ILPOTERE DEI FOLLOWER

Dai politici sempre su Twitter ai governanti sotto ricatto di telefonini e filmati caricati online, la tecnologia fa dipendere anche le scelte dalla “popolarità ” e dal numero di seguaci.  I leader estinti dai social network che li giudicano minuto per minuto

Dai politici sempre su Twitter ai governanti sotto ricatto di telefonini e filmati caricati online, la tecnologia fa dipendere anche le scelte dalla “popolarità ” e dal numero di seguaci.  I leader estinti dai social network che li giudicano minuto per minuto

LA SCORSA settimana, mentre mi trovavo in Europa, ho avuto l’impressione che quasi tutte le conversazioni si concludessero con questa domanda, declinata nelle sue diverse forme: perché i leader capaci di esortare il popolo a far fronte alle sfide della nostra epoca sembrano così pochi? Questa penuria di leadership su scala globale ha molte spiegazioni, ma vorrei concentrarmi in particolare su due: la prima, generazionale e l’altra, tecnologica.
Partiamo da quella tecnologica. Nel 1965 Gordon Moore, co-fondatore di Intel, postulò la “legge di Moore”, secondo la quale la potenza dei microprocessori sarebbe raddoppiata ogni 18-24 mesi. Quell’assunto ha resistito bene al passare del tempo. Osservando i leader europei, arabi e statunitensi alle prese con le rispettive crisi, mi domando se la legge di Moore non abbia forse un corollario politico: la qualità della leadership politica diminuisce ogni cento milioni di nuovi utenti di Facebook e di Twitter.
In un mondo di media sociali e telefonini in grado di connettersi alla Rete, la natura del dialogo tra leader e popoli sta cambiando ovunque: stiamo passando da un dialogo prevalentemente a senso unico – dall’alto verso il basso – a uno preponderantemente a doppio senso – dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso.

Ciò presenta numerosi vantaggi: più partecipazione, più innovazione e più trasparenza. Ma è possibile che la partecipazione diventi troppa? Che i leader prestino ascolto e inseguano in ogni momento così tante voci da diventarne schiavi?
Mercoledì scorso, su un articolo di Politico.com è apparsa la seguente frase: «I team elettorali di Obama e Romney passano il tempo ad attaccarsi su Twitter, e contemporaneamente denunciano la prolungata mancanza di proposte elettorali serie. Tuttavia, quando hanno avuto l’occasione di spiegare tutte le loro forze hanno quasi sempre scelto di volare basso».
La scorsa settimana a Londra mi è addirittura capitato di sentire una parola nuova: “popolarismo”. È la über-ideologia dei nostri tempi. Leggi i sondaggi, segui i blog, tieni il conto dei messaggi che appaiono su Twitter e degli stati di Facebook e dirigiti esattamente là dove si trovano gli altri – e non dove pensi che dovrebbero andare. Ma se tutti “seguono”, chi dirige?
C’è poi il fattore esposizione. Oggi, chiunque possiede un telefonino è un paparazzo; chiunque abbia un account di Twitter è un cronista; chiunque ha accesso a YouTube è un regista. Quando tutti sono paparazzi, reporter e registi, gli altri sono personaggi pubblici. E per un personaggio realmente pubblico – un politico – lo scrutinio può diventare talmente sgradevole
da rendere la vita pubblica qualcosa da evitare a ogni costo. Alexander Downer, ex ministro degli Esteri australiano, mi ha recentemente fatto notare che «molti leader sono sottoposti a uno scrutinio senza precedenti. E mente ciò non scoraggia i migliori tra loro, la costante e ridicola interazione con il pubblico rende più difficile per loro il compito di prendere delle decisioni sensate e coraggiose».
Per quanto riguarda il mutamento generazionale, siamo passati dalla “più grande generazione d’America”, che credeva nell’importanza di risparmiare e investire per il futuro, a una generazione di “baby boomer”, che credevano nel prendere denaro a prestito e spenderlo subito. Basta mettere a confronto George W. Bush con
suo padre George H. W. Bush. Dopo essersi arruolato come volontario nella Seconda guerra mondiale all’indomani di Pearl Harbor, questi ebbe occasione di temprarsi come leader durante la guerra fredda – un’epoca nella quale si faceva sul serio, e i politici non potevano semplicemente limitarsi a seguire i sondaggi. Una volta diventato presidente, Bush padre ha aumentato le tasse quando la prudenza fiscale lo richiedeva. Suo figlio, un “baby boomer” che si è sottratto alla leva, è stato invece il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a tagliare le tasse mentre il Paese era alla prese non con una, bensì con due guerre.
Quando si dispone di tecnologie che facilitano reazioni e giudizi rapidi e immediati, e quando si ha a che fare con una generazione abituata a ricevere gratificazioni istantanee — ma ci si trova a dover affrontare dei problemi le cui soluzioni richiedono traiettorie complesse, come l’attuale crisi creditizia o la mancanza di posti di lavoro o l’esigenza di ricostruire da zero i Paesi arabi – si è alle prese con un’autentica discrepanza – nonché una sfida per la leadership. Quasi ogni leader oggi deve chiedere al proprio popolo di farsi carico degli oneri, e non limitarsi a godere dei benefici, e di studiare di più e lavorare meglio – e tutto questo solo per tenersi al passo. Ciò richiede una leadership straordinaria, che deve iniziare con il mettere i cittadini a parte della verità.
Dov Seidman, autore del libro How e fondatore della Lrn,
un’azienda che offre consulenze di leadership ai dirigenti di impresa, afferma da tempo che «nulla ispira le persone più della verità». Molti leader ritengono che raccontare la verità possa renderli vulnerabili – rispetto al pubblico o ai loro avversari. Ma si sbagliano.
«L’aspetto più importante del dire la verità è che così facendo si rafforza il legame con chi ci ascolta», spiega Seidman. «Perché quando dimostriamo di avere fiducia negli altri mettendoli a parte della verità, questi a loro volta si fidano di noi». I leader che nascondono i fatti creano ai loro cittadini ulteriori problemi e più confusione. «Dimostrare fiducia negli altri condividendo con la realtà dei fatti equivale a fornire loro un pavimento solido», aggiunge Seidman. «È una scelta che obbliga ad agire. È quando ci si trova ancorati a una verità condivisa che si inizia a risolvere insieme i problemi. E questo è il primo passo per migliorare la propria situazione».
Non è così che vediamo comportarsi i leader dell’America, del mondo arabo e dell’Europa. Si sarebbe portati a credere che uno di loro, almeno uno, avrebbe colto l’occasione per mettere i propri cittadini al corrente dei fatti, spiegando loro a che punto si trovano, quale dovrebbe essere il loro obiettivo, quale strategia occorre seguire per raggiungerlo e qual è il contributo che ciascuno di loro deve dare affinché la situazione migliori. Un leader che si comporta così avrà dei “seguaci” e degli “amici” in carne ed ossa – e non virtuali.
(Traduzione di Marzia Porta) © The New York Times-la Repubblica

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