omaggio in chiave balcanica al progetto dell’artista concettuale Sophie Calle Disparitions (citata dalla Alikavazovic nella sua nota bibliografica conclusiva), sull’apparizione finale della sorella – meramente circoscritta al romanzo che Esme finalmente comincia a scrivere – aleggia invece quella tonalità artificiale di blu che Yves Klein nel 1956 aveva ideato e insieme sottratto al mondo depositandone il brevetto, e che ora torna trafugata illegalmente sul vestito di Ariana. Già vincitrice nel 2008 del premio Goncourt per il miglior debutto con il romanzo Corps volatils, la Alikavazovic si conferma con questo formidabile libro autrice di singolare raffinatezza, capace di rivivificare un tema eterno quanto frusto come quello dell’esilio. E di spingere i suoi lettori, curiosi e rapiti, ad affacciarsi sulle vite parallele «che avrebbero potuto svilupparsi da un nucleo di assenza»
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