Nei suoi versi s’incrociano violenza e allegria
Nei suoi versi s’incrociano violenza e allegria «C he cosa vogliono i poeti?» ha chiesto una volta un amico filosofo a Charles Simic. «Era notte inoltrata e stavamo bevendo molto vino e quindi ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente: vogliono conoscere ciò che non si può tradurre in parole».
È una risposta buona come un’altra, ma evidentemente non basta al poeta laureato serbo-americano che negli ultimi anni ha collezionato più allori di chiunque altro nel suo Paese d’adozione, a giudicare da quante altre risposte a quella domanda dà Simic nel corso de Il mostro ama il suo labirinto, un libro denso di pensieri, aforismi e ricordi presi dai suoi taccuini personali, che Adelphi ha appena pubblicato nella traduzione di Adriana Bottini.
I poeti vogliono molte cose, nell’universo di quest’uomo nato a Belgrado nel 1938, che ha passato i primi undici anni della sua vita a sforzarsi di sopravvivere alla guerra e ai totalitarismi e gli altri sessantatré a cercare l’assimilazione in un Paese in principio luminoso e accogliente, che oggi, dopo decenni di insegnamento all’Università del New Hampshire, gli appare cinico e «sempre più ignorante», «perché arricchirsi alle spalle degli stupidi è più facile che farla in barba agli illuminati e ingannare gli americani è una delle poche industrie nostre che siano sempre in crescita» (vedi il suo blog sulla «New York Review of Books»).
Vogliono, i poeti — dice Simic in questo libro le cui parole scorrono come un corso d’acqua trasparente sui ciottoli della Storia e della Conoscenza — «vedere ciò che il filosofo pensa»; sperimentare l’arte come riduzione (con Lévi-Strauss) e la poesia come vocabolario (con Gertrude Stein); vogliono lasciare all’insipienza dei critici letterari parole come «messaggio» e «contenuto», perché «nell’arte vera non ci sono né l’una né l’altra cosa». E vogliono «fare una cosa che ancora non esiste, ma che una volta creata sembra sia sempre esistita». Ma soprattutto, nell’universo di questo poeta carnale, per cui «il culo nudo di quella donna è più attraente del paradiso», vogliono «scrivere un libro di poesie che mandi in malora l’industria del Viagra».
Diviso in cinque capitoli fatti di frasi e paragrafi staccati, Il minotauro ama il suo labirinto affronta i ricordi d’infanzia del poeta i cui colori saranno familiari ai lettori delle sue poesie già tradotte (Adelphi ha pubblicato Hotel Insonnia e Club Midnight). Violenza e allegria si mescolano in queste pagine: mangiare meloni in giardino sotto il sole caldo, mentre le bombe cadono su Belgrado; pensare al padre che esce in punta di piedi dal carcere di Milano dove lo hanno rinchiuso i tedeschi, con le scarpe in mano nel caso fuori ci siano ancora i nazisti; e quella domanda, il giorno che giustiziavano un uomo nel campo davanti a casa: «Posso andare a vedere?, chiesi alla mamma. Dio mi perdoni».
In una lunga intervista alla «Paris Review», Simic ha raccontato che dopo l’Europa annerita dalla guerra New York gli è apparsa a sedici anni solare e colorata come il set di un luna park pieno di maghi incantatori di serpenti e mangiatori di spade. Mentre la Chicago dove la sua famiglia si sarebbe poi fermata, «un’edizione illustrata del Manifesto comunista», con il suo lungo lago di palazzi smaglianti e subito dietro gli slum operai.
«Scrivo per irritare Dio e per far ridere la Morte» dice Simic. «Scrivo perché non ci arrivo. Scrivo perché voglio che ogni donna del mondo s’innamori di me. Ma alla fine tutto si riduce al fatto che scrivo perché scrivo»: in inglese, la lingua della sua identità acquisita.
Solo che qui, nel Labirinto, Simic scrive anche per giocare. «Una poesia è come una rapina in banca: l’idea è di entrare, attirare l’attenzione, prendere i soldi e scappare». E per tradurre in prosa una poetica fatta di sensazioni e di sogni luminosi.
«La verità è che ogni volta che ci sdraiamo siamo più vicini al cielo. Se non ci credete, guardate il gatto, come si rotola sulla schiena con le zampe in aria. Un mattino di sole dopo il temporale notturno è un invito in paradiso e così siamo saltati giù dal letto con l’idea di vestirci in fretta, solo che poi abbiamo cominciato a baciarci e passo passo ci siamo ritrovati di nuovo a letto, stupiti di vedere sopra la testa il soffitto e non il cielo azzurro».
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