La Corte di Strasburgo ha condannato la Slovenia per avere violato i diritti umani con la decisione segreta del febbraio ’92 di cancellare anagraficamente l’esistenza di decine di migliaia di cittadini
La Corte di Strasburgo ha condannato la Slovenia per avere violato i diritti umani con la decisione segreta del febbraio ’92 di cancellare anagraficamente l’esistenza di decine di migliaia di cittadini
Martedì scorso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza davvero storica. Dopo il ricorso presentato esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006, da un gruppo di «cancellati», la Corte ha ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune gravissime violazioni dei diritti umani, riferite all’art.8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), all’art.13 (diritto a un rimedio legale effettivo) e all’art.14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando, inspiegabilmente, alcune posizioni particolari, la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma significativo, delle decine di migliaia di cittadini che furono illegalmente privati della «residenza permanente» il 26 febbraio ’92, così perdendo ogni diritto civile, politico, economico e sociale. Un’operazione di pulizia etnica in guanti bianchi, portata a termine con un colpo di mouse davanti ai terminali dei computer del Ministero degli Interni sloveno, e passata per anni inosservata nonostante gli effetti devastanti su migliaia di famiglie (l’ultima stima governativa ammette la «cancellazione» di 25.671 persone).
La decisione della Corte, assunta dalla Grande Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche perché applica la cosiddetta «procedura pilota», imponendo al governo sloveno di predisporre, entro un anno, uno schema di risarcimento per tutti i «cancellati». Al di là delle implicazioni economiche «da panico» per i media di Ljubljana, il dato politico è di enorme rilevanza: da martedì scorso la «cancellazione» è ufficialmente riconosciuta come un crimine contro i diritti umani. La sentenza seppellisce una volta per tutte il mito della success story slovena, di una secessione incruenta, condotta nel pieno rispetto dei principi democratici. Vent’anni fa, a Ljubljana, fu fissato un paradigma che prefigura nella forma più estrema e crudele il processo di spoliazione progressiva dei diritti che minaccia la società europea. Perché dai «cancellati» abbiamo imparato che Kafka è un autore neorealista: si limita a fotografare la realtà – con 80 anni d’anticipo.
Pirano, Slovenia, 1992. Un uomo svolta l’angolo sulla via di casa e intravvede dei poliziotti che gettano in strada le sue cose. Nato da genitori sloveni e cresciuto a Pirano, Milan Makuc si sente sloveno, ma per il nuovo stato indipendente è «solo jugoslavo». A sua insaputa, è stato cancellato dai registri di residenza permanente della Repubblica, perdendo tutto: casa, lavoro, assistenza sanitaria… Dall’appartamento, passa a una panchina del cortile. Sopravviverà grazie al buon cuore di qualche ex-concittadino. Quando l’abbiamo rintracciato, portava i segni di quattordici anni di «cancellazione»: un tumore gli mangiava il volto, nessun ospedale disponibile a curarlo. Dovettero farlo, quando sul tavolo della Corte di Strasburgo arrivò un fascicolo intitolato: «Milan Makuc e 10 altri c. Slovenia». Non era stato facile convincere Milan, temeva per la propria vita. «Sai, attraverso la strada, arriva una macchina, nessuno si accorgerà di niente…». Infine si decise, affidandosi all’ombrello della giustizia europea.
Il nostro gruppo si chiamava Karaula, come le caraule partigiane: piccole unità clandestine, ancorate ai colli fra Friuli e Slovenia. Avevano il compito di garantire i rifornimenti, assicurare i contatti fra le formazioni, raccogliere gli sbandati… La nostra si occupava di difendere i migranti. L’intervento spaziava dai campi rom della capitale agli scenari della memoria storica: con alcuni giovani di Ljubljana, girammo un documentario sui campi di concentramento fascisti in Friuli – compresi quelli di ultima generazione. Intervistavamo la gente all’uscita dalla messa di Pasqua, a Gradisca d’Isonzo, mentre il Cpt (oggi Cie) era in costruzione: «Scusi, ci sono dei campi di concentramento nei paraggi?» «Per adesso no…». Analizzando le tipologie di persone che finiscono nei lager attuali, che a volte (è il caso di Gradisca) vengono realizzati in perfetta continuità con quelli di ieri, c’imbattemmo nei «cancellati».
