Una cruenta e secolare politica della popolazione

Fra la guerra di Crimea e la morte di Stalin (1853-1953) circa trenta milioni di persone in Europa vennero espulse, deportate o costrette a emigrare. L’area interessata coincise con l’«Europa di mezzo», divisa fino alla Prima guerra mondiale fra gli imperi zarista, tedesco, asburgico e ottomano.

Fra la guerra di Crimea e la morte di Stalin (1853-1953) circa trenta milioni di persone in Europa vennero espulse, deportate o costrette a emigrare. L’area interessata coincise con l’«Europa di mezzo», divisa fino alla Prima guerra mondiale fra gli imperi zarista, tedesco, asburgico e ottomano.

Il fenomeno si concentrò soprattutto nella prima metà del Novecento, a partire dalle guerre balcaniche, toccando l’apice negli anni Trenta e Quaranta. Spaziando dalla Russia asiatica ai profughi istriani di casa nostra, i ricercatori Antonio Ferrara e Niccolò Piaciola restituiscono nel volume «L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953» (Il Mulino, pp. 509, euro 29) la dimensione storica di un fenomeno molto spesso rimosso dagli studi delle migrazioni. In un susseguirsi di pulizie etniche, pogrom, deportazioni di massa e pratiche di stermino – la Shoah, ne è l’esempio più drammatico – gli equilibri sociali, politici e economici di un intero continente furono drasticamente cambiati. Da questo punto di vista, le migrazioni forzate furono veri e propri esempi di una «politica della popolazione» attraverso la quale imperi e stati nazionali si presero «cura» della vita di uomini e donne al fine non solo in termini di tecnologie del controllo sociale, ma per garantire quell’incessante processo che è stata l’accumulazione primitiva di capitale in molti regioni del vecchio continente.

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