Lo strappo della Storia nel filo di un ricamo

Nel convento delle suore agostiniane di Spello, un incontro con Susan Harbage Page, artista americana che attraverso i merletti rivendica istanze femministe «Ho iniziato a lavorare con ciò che trovavo nei negozi dell’Esercito della Salvezza. Qui, il lavoro delle donne veniva venduto per pochi dollari» La chiesa di S. Maria Maggiore con la cappella Baglioni – affrescata da Pinturicchio con quella sua mano da miniaturista che racconta nel minimo dettaglio – è proprio di fronte all’ingresso del convento delle suore agostiniane di S.M. Maddalena. Susan Harbage Page (Greenville, Ohio 1959, vive a Charlotte, North Carolina) è di casa in questo convento che in un’ala ospita le suore di clausura, ma nell’altra è una «casa di accoglienza» per i pellegrini.

Nel convento delle suore agostiniane di Spello, un incontro con Susan Harbage Page, artista americana che attraverso i merletti rivendica istanze femministe «Ho iniziato a lavorare con ciò che trovavo nei negozi dell’Esercito della Salvezza. Qui, il lavoro delle donne veniva venduto per pochi dollari» La chiesa di S. Maria Maggiore con la cappella Baglioni – affrescata da Pinturicchio con quella sua mano da miniaturista che racconta nel minimo dettaglio – è proprio di fronte all’ingresso del convento delle suore agostiniane di S.M. Maddalena. Susan Harbage Page (Greenville, Ohio 1959, vive a Charlotte, North Carolina) è di casa in questo convento che in un’ala ospita le suore di clausura, ma nell’altra è una «casa di accoglienza» per i pellegrini. L’artista americana – usa fotografia, video, installazione e suono (sassofono) per esplorare la cultura popolare (presso la Kyo Art Gallery di Viterbo, fino al 7 luglio presenta la sua installazione con il sale e tre grandi immagini di colletti ricamati dipinte sui muri) – è venuta a Spello per la prima volta nel 1984, quando studiava all’Università per Stranieri di Perugia, e vi è tornata nel tempo. Dal ’92 alloggia qui, sempre nella stanza n. 11. Il rapporto di fiducia con le suore è reciproco, tanto che le lasciano usare come studio l’angolo più luminoso del refettorio. Sul tavolo ci sono pennarelli, colori, fogli di carta e vecchi merletti. Alcuni sono stati acquistati o le sono stati regalati, sia in Italia che negli Stati Uniti.
È proprio tra queste mura silenziose che sta prendendo forma un nuovo lavoro che si riallaccia a quello sui ricami – Embroideries – che l’artista ha realizzato tra il 2006 e il 2008. La matrice comune è l’aspetto artigianale-creativo del manufatto, il suo anonimato, il tempo impiegato per la sua realizzazione e anche lo scarso valore che se ne dà oggi, che innesca anche un ambiguo meccanismo psicologico di senso di colpa. «Se questi lavori li avesse fatti un uomo, varrebbero di più – spiega Harbage Page, da sempre impegnata in una poetica/manifesto di politica femminista e antirazzista – Perché ancora oggi negli Stati Uniti il lavoro delle donne è pagato circa il 24% in meno di quello degli uomini».
Il merletto (sono soprattutto colletti) viene disteso sul tavolo e coperto da un foglio di carta bianca traslucida fatta a mano – né troppo sottile, né troppo spessa – su cui la mano dell’artista ripercorre, munita di un pennarello magenta o nero, la natura stessa dell’oggetto, rivelatrice della personalità di chi l’ha realizzato. Un punto più lento, un filo che inciampa – l’errore, quindi, insieme al segno del tempo come la sfilatura, un piccolo buco, lo strappo – diventano matrice dell’esistenza.
La fotografia – sei laureata in Fine Arts con una specializzazione in fotografia al San Francisco Art Institute – è il linguaggio con cui ti esprimi prevalentemente. Perché hai scelto il disegno per questo nuovo lavoro sui merletti?
Mi interessano i merletti perché sono fatti dalle mani delle donne. Due anni fa, durante un mio soggiorno qui, le suore mi hanno regalato un centrino fatto da Suor Giuseppina, badessa morta quindici anni fa. Questo dono mi ha commossa. Penso che, a modo loro, anche le suore siano femministe. Mi interessa, poi, l’economia che c’è dietro questi manufatti. Tante ore di lavoro pagato poco. In questo momento sono più interessata ai merletti da applicare agli abiti, soprattutto colletti, perché parlano del contenimento del corpo della donna e sono simboli di potere.
