No, questa terra non sarà mai la sua terra e perfino adesso che il mondo intero sàappresta a celebrare cent’anni di «cielo senza fine» e «valli d’oro», adesso che il suo inno rimbalza dalle volte della Carnegie Hall alle piazze di Occupy Wall Street, adesso che l’America e il mondo intero trattengono il fiato sul precipizio di una nuova Grande Depressione, adesso come allora il suo nome mette ancora paura: e forse anche più. Riuscirà almeno Barack Obama, l’uomo che ha portato alla Casa Bianca Bob Dylan e Bruce Springsteen e che proprio al Boss e a Pete Seeger chiese di cantare This Land Is Your Land alla sua inaugurazione, riuscirà il presidente del nuovo New Deal a pronunciare quel nome e cognome, a cent’anni dalla nascita?
No, questa terra non sarà mai la sua terra e perfino adesso che il mondo intero sàappresta a celebrare cent’anni di «cielo senza fine» e «valli d’oro», adesso che il suo inno rimbalza dalle volte della Carnegie Hall alle piazze di Occupy Wall Street, adesso che l’America e il mondo intero trattengono il fiato sul precipizio di una nuova Grande Depressione, adesso come allora il suo nome mette ancora paura: e forse anche più. Riuscirà almeno Barack Obama, l’uomo che ha portato alla Casa Bianca Bob Dylan e Bruce Springsteen e che proprio al Boss e a Pete Seeger chiese di cantare This Land Is Your Land alla sua inaugurazione, riuscirà il presidente del nuovo New Deal a pronunciare quel nome e cognome, a cent’anni dalla nascita? Riuscirà l’America a riabbracciare, un secolo dopo, il figlio più amato e più odiato, l’uomo che mise in musica e versi il sogno a stelle & strisce, scarabocchiandoci però sopra — orrore orrore — la sua falce & martello? Il fascicolo intestato a «Guthrie, Woody, 14/7/12» arrivò sulla scrivania di J. Edgar Hoover la mattina di venerdì 3 giugno 1955. Il padre padrone dell’Fbi, l’uomo che visse con l’incubo dei neri e dei rossi, era ancora fuori di sé per la sentenza della Corte Suprema che tre giorni prima aveva definitivamente ordinato a tutti gli Stati di eliminare la segregazione razziale «il più velocemente possibile». Hoover sfogliò frettolosamente quel memo. «Viste le condizioni di salute del soggetto e la mancanza di notizie credibili, e di prima mano, sulla sua appartenenza, negli ultimi cinque anni, al Partito comunista, si suggerisce di cancellare il nome dall’Indice di Sicurezza ». L’uomo che nel giro di una decina d’anni avrebbe cercato d’insabbiare le verità d’America, dall’assassinio di Jfk al sacrificio di Martin Luther King, abbozzò un sorrisetto: anche questa è fatta. E mise infine la firma più temuta di Washington sotto il fascicolo che decretava la fine della più che ventennale sorveglianza dell’ex vagabondo dell’Oklahoma, l’artista che aveva riscritto la storia del folk d’America (e non solo), l’amico di John Steinbeck che come lui aveva raccontato la Grande Depressione, il cantante che sbandierava la chitarra con la scritta: «Questa macchina uccide i fascisti».
Fine di un incubo? Macché. La verità è che quando il potentissimo J. Edgar — come verrà ricordato nel film di Clint Eastwood con Leonardo Di-Caprio — mette la firma sotto quel fascicolo, Woodrow Wilson “Woody” Guthrie è già un morto che cammina. E ha soltanto 43 anni. Nell’ambiente, perfino in famiglia, tutti spiegano quei comportamenti un po’ matti, l’irascibilità permalosa, la difficoltà di imbracciare la chitarra, come la conseguenza dell’alcolismo ormai galoppante, ultima fermata di una vita spericolata vissuta appunto nel mito della frontiera in continuo movimento, dall’Oklahoma alla California, dalla California alla New York del Village ribelle, poi ancora California, poi ancora New York ma questa volta Brooklyn, a quei tempi ancora periferia dell’impero.
