Panorama musicale. Nell’eco della memoria la voce di una cultura che rischiamo di perdere
Panorama musicale. Nell’eco della memoria la voce di una cultura che rischiamo di perdere
La musica e la montagna sono come due sorelle che si danno la mano scendendo sul profilo alto dell’orizzonte e sulla silhouette dei ricordi di tante generazioni.
Mio nonno, che era un contadino della Bassa veronese, cantava le canzoni di montagna, legate alla sua giovinezza di soldato della Grande Guerra, con la stessa intensità e devozione degli inni sacri.
Nelle grandi feste dedicate al lavoro dei campi, come per la fine della trebbiatura, dopo la grande cena con ballo finale nella corte della casa colonica, rimaneva seduto a capotavola della lunga tavolata sull’aia col suo mozzicone di toscano a mezza bocca e, dopo aver chiamato col cappello il silenzio, intonava con altri uomini giovani e anziani, davanti alle donne e ai bambini, quelle vecchie e tristi canzoni che aveva imparato da ragazzo in trincea, finché le fessure dei suoi occhi blu, poco a poco, sbiadivano e sbandavano sulle lacrime.
L’intensità di quelle canzoni modulate a più voci, le parti sussurrate e quelle cantate a voce spiegata, mi incisero nel cuore una mappa segreta e furono decisive, oggi capisco, per il mio lavoro futuro di scrittore, specialmente di canzoni. Il nonno, come tanti uomini di pianura, aveva conosciuto la montagna per la prima volta con la guerra e aveva scoperto un ambiente totalmente diverso e inatteso. Le nebbie erano fatte da nuvole e non dall’umidità invernale della campagna e dei fossi e poi le vedute erano ampie e i paesaggi erano composti di pietre e imponenti guglie di roccia, che in pianura, dove tutto era erba, fango e mattoni, ricordavano solamente le chiese e i cimiteri. La montagna alpina, i suoi panorami e la sua musica, le sue visioni, il clima rigido e le fatiche, la sua cultura, si diffusero in gran parte della pianura e del resto d’Italia specialmente con la Grande Guerra. La maggior parte dei sopravvissuti ritornarono dopo anni sulle trincee dell’Altopiano di Asiago, del Carso, del Monte Grappa o della Marmolada con i figli e i nipoti. Non c’era modo migliore per esorcizzare quei ricordi tremendi e abbeverare quelle ferite mai chiuse con la memoria sicura e inconsolata della musica e della poesia di popolo a ricordare allora e ancora chi non c’era più.
Con mio padre, con la scuola o con i preti, sono spesso tornato in gita in quei luoghi: l’Ossario del Monte Grappa, quello del Pasubio e sull’Ortigara. Si andava come a dei santuari sul monte Olimpo, eternamente avvolti dalle nubi e, arrivati lassù, si stava per un po’ a capo chino ognuno per conto suo, come in preghiera, cantando sommessamente con qualcuno che ti faceva, poco lontano, la controvoce.
Si saltava sulla corriera, si buttava lo zaino nel baule e al chiudersi delle porte si attaccava subito: «Dove sei stato mio bell’alpino che ti ga cambià colore?/ È stata l’aria del Trentino che mi ga cambià colore!». Così le camminate per sentieri e rifugi erano fatte di tanti silenzi e di tanta musica che si specchiavano tra loro. Lo sforzo delle salite e il sacrificio degli scarponi duri di cuoio ai piedi e degli zaini pesanti sulle spalle, nell’epoca pre-goretex, avevano nella sosta per il pranzo al sacco o la polenta nel rifugio e nel viaggio per strada di andata e ritorno, la loro festa e il loro compimento, nella coralità condivisa dalle tante generazioni presenti.
Oggi nel nostro paese sarebbe surreale per i ragazzi cantare con i genitori o i nonni le stesse canzoni ed è questo il segno infelice di un distacco, di una distanza minacciosa e di una mancanza di curiosità per chi ci ha preceduto. Un vuoto che non chiede al passato e non deve al futuro. Quella musica e quelle grandi canzoni ci facevano invece riconoscere e sentire di appartenere ad una comunità che aveva fatto una lunga strada di sofferenza e di sacrificio per la sopravvivenza e per la libertà.
Quando a ventidue anni scrissi la canzone «Andrea» con Fabrizio De André, c’era senz’altro il percorso di tante di quelle canzoni ascoltate e cantate negli anni. «Andrea s’è perso e non sa tornare/ C’era scritto sul foglio che era morto sulla bandiera, c’era scritto e la firma era d’oro era firma di re / Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia».
Ho composto poi altre canzoni legate a quella sensibilità e a una cultura alpina che in Italia è piuttosto esulata, dedicando qualche anno fa un intero album, «Quel lungo treno», alla Grande Guerra e poi canzoni come «Rosso su verde» ispirata da una ritrovata lettera d’amore di un mio prozio morto sul Grappa. E ogni volta che mi fido a cantare quelle canzoni in qualche concerto d’estate nelle piazze bordate di chiacchiere e distrazioni telefoniche, quasi sempre si crea man mano un silenzio soffuso e compunto nell’ascolto di una musica che viene da altri giorni, da altre altezze ed altre solitudini.
Ogni cultura va rifocillata e rivisitata come un amico che tanto ha raccontato e molto ascolta ancora, per evitare che la musica delle bianche luci e delle alte ombre sia contagiata dall’avulsa eccentricità propositiva o dall’iconografia delle camicie a scacchi di cori dalle eccessive ricercatezze armoniche e affette da barocchismi inutili, per non perdere di vista l’emotività e la forza della musica e della poesia alpina e il suo spirito di pietra e di legno, figlio di una cultura semplice da ascoltare e difficile da definire come la musica e la montagna.
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