«Un patto tra gli Stati per liberare l’umanità dalle guerre»
«Un patto tra gli Stati per liberare l’umanità dalle guerre» È difficile, se non impossibile, per chi come me, nato nel 1926, si considera, col nome che porto, un uomo fortunosamente sopravvissuto alle tormentate vicende del Novecento, non trovarsi d’accordo col titolo (La libertà fragile, Mondadori) che Louis Godart ha dato a questa sua incursione nella storia di quella che il sottotitolo dell’opera definisce «l’eterna lotta per i diritti umani».
Abbandonando per un breve tempo gli studi prediletti, coltivati per decenni, che l’hanno reso famoso — l’arte e la cultura delle civiltà egee — e le cure che da diversi anni dedica a custodia e restauro del Quirinale e delle opere d’arte che esso custodisce, Godart ha scelto di raccontare, in un testo relativamente breve e di limpida struttura e comprensione, la faticosa marcia che la cultura occidentale ha compiuto, a partire dalla Grecia dei grandi filosofi e tragici, fino a raggiungere con le rivoluzioni americana e francese di fine Settecento la concezione contemporanea del diritto alla libertà degli individui e dei popoli: di tutti gli individui, e di tutti i popoli.
Chi conosce bene l’autore non può dirsi stupito da questa felice «invasione di campo». Lo stile discorsivo di quest’opera, che mantiene dal principio alla fine il carattere di un racconto, ne rende particolarmente gradevole la lettura. Non manca nessuna delle citazioni necessarie — dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo adottata dalla Convenzione della Virginia il 12 giugno 1776, all’ampia sintesi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950. Godart non corre alcun rischio di ricevere accuse di «dilettantismo» dagli specialisti della materia.
Emerge da questo racconto il confluire, nelle complesse radici delle due grandi rivoluzioni americana e francese, delle correnti di un pensiero illuminista e laico, dominante nella Francia che vuole liberarsi dall’assolutismo monarchico, accanto ai valori di un cristianesimo riscoperto, nei suoi principi essenziali, dalle comunità puritane e protestanti; che non a caso, di fronte alle difficoltà che incontravano in Inghilterra, scelsero l’emigrazione in America per crearvi una società in gran parte fondata sulla fede di cui erano portatrici. Può apparire stupefacente, ma a distanza di oltre due secoli lo è ancora oggi.
Quasi contemporanee, le due grandi rivoluzioni da cui nasce il mondo moderno possono apparire, a prima vista, assai diverse nei principi ispiratori. E tuttavia, nell’uno come nell’altro caso, quale che sia stato il percorso tormentato della storia europea, a partire dalla rivoluzionaria irruzione del pensiero biblico nella cultura greco-romana, è nel cristianesimo che si ritrovano la prima radice e l’ispirazione della nostra civiltà, sia nelle sue espressioni religiose che in quelle laiche. Le successive «riscoperte» dei valori fondanti espressi e conservati nei testi biblici, che proclamano la discendenza da un solo uomo di tutti gli esseri viventi e di tutte le nazioni, si rivelano di fatto, fino ai tempi nostri, terreno fertile per rivoluzionarie svolte storiche. Fino, appunto, alla maturazione di quella dottrina dei diritti umani che è l’essenza della cultura contemporanea: una radice che continua a dare frutti, come ci racconta Godart, anche in terre lontane, e che mantiene ancora oggi, a mio avviso, tutta la sua fertilità, tutto il suo valore creativo, anche nei confronti del mondo contemporaneo e di quello a venire, che si annuncia assai problematico.
Non tutti ne sono consapevoli: ma i problemi dell’era nucleare in cui viviamo, e in cui vivranno per sempre le generazioni future (giacché le armi nucleari, col loro potenziale distruttivo che non conosce limiti, potranno anche essere distrutte, ma non potranno mai essere disinventate), impongono alle nazioni del nostro tempo, e a quelle che verranno se vorranno sopravvivere, di costruire quella «federazione universale di liberi Stati» che alla fine del Settecento Immanuel Kant riteneva già necessaria per liberare l’umanità dallo «stato di natura», ossia dallo «stato di guerra», che era o sembrava essere il destino naturale della nostra specie. È un fatto che dei conflitti nucleari potrebbero segnare la fine di tutto.
Guardando al futuro con lo sguardo necessariamente ansioso che ha la nostra generazione di sopravvissuti, Godart coltiva e sogna un simile disegno kantiano. È profondamente consapevole dell’importanza immensa delle conquiste ottenute grazie all’«eterna lotta per i diritti umani». Ma se definisce «fragile» la libertà di cui godiamo, lo si deve alla consapevolezza che «non vi sono mai acquisizioni irreversibili». Se, volgendo lo sguardo a un passato non lontano, si riportano alla mente le speranze, anzi le certezze, di quella che appariva come una ormai acquisita pacifica convivenza fra tutte le nazioni europee, negli anni a cavallo fra l’Otto e il Novecento, quando in realtà si stavano preparando le condizioni che avrebbero scatenato le due guerre più distruttive di tutta la storia, non si può non riflettere sulla validità di quel giudizio di Godart che abbiamo appena riportato: la libertà è fragile, perché non cesseremo mai di «dover difendere dall’ignoranza e dall’intolleranza il terreno conquistato».
Averci riproposto questi amari avvertimenti è un forte motivo per essere grati all’archeologo Godart di essersi avventurato, dopo avere distolto lo sguardo dagli splendori della civiltà ellenica, in questa sua sorprendente ricerca delle origini e della storia dell’«eterna lotta per i diritti umani».
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