In cerca dello spazio perduto

BRUXELLES. Alla vigilia del vertice del Consiglio europeo sulla crisi del Vecchio Continente, a Bruxelles anche il clima si è riscaldato. Nella sala del Parlamento europeo dove si svolge il vertice alternativo per cercare un’altra strada per l’Europa, con il coinvolgimento di società  civile, sindacati e forze politiche progressiste europee, nessuno si illude che oggi i 27 leader scodelleranno proposte di discontinuità  con quanto visto dall’inizio della crisi.

BRUXELLES. Alla vigilia del vertice del Consiglio europeo sulla crisi del Vecchio Continente, a Bruxelles anche il clima si è riscaldato. Nella sala del Parlamento europeo dove si svolge il vertice alternativo per cercare un’altra strada per l’Europa, con il coinvolgimento di società  civile, sindacati e forze politiche progressiste europee, nessuno si illude che oggi i 27 leader scodelleranno proposte di discontinuità  con quanto visto dall’inizio della crisi.
Dopo che per la sua debolezza e inconcludenza la scorsa settimana l’Ue è stata sbeffeggiata al G20 di Los Cabos e al vertice di Rio sullo sviluppo sostenibile, il Consiglio europeo si ritrova in una situazione di resa dei conti. L’atteso piano Van Rompuy, preparato dal Presidente del Consiglio, di concerto con la Banca centrale europea, il presidente dell’Eurogruppo e la Commissione europea, si è subito mostrato come un topolino partorito dalla montagna, così da non scomodare troppo la rocca tedesca. In dieci anni ci si muoverà verso un’integrazione fiscale, budgetaria e in una certa misura bancaria, ma il tema del debito che attanaglia la periferia viene lasciato pendente.
«L’altra strada europea» boccia il documento come la morte definitiva della democrazia continentale, chiedendo invece una riforma profonda e popolare dei trattati, responsabili in gran parte del pantano in cui siamo finiti. Analogamente, si rigetta come irrilevante l’intervento proposto di non ben definiti 130 miliardi di euro che dovrebbero essere uno stimolo per una ripresa in Europa. Per altro i project bond in salsa Ue rischiano di diventare l’ennesimo regalo ai mercati di capitale privati per finanziarie grandi opere non necessarie. Il tutto con il rischio che dopo alcuni anni la spesa si trasformi in debito per i paesi europei. Oramai il sogno di un green new deal all’europea, che riconcili la crisi ambientale e quella economica, si scontra inevitabilmente con la sfida di come finanziarlo, ma anche come concepirlo fuori dalla bieca logica dei mercati finanziari.
Ma oltre all’impresa titanica di ingabbiare i mercati, una domanda cruciale rimane in discussione nei movimenti e soggetti ieri radunatisi a Bruxelles: come riaprire uno spazio politico pan-europeo? Serve un contesto che superi le divisioni nazionali e bilanci gli attuali rapporti di forza con i poteri dei mercati che hanno preso in ostaggio le istituzioni europee, in primis la Commissione e il Consiglio europeo.
Ma serve pure ricostruire un’alleanza di un blocco sociale europeo, che ricolleghi sindacati e movimenti sociali, oggi attivi primariamente a livello nazionale, per poter quindi rilanciare una diversa iniziativa continentale. A questo punto però sorge l’ennesimo dilemma: bisogna prima cambiare le politiche liberiste che attanagliano un’Unione alla deriva, oppure la forma istituzionale, accettando però il rischio di avere una maggiore integrazione non necessariamente non liberista? Probabilmente vanno raccolte entrambe le sfide, sebbene il dramma dell’austerità ponga l’urgenza di collegare in un fronte unico gli impattati in Europa.
Probabilmente stasera la Germania dovrà cedere su qualche punto, ma solo minoritario. Berlino riuscirà a blindare il dogma dell’austerità e la cessione della sovranità fiscale come precondizione per discutere di solidarietà in futuro. Italia e Spagna potranno forse spuntare qualche meccanismo machiavellico per ammorbidire lo spread, ma quanto questo possa durare di fronte ai volteggi dei mercati è questione aperta. Qualche piccolo passo, per continuare a non muoversi sulle questioni centrali.
Debito in primis. Il dramma greco è ancora lì, e di fronte ai ritardi nel muovere Eurobond e cambiare il mandato della Bce per salvare direttamente gli Stati stampando denaro. In molti ormai credono che si è superato il punto di non ritorno e solo una discussione sulla rinegoziazione del debito potrebbe riaprire un diverso spazio politico. Ma questo vorrebbe un’unità politica della periferia europea che oggi manca.
Allo stesso tempo la proposta di un’unione bancaria non mette in discussione la strutturazione attuale del sistema bancario europeo, non solo precario e vacillante per la sua bassa capitalizzazione, ma profondamente finanziarizzato e funzionale ai rapaci mercati finanziari. Se proprio ci dovrà essere un intervento di salvataggio con i soldi del nuovo fondo di stabilità, l’Esm, perché non risocializzare come Ue diverse banche private per portarle fuori dal mercato e renderle uno strumento di sostegno alla ripresa economica? Analogamente la Banca europea per gli investimenti e i suoi omologhi nazionali, quali l’italiana Cassa depositi e prestiti, potrebbero essere riportate in un alveo di politiche pubbliche. Alla fine la crisi bancaria europea rimane il tallone di Achille anche per la locomotiva tedesca, nonostante questa si stia lentamente disaccoppiando dal resto dell’Europa in termini commerciali e fiscali.

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