Il sottosegretario De Gennaro e il senso dello Stato

Due sottosegretari si sono dimessi, due ministri hanno stentato a lasciare organismi su cui avevano rapporti di vigilanza. Qualche obiezione sulle nomine di Monti

Ancora una volta si verifica che la debolezza peculiare dell’Italia sia la sua troppo collaudata classe dirigente di cui il governo Monti offre alcuni segni di essere partecipe piuttosto che rimedio. In che modo?

Due sottosegretari si sono dimessi, due ministri hanno stentato a lasciare organismi su cui avevano rapporti di vigilanza. Qualche obiezione sulle nomine di Monti

Ancora una volta si verifica che la debolezza peculiare dell’Italia sia la sua troppo collaudata classe dirigente di cui il governo Monti offre alcuni segni di essere partecipe piuttosto che rimedio. In che modo?
Trattasi di nomine. Alcuni incidenti sono già avvenuti. Due sottosegretari si sono dimessi. Due ministri hanno stentato a dimettersi da organismi su cui avevano rapporti di vigilanza. Risulta da un rapporto dell’ambasciata degli Stati Uniti che il ministro della Difesa in carica -allora capo di stato maggiore della Difesa – abbia sollecitato i suoi interlocutori di quel governo a firmare subito l’accordo per la base di Sigonella, alla vigilia delle elezioni politiche del 2006, per «continuare ad operare con le mani relativamente libere che ora abbiamo nelle basi italiane». (cfr. L’Espresso, n21, p.18). Perciò tirai un sospiro di sollievo quando si manifestò l’intenzione di Mario Monti di non delegare a nessuno i suoi poteri nei confronti dei servizi segreti. Purtroppo fu un’illusione di breve durata. La nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario delegato ai servizi di sicurezza, solleva ulteriori dubbi, aggravati dalla delicatezza dell’incarico che avrebbe, per l’appunto, consigliata un’assunzione diretta di responsabilità del presidente del consiglio o, comunque, di persona estranea agli organismi su cui avrà poteri di indirizzo e di vigilanza. Mi rendo conto che occorra un particolare scrupolo di obiettività, sempre doveroso, nei confronti di persona che, in circostanze diverse da quelle qui richiamate, hanno sicuramente reso servizi allo Stato. Nel caso di De Gennaro va ricordato il ruolo importante da lui ricoperto a fianco di Falcone, Borsellino e Caselli nella lotta contro la mafia.
Tuttavia quella di De Gennaro è una nomina che suscita obiezioni ovvie e decisive. Sono di pubblica ragione le perplessità suscitate dall’operato dei servizi coordinati da De Gennaro durante la guerra libica, oltre che per l’incidente in cui il governo del Regno Unito non informò preventivamente quello italiano di un’operazione che portò alla morte di un ostaggio di nazionalità italiana, al punto da provocare il legittimo dubbio che il suo possa trattarsi di un promoveatur ut admoveatur. La sua sostituzione con l’ambasciatore Giampiero Massolo – segretario generale del Ministero degli Esteri in noto conflitto con il ministro Terzi e con il suo predecessore, Frattini – configura il coordinamento dei servizi segreti come una sorta di premio di consolazione o, più probabilmente, come una sorta di cortocircuito istituzionale in cui alcuni commis non necessariamente grands, con troppi referenti politici e nessuna chiarezza istituzionale, se la suonano e se la cantano tra loro. Il caso del neo sottosegretario è ad un tempo più chiaro e più grave perché riferito ad una delle pagine più tetre della storia repubblicana. Documenti incontrovertibili, testimonianze, ricostruzioni e sentenze giudiziarie hanno ormai accertato alcuni aspetti fondamentali delle vicende di ordine e disordine pubblico che accompagnarono la conferenza dei G8 a Genova, poco tempo dopo l’insediamento del secondo governo Berlusconi. Oggi sappiamo che in quella circostanza quella città fu messa a ferro e fuoco da una minoranza – prevalentemente costituita dai cosiddetti black bloc – se non con la collusione, quanto meno con la colpevole passività delle forze dell’ordine nel contenerne e reprimerne la violenza, malgrado le ripetute denuncie preventive, ad esempio, dell’allora presidente della Provincia di Genova, Marta Vincenzi. Sappiamo anche che la furia prima contenuta e successivamente orchestrata