Per tutti Woody è ormai andato, alcolismo e schizofrenia è la diagnosi con cui a pochi mesi dall’“assoluzione” dell’Fbi lo rinchiudono al Greystone Park Psychiatric Hospital di Morris Plain, New Jersey, fino alla morte dodici anni dopo, al capezzale quella chitarra che lui non può suonare ma che rivive nelle mani dei vecchi e nuovi amici che lo vanno a trovare, soprattutto quel ricciolino che si fa chiamare Bob Dylan e che — confessa nelle sue Cronache—
è arrivato dal Minnesota a New York «proprio per conoscere Woody Guthrie». Woody è già finito. Ma nessuno chiama allora la malattia per quello che è, il morbo di Huntington, una degenerazione dei neuroni ereditaria che aveva colpito anche la madre, una maledizione vera che lo aveva perseguitato per tutta la vita, probabilmente anche la causa — con quei lampi di follia, quei movimenti senza più controlli — dei misteriosissimi incendi che avevano funestato la sua infanzia e si ripeteranno nella sua famiglia: la sorella morta bambina, il padre ferito, perfino sua figlia, Cathy, uccisa tanti anni dopo in quell’altro incidente che lo gettò in un’atrocissima depressione, perfino lui stesso ferito al braccio. Sembra una storia davvero mitica, il Prometeo dell’Oklahoma scottato dal fuoco che gli brucia dentro: ma tutta l’epopea di Woody Guthrie è un’esplosione di simboli. A partire dalla data di nascita, 14 luglio, la presa del-
la Bastiglia, madre di tutte le rivoluzioni moderne. A partire dallo stesso nome, lui che si chiama appunto Woodrow Wilson in onore del governatore democratico del New Jersey che diventerà presto presidente: un omaggio voluto dal padre Charles, politicante democratico ma acerrimo nemico dei socialisti — «il serpente tentatore dai denti micidiali» — che diventeranno invece gli amici di Woody. Proprio il padre resterà per tutta la vita l’incubo di Woody, che arriverà a rivelare la sua iscrizione al Ku Klux Klan, il padre che le cronache ricordano affacciato sul ponte di Okemah, protagonista del linciaggio di Laura e Lawrence Nelson, la vergogna da cui il figlio non riuscirà mai a liberarsi.
Sì, Woody Guthrie è una contraddizione in termini, «oggi non cambieresti una riga dalle sue canzoni per raccontare il mondo che ci circonda», dice a Repubblica Will Kaufman, il professore dell’University of Central Lancashire che al suo mito ha dedicato la prima biografia politica, American Radical, e che è anche l’unica persona al mondo ad aver intonato Questa terra è la mia terra durante un ricevimento a Buckingham Palace. Eppure proprio il nome Guthrie, oggi, fa tremare all’incontrario i progressisti di tutta l’America, col figlio Arlo, l’eroe di Woodstock e di Alice’s Restaurant, che è diventato repubblicano. «Una provocazione», lo giustifica naturalmente il professore, «lui dice che di buoni democratici ce ne sono già abbastanza, ma per uscire dalla polarizzazione occorre che ci sia qualcuno di buono anche dall’altra parte».
Bah. Chissà che avrebbe detto papà Woody, l’uomo che perse il posto alla Kfvd, la mitica radio ultrademocratica di Los Angeles, perché perfino alla notizia del patto di non aggressione tra Adolf Hitler e Joseph Stalin, e poi all’invasione della Polonia, volle giustificare Baffone: «Anche Stalin è entrato in gioco / s’è preso mezza Polonia e ha ridato indietro / le terre ai contadini. / Se vivessi in Polonia / sarei felice della venuta di Stalin / che scambiò il mio fucile per la terra». Ok ok, certo che tutto va contestualizzato. Ma è chiaro, adesso, perché neppure Barack Obama, malgrado quel concerto inaugurale, si è mai spinto, finora, all’elogio di Woody? «Sarebbe il bacio della morte», scherza Kaufman, che però ricorda che il radicalissimo Guthrie era anche un uomo capace di restare con i piedi per terra. «Uno storico non può ragionare con i se: però certo che Woody oggi starebbe con Obama, lui che negli anni Quaranta, in piena guerra, fece campagna per Franklyn Delano Roosevelt, che pure aveva tanto criticato».
Quando lo rinchiudono a Greystone, l’ospedale psichiatrico, quel morto che cammina ha il coraggio di scherzare con i pochi amici che lo vengono a trovare. Sono gli anni Cinquanta e la caccia alle streghe comuniste è imperante: «Non siete voi a dovervi preoccupare di me, sono io a essere preoccupato per voi. Lì fuori, se vi dite comunisti vi sbattono in prigione. Ma qui dove sono io, posso dirlo quanto voglio: ci sarà sempre qualcuno che dirà: che volete, è pazzo». No, questa terra non sarà mai la sua terra. «Credetemi», disse l’uomo sbattuto in manicomio, «è proprio questo l’ultimo posto libero d’America».
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