L’ex ministro Scotti: fui cacciato e su Cosa nostra si cambiò linea

Vincenzo Scotti, 78 anni, è stato uno dei politici più influenti della Democrazia cristiana. Fu eletto deputato per la prima volta nel 1968 e poi, dalla fine degli anni Settanta è stato più volte sottosegretario e ministro. Fra il 2008 e il 2011 è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu ministro dell’Interno. In quegli anni la mafia iniziò la strategia stragista con l’omicidio di Salvo Lima e l’attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone. Al Viminale gli successe Nicola Mancino

Vincenzo Scotti, 78 anni, è stato uno dei politici più influenti della Democrazia cristiana. Fu eletto deputato per la prima volta nel 1968 e poi, dalla fine degli anni Settanta è stato più volte sottosegretario e ministro. Fra il 2008 e il 2011 è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu ministro dell’Interno. In quegli anni la mafia iniziò la strategia stragista con l’omicidio di Salvo Lima e l’attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone. Al Viminale gli successe Nicola Mancino
A Palermo, l’8 giugno scorso, è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo sulla vicenda della presunta trattativa fra la mafia e lo Stato ROMA — «Premesso: sulla presunta trattativa Stato-mafia non dico una parola. Ci sono indagini in corso eppoi io ho già detto tutto nel mio libro, “Pax mafiosa o guerra? A vent’anni dalle stragi di Palermo”. Una cosa, però, mi sento di dirla… ».
La prego, presidente Scotti…
«Credo sia giunto il momento di aprire una riflessione politica nel Paese, per affrontare la questione della “presunta trattativa” in modo laico, cioè senza pregiudiziali ideologiche e senza fare processi in piazza. La democrazia ha bisogno di trasparenza e di chiarezza».
Chiarissimo, presidente Vincenzo Scotti, classe 1933, vecchia volpe democristiana, nel secolo scorso soprannominato «Tarzan» per la sua indiscussa abilità nel «saltare» da una corrente all’altra del partito. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu il ministro dell’Interno della Repubblica. L’attacco della mafia allo Stato era in pieno svolgimento: con la strage di Capaci e, ancora prima, l’omicidio di Salvo Lima. L’8 giugno scorso, a Palermo, Scotti è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo.
Lei dice che è arrivato il momento di fare chiarezza. Ma come?
«Io credo che la politica debba evitare soprattutto che negli elettori, nei cittadini, cresca la sfiducia, che si alimenti l’idea di una Patria dei misteri. E questo, a proposito della presunta trattativa, si può ottenere chiarendo, già davanti alla Commissione antimafia, che cosa realmente accadde. E perché».
Qualcuno però dovrebbe farsi avanti…
«Non faccio nomi, ma sicuramente tutti i presidenti del Consiglio, i ministri dell’Interno e della Giustizia, tutti i capi delle forze dell’ordine e i responsabili della magistratura dell’epoca, diciamo tra il ’90 e il ’97, con un po’ di coraggio potrebbero certamente contribuire a fare chiarezza. Anche perché la partita con la mafia è ancora aperta».
Ma ci fu o no la trattativa tra lo Stato e Totò Riina per evitare altre stragi?
«Non ho elementi per dirlo. Di sicuro dopo di me ci fu un cambiamento di linea, questo mi pare evidente. Lo ha detto Conso pubblicamente (Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel ’93, ndr): lui non confermò i 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr)».
E lei invece fu fatto fuori…
«Certi giudizi appartengono all’analisi storica, ma certamente mi hanno fatto fuori».
Chi? E perché?
«L’analisi storica… Già nel ’91 ci fu un grosso punto di rottura con la mafia. Ricordo il decreto legge, davvero sul filo della legittimità costituzionale, con cui rimettemmo in prigione, io ero all’Interno, Martelli alla Giustizia e Andreotti premier, tutti i mafiosi del maxiprocesso tornati in libertà per una sentenza della Cassazione che dichiarava scaduti i termini della carcerazione preventiva. Cossiga, allora presidente della Repubblica, lo definì un mandato di cattura per decreto legge. Ma quello fu soltanto l’inizio. Prima delle stragi del ’92 dichiarai in marzo lo stato d’allerta perché mi erano giunte precise informazioni, tra cui un memoriale del noto depistatore Elio Ciolini, depositato al tribunale di Bologna. In questo documento si faceva chiaramente riferimento alla mafia e a possibili stragi in arrivo. Nessuno mi credette».
E dopo Capaci lei tornò alla carica per rafforzare il 41 bis, senza aspettare l’insediamento del nuovo governo Amato. Ma il 28 giugno ’92 si ritrovò ministro degli Esteri…
«Per questo dico che il problema non si può lasciare, con tutto il rispetto, alla magistratura. Il problema è politico e lo dobbiamo affrontare anche per rispetto di tutti quelli che hanno dato la vita, che hanno pagato col sangue la lotta alla mafia. Per questo è giusto farsi avanti, raccontare tutto quello che accadde, senza la paura di passare per traditori, perché comunque lo Stato la lotta alla mafia negli anni l’ha fatta bene e con ogni mezzo, non solo con la repressione ma con una legislazione modello. Però anche noi politici siamo esseri umani, non siamo robot e pur sapendo dall’inizio i rischi che corriamo ci portiamo dietro le nostre paure…».
Paure, misteri, veleni. Il suo successore all’Interno, nel ’92, Nicola Mancino, in questi giorni è diventato un caso per aver chiesto aiuto al Colle in diverse telefonate…
«Non so valutare la sua reazione: di Mancino nel mio libro si parla bene, un uomo e un politico di grande livello, già presidente del Senato, sulla soglia del Quirinale… Certo tutte queste tensioni non aiutano la chiarificazione nel Paese».
E il presidente Napolitano ha fatto bene o male a intervenire sulla vicenda con la lettera inviata al Pg della Cassazione?
«Il presidente della Repubblica, per favore, lasciamolo stare. Lasciamolo lavorare tranquillo per il bene del Paese, perché la situazione è grave, c’è la crisi, la patria è in pericolo. Scherziamo con i fanti ma… ».

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