della polizia, da parte di alti dirigenti romani presenti in loco, fu sfogata contro settori inermi della manifestazione pacifista, specificamente con l’attacco violento alla scuola Diaz ove alcuni di essi trascorrevano la notte. Che tale attacco fu dissimulato dalle forze di polizia con prove ripetutamente dimostrate come false in sede giudiziaria. Sappiamo, infine, che gli arrestati furono condotti nella caserma di Bolzaneto, sottoposti dalle guardie carcerarie ad ulteriori bastonature e forme di tortura non sanzionabili, in quanto non previste dalla legislazione vigente, con modalità tali da sollevare indignazione di media e governi in tutta Europa (anche perché molte delle vittime di queste forme di viltà repressiva erano di nazionalità straniera). Resta tuttora da chiarire il ruolo e la esatta collocazione fisica dell’allora vice presidente del consiglio, Gianfranco Fini, nel corso di tali eventi. Che possono essere variamente giudicati, a secondo dei punti di vista; ma, come disse una volta il senatore e sociologo statunitense Daniel Moynihan, «Ciascuno ha diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti».
Ora, quei fatti avrebbero dovuto rendere Gianni De Gennaro inidoneo a continuare a ricoprire la carica di capo della polizia e, dopo avere coordinato i servizi segreti, lo rendono ancor meno idoneo ad esercitare una funzione di responsabilità politica nei loro confronti. Non occorre invocare la condanna in Corte d’appello, successivamente cassata dalla Suprema Corte, secondo cui l’allora capo della polizia avrebbe manipolato la testimonianza del questore di Genova, Francesco Colucci, in un incontro che, secondo lo stesso De Gennaro, aveva lo scopo di determinare la «consonanza per l’accertamento della verità» in sede processuale. Sono largamente sufficienti le responsabilità oggettive di chi deteneva la posizione apicale per la salvaguardia dell’ordine pubblico del Paese riguardo ad una débacle politica e morale nella gestione di un evento di risonanza mondiale. Gli atti di violenza istituzionale furono di natura tale da escludere sviluppi spontanei imputabili a livelli inferiori di responsabilità. Ma ancor più grave è quanto avvenne e non avvenne in seguito. Il fatto che nemmeno i responsabili condannati in giudizio siano stati sospesi dal servizio, che alcuni dirigenti coinvolti siano stati addirittura promossi, che siano stati tollerati, se non incoraggiati, atteggiamenti omertosi nel corso dei processi, costituisce un implicita ammissione di responsabilità per il loro operato da parte di chi avrebbe potuto e non ha voluto diversamente operare. Ovvero il capo della polizia in carica. Ovvero Gianni De Gennaro.
Tutto ciò con due aggravanti. La tendenza dimostrata da Monti, in questa come in altre circostanze, di delegare ai tecnici ciò che risulta politicamente insostenibile, non è una sua prerogativa esclusiva. Ho accennato al non smentito ruolo di Fini quale nume tutelare delle vicende genovesi, ma non possiamo sottacere che De Gennaro fu nominato capo della polizia da un governo di centrosinistra – era questo forse il suo problema di fronte al secondo governo Berlusconi – e recuperato successivamente come capo di gabinetto del ministro dell’Interno di un altro governo di centrosinistra. Si conferma dunque la responsabilità trasversale di una classe politica che, a seconda dei casi (sta qui forse la differenza tra centrodestra e centrosinistra), non vuole o non osa asserire valori costituzionali nelle istituzioni a cui è preposta.
Altrettanto preoccupante è il fatto che questi problemi, che esigono rapporti trasparenti tra potere politico e pubblica amministrazione in fatto di sicurezza, riaffiorino nel momento in cui occorra la massima vigilanza. Abbiamo già visto, in tempi non molto lontani, come attentati terroristici possano stabilizzare poteri refrattari al cambiamento. E’ responsabilità del governo Monti vigilare ed operare perché ciò non avvenga.
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Questo articolo è pubblicato nel numero di luglio della rivista “L’Indice dei libri del mese”. Due percorsi sono stati dedicati a terremoto e lavoro (www.lindiceonline.com)

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