GENOVA 2001. Undici anni dopo i fatti, la Cassazione sta mettendo la parola fine – per quanto riguarda il versante giudiziario – all’accertamento dei gravissimi strappi della legalità intervenuti a margine del G8 di Genova del luglio 2001. Sintomo della lentezza del nostro sistema giudiziario ma anche delle difficoltà e degli ostacoli che hanno caratterizzato indagini e dibattimenti. Qualche giorno fa è stata depositata la motivazione della sentenza che, annullando la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Genova, ha assolto Giovanni De Gennaro dalla imputazione di concorso in falsa testimonianza in relazione alle violenze nella scuola Diaz e a breve è attesa la decisione sul merito di tali fatti e sui falsi che li hanno seguiti.
GENOVA 2001. Undici anni dopo i fatti, la Cassazione sta mettendo la parola fine – per quanto riguarda il versante giudiziario – all’accertamento dei gravissimi strappi della legalità intervenuti a margine del G8 di Genova del luglio 2001. Sintomo della lentezza del nostro sistema giudiziario ma anche delle difficoltà e degli ostacoli che hanno caratterizzato indagini e dibattimenti. Qualche giorno fa è stata depositata la motivazione della sentenza che, annullando la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Genova, ha assolto Giovanni De Gennaro dalla imputazione di concorso in falsa testimonianza in relazione alle violenze nella scuola Diaz e a breve è attesa la decisione sul merito di tali fatti e sui falsi che li hanno seguiti. Si tratta di processi e sentenze importanti per la stessa tenuta della nostra democrazia.
La prima decisione – va detto senza mezzi termini – è stata assai deludente. Conviene riassumere la vicenda. L’accertamento dei fatti «di inusitata violenza» commessi da operatori di polizia nella scuola Diaz la notte tra il 21 e il 22 luglio si è scontrato con un muro di silenzi istituzionali, di omertà, di falsi che hanno riguardato l’identità degli esecutori, la dinamica degli eventi, il contesto in cui si sono realizzati, la catena di comando che li ha determinati (o, quantomeno, favoriti e coperti). Era questo il vero nodo dei processi: ben più dell’esistenza e dell’entità delle violenze, documentate al di là di ogni dubbio dalle immagini dei corpi insanguinati portati fuori dalla Diaz mentre il responsabile delle relazioni esterne della polizia, Roberto Sgalla, parlava, senza vergogna, di «lesioni pregresse» riscontrate su alcuni estremisti. Superfluo dire che il portavoce del capo della polizia non era lì per caso e che accertare le ragioni della sua presenza era decisivo: anzitutto perché, se a mandarcelo era stato De Gennaro veniva, a dir poco, avvalorata l’ipotesi di un controllo diretto e continuativo dell’operazione da parte del vertice della polizia. Sul punto, non sono mancate le contraddizioni. In particolare, il questore di Genova, Fabrizio Colucci, dopo avere dichiarato, nell’immediatezza dei fatti, alla Commissione parlamentare di indagine e ai pubblici ministeri procedenti, che Sgalla era sul posto per decisione del capo della polizia, il 3 maggio 2007, sentito dal tribunale, ha modificato versione assumendosi la paternità dell’invio. Ad apparire singolare ai pubblici ministeri è stata la circostanza che quel radicale mutamento nella deposizione, che è valso a Colucci un processo per falsa testimonianza, sia intervenuto all’esito di un incontro con De Gennaro, da lui riferito e commentato in una serie di telefonate (intercettate) avvenute con Mortola (già capo della Digos di Genova all’epoca dei fatti), ed abbia determinato – sempre secondo quanto riferito da Colucci a Mortola – i «complimenti» del capo della polizia. Di qui la contestazione a De Gennaro di avere indotto Colucci a mentire.
Orbene, l’argomento principe usato dal Supremo Collegio per escludere la responsabilità del capo della polizia è che, in ogni caso, la deposizione di Colucci era «priva di ogni profilo di seria pertinenza con i fatti reato integranti la re giudicanda del processo Diaz». In altri termini, uscendo dal giuridichese: la ragione della presenza all’irruzione nella Diaz del portavoce del capo della polizia non ha alcun interesse (sic!) neppure ai fini della ricostruzione dell’accaduto e della determinazione della responsabilità dei protagonisti. Si tratta, all’evidenza, della (apodittica) riduzione dei fatti a condotte improprie di alcuni agenti, con rimozione di ogni possibile diversa ricostruzione. Non è un bel segnale. E non c’è bisogno di fare delle dietrologie per coglierlo.
Se si tratta di un incidente di percorso o di una scelta generalizzata, tesa a chiudere la stagione del controllo giudiziario sulle devianze dei poteri forti, lo dirà l’imminente sentenza della Cassazione sui fatti della Diaz. Il problema – superfluo dirlo per chi crede nel garantismo – non riguarda la posizione di questo o quel funzionario ma l’impostazione complessiva dell’accertamento. Ciò che la Corte dovrà dire è se la (pacifica) falsa attestazione del rinvenimento di molotov all’interno della Diaz è un insignificante accidente o la chiave di volta per comprendere (anche) come si è arrivati a quelle efferate violenze e quale catena di comando le ha generate o consentite. Superfluo dire che la questione riguarda non solo il passato ma anche il futuro e che su di essa si gioca la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Fiducia a cui non sono estranei i comportamenti degli apparati (e neppure quelli dei supremi giudici).
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