In Slovenia, con un’operazione segreta, decine di migliaia di cittadini erano stati trasformati in morti viventi, uomini senza diritti. Per mesi, a volte anni, molti di loro hanno continuato a esercitare, come per inerzia, le attività abituali. Un bel giorno venivano fermati dalla polizia, o entravano in un ufficio per rinnovare un documento. «Ci porti anche il passaporto…». Lo bucavano sotto i loro occhi, con un’apposita foratrice di metallo.
Le istituzioni europee fingevano di non vedere, compresi i nostri campioni, Romano Prodi e Riccardo Illy. Non c’era avvocato, in Slovenia, disposto a difendere i «cancellati». Così, anche dopo il primo articolo di denuncia di Tommaso Di Francesco sul manifesto del maggio 2004 che di fatto aprì la campagna, decidemmo di cercarlo in Italia. La caraula tenne fede al suo nome, assicurando un’efficace connessione fra movimento sloveno e italiano. I «cancellati» manifestavano a Gradisca, i compagni di Monfalcone in Slovenia. Ognuno fece la sua parte, dai centri sociali del Nord-Est alla Fiom, fino alla pattuglia di parlamentari del Prc a Bruxelles. L’idea del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani la dobbiamo ai rom del Casilino: aveva funzionato cinque anni prima, quando l’avvocato Luigi Lusi s’era fatto carico, su mandato di Rutelli, di ripulire la capitale dagli zingari nell’anno del Grande Giubileo.
Per mesi, a Ljubljana, un gruppo di giovani ha intervistato persone, raccolto dati, interpretato e tradotto leggi, certificati, circolari. Lavoro militante, senza un centesimo in cambio. Al più una birra e un piatto di cevapcici offerti dai «cancellati». Periodicamente ci fiondavamo a Roma a concordare con gli avvocati, Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, la strategia da seguire. Carla Casalini ci ospitava la domenica, nella pagina europea del manifesto, dandoci modo di perfezionare lo stile e affilare le armi. Ne uscì un’iniziativa robusta, per la qualità della documentazione e l’eccellente contributo tecnico dei legali dello studio Lana.
Non era un compito facile: le regole della Corte paiono fatte apposta per tenere alla larga chi ne ha veramente bisogno. Al fine di garantire l’ammissibilità del ricorso, selezionammo undici casi fra centinaia di «candidati». Il 26 giugno, a Strasburgo, degli undici siluri lanciati nel 2006, sei hanno centrato il bersaglio.
Fra quelli che non ce l’hanno fatta, Velimir Dabetic. Nato a Capodistria (Slovenia) nel ’69, era in Italia per lavoro e dopo la «cancellazione» non è potuto rientrare nel suo paese. Da dieci anni s’aggira per la riviera romagnola facendo il saltimbanco: i suoi due collaboratori sono in regola, iscritti all’anagrafe canina, ma Velimir non ha uno straccio di documento. Ogni tanto i poliziotti lo fermano, lo tengono dentro per un po’, poi lo mollano. Un paio d’anni fa gli hanno notificato un decreto di espulsione verso… la Romania.
La Corte di Strasburgo aveva atteso quattro anni, prima di dar ragione a Velimir, nel 2010. L’altro giorno ci ha ripensato: a vent’anni e quattro mesi esatti dal 26 febbraio ’92, ha deciso che Velimir Dabetic, apolide e senza mezzi di sussistenza, deve restare «cancellato» a vita.
Nemmeno Milan Makuc godrà i benefici della sentenza. Fu trovato morto qualche anno fa, nella misera stanza che gli aveva concesso la municipalità di Pirano. Il suo corpo venne cremato a tempo di record, senza informare i familiari. Accade anche in Italia, fra rom e «clandestini» – i nostri «cancellati».
Al funerale parteciparono una decina di persone. Con involontaria ironia il prete ricordava ai presenti che non abbiamo, su questa terra, «residenza permanente». Si formò un piccolo corteo, preceduto da un becchino in uniforme, con una bandiera nera. Dopo la cerimonia, abbiamo scoperto che era un «cancellato» pure lui. Reggeva il vessillo con la fierezza di un alfiere, scortando l’urna di Milan lungo i viali del magnifico cimitero di Pirano – un’isola di luce, battuta dalla brezza marina, dove le lapidi parlano tutte le lingue d’Europa.
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