Ma non mi bastava fotografarli, sentivo che era importante fare qualcosa con le mie mani. Il processo dà valore al lavoro. Osservo per ore lo stesso ricamo, con lo stesso motivo. È un modo di imparare, studiando lavori passati da madre a figlia, di generazione in generazione. Sono ricami anonimi, eppure nel dettaglio si vede la mano. Disegno e ridescrivo il senso della memoria delle mani. Con il pennarello rosa – quando voglio rappresentare l’innocenza, la giovinezza di una ragazza di quindici anni – oppure nero, ho iniziato a distruggere il pattern. Isolo i punti, operando un tipo di decostruzione in cui anche l’assenza è importante. Mentre per fare un centrino o un colletto il lavoro parte dall’interno per svilupparsi in maniera circolare, io al contrario parto dall’esterno per ripercorrerlo in senso opposto. Questi disegni, insomma, diventano un po’ come carte geografiche molto astratte.
Consideri il lavoro dei merletti una continuazione dei ricami di «Embroideries»?
Sì è proprio una continuazione. Ho iniziato a lavorare con i ricami che ho trovato nei negozi di seconda mano dell’Esercito della Salvezza. Trovavo incredibile che il lavoro delle donne fosse buttato via, svenduto per pochi dollari. Lavori che avevano richiesto tempo, cura. Non solo: c’è anche il modo in cui qualcuno ti regala un ricamo o un centrino come un dono prezioso, segno di amore e amicizia, ma che per te che lo ricevi non conta nulla e, per questo, diventa simbolo del senso di colpa.
Mi capita spesso, quando faccio le mostre, che venga qualche donna portandomi cose fatte magari dalla nonna, che non se la sente di buttare via per quel senso di colpa a cui accennavo, e che mi dà quasi con sollievo perché li posso utilizzare meglio di lei. Dei ricami mi interessavano soprattutto i disegni, spesso sono immagini di donne senza volto. Un motivo che viene dal sud, dalla vita nelle piantagioni: ancora oggi si ricamano donne senza piedi e mani, oltre che senza volto. Donne senza agency, senza potere. Una donna senza piedi, senza mani, senza testa non è che un oggetto. Nel tempo ho collezionato tanti ricami, poi ho cominciato a prendere frasi dette anche dalle mie amiche e le ho ricamate. Storie di oggi, frasi tristi che parlano della vite di queste donne. Su un lavoro ho ricamato I hid my successes in the dresser drawer (ho nascosto i miei successi nell’armadio).
Un’amica artista che vive in California mi aveva raccontato che la sua mostra era stata recensita da Art in America. Lei aveva acquistato due copie della rivista, ma poi le aveva nascoste nell’armadio, perché aveva paura della reazione del marito, anche lui artista. Nello stesso periodo avevo cominciato a fare anche cappucci del Ku Klux Klan che fotografavo. Li cucivo con il tessuto di oggi, perché volevo parlare del razzismo che c’è tuttora negli Stati Uniti. Nobody here wears a white hood (nessuno qui indossa un cappuccio bianco), si dice da noi. Il mio è un lavoro politico. Mio marito è afroamericano, un altro motivo per cui – nel tempo – ho continuato ad affrontare il tema del razzismo.
In «The Border Project» è un reportage politico-sociale in cui affronti il dramma dell’immigrazione clandestina. Dal 2007 torni lungo il confine Texas-Messico e fotografi oggetti (calzini, documenti, scarpe, spazzolini da denti, reggiseni…) che, poi, porti con te per creare un anti-archivio…
Ho iniziato questo lavoro dopo aver ascoltato una trasmissione alla Npr (National Public Radio), in cui si parlava di come oltre il 20% degli immigrati che muoiono, mentre attraversano clandestinamente la frontiera, sono donne e bambini. Così sono voluta andare a vedere con i miei occhi. Percorro la frontiera in Texas – da Brownsville a Laredo – una o due volte l’anno, come in pellegrinaggio: in bicicletta, a piedi o in canoa. Ho cominciato a fotografare quegli oggetti che parlano di una vita clandestina e, soprattutto, dei rischi a cui quelle persone sono esposte quando vengono negli Stati Uniti. Ma non volevo riprendere le persone nella tradizione della fotografia documentaria. Mostrare quegli oggetti come reliquie, per me, ha più potere perché raccontano storie di cui non si sa l’inizio, né la fine.

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