LEON NEAL/AFP/Getty Images

 Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il 19 maggio scorso, ha sollevato unàeccezione di incostituzionalità  – appoggiata dalla procura del capoluogo toscano – sul secondo comma dell'articolo 18 dell'ordinamento penitenziario, che impone la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da parte della Polizia Penitenziaria

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Carcere, per un diritto all’affettività 

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 Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il 19 maggio scorso, ha sollevato unàeccezione di incostituzionalità  – appoggiata dalla procura del capoluogo toscano – sul secondo comma dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impone la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da parte della Polizia Penitenziaria

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 Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il 19 maggio scorso, ha sollevato unàeccezione di incostituzionalità  – appoggiata dalla procura del capoluogo toscano – sul secondo comma dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impone la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da parte della Polizia Penitenziaria

Ora la norma, grazie alla decisione della dottoressa Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, potrebbe essere cancellata per sempre dalla Corte Costituzionale. ”Si tratta di una disciplina che impedisce al detenuto l’intimità dei rapporti affettivi con il coniuge o il convivente, imponendo l’astinenza sessuale, favorendo il ricorso a pratiche masturbatorie o omosessuali, ricercata o coatta e così violando alcuni diritti garantiti dagli articoli 2, 3, 27, 29, 31, 32 della Costituzione”, si sostiene nel ricorso. La norma, quindi, finisce per ledere il principio di uguaglianza e il prezioso assunto secondo cui la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. E il mensile online, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, ha intervistato la dottoressa Fiorillo.

Da dove nasce la decisione di presentare il ricorso alla Corte Costituzionale?

Nasce dall’esperienza decennale in questo mondo e dagli incarichi precedenti, anche nel minorile. La situazione carceraria e quella penitenziaria in genere, l’ho sempre seguita. E mi pareva che fosse arrivato il momento per porlo il problema. Uno degli aspetti di quello che negli anni, purtroppo, è diventato il carcere: un contenitore vuoto di contenuti. Sovraffollamento, carenza di risorse, tutto. E’ inutile far l’elenco di quello che manca, perché manca tutto. Il livello di vivibilità e conseguentemente di rispetto della dignità si è abbassato ulteriormente. Può sembrare strano che in questa situazione possa venire in mente di affrontare il problema dell’affettività, ma è vero esattamente il contrario. Bisogna, sempre più, sottolineare i diritti fondamentali, tra i quali c’è l’affettività. Che è un diritto in generale, che comprende anche quello all’intimità, ma non solo. Perché è il diritto a una riservatezza che va riconosciuto.

Che speranze ci sono che la Corte vi dia ragione?

Non ho idea. È davvero difficile dirlo, non ha senso fare previsioni. L’unica cosa che posso dire è che il legislatore, se volesse, potrebbe risolvere il problema ben prima della Corte Costituzionale. Perché è una modifica culturale, non è un problema dal punto di vista legislativo, perché non richiede che pochi adattamenti.

Crede che si tratterebbe di un investimento per la società, che agevolerebbe un reinserimento sociale dei detenuti, umanizzandone la carcerazione?

Non c’è dubbio. Faremmo un passo importante verso quell’obiettivo rieducativo che io preferisco definire socializzazione. Oltre questo si raggiungerebbe l’obiettivo di abbassare la tensione interna alle carceri, restituendo così persone meno frustrate e arrabbiate alla società. Quello principale resta che si passa anche dall’affettività per aiutare una persona a ricostruire se stessa. I miracoli non si possono fare, ma si può agevolare un processo. Come nel caso del lavoro in carcere. Hanno sempre dato poco, hanno tagliato molto e oggi non lavora quasi nessuno con i detenuti. Come si aiuta un soggetto a ricostruirsi se non si lavora su questo? Non arrivano risorse.

Nella sua ordinanza cita esempi in altri paesi. Come funzionano le ‘stanze dell’affettività’?

Come ho scritto anche nell’ordinanza, questi meccanismi funzionano più o meno ovunque. Ho citato l’Europa dell’Est per sottolineare come anche gli stati che sono arrivati da poco nell’Unione hanno lavorato in questo senso. Hanno iniziato quelli del Nord Europa, poi quelli mediterranei. Tutti, più o meno. Basta studiare le modalità, ma funziona.

Considerata la disastrosa situazione delle carceri, non crede che si richiederebbe una difficile armonizzazione degli istituti penitenziari se la Corte accettasse il ricorso?

Niente di insormontabile. Facendo un’ ipotesi: per approntare un bilocale, o un monolocale non serve chissà quale sforzo. Non si parla di costruire un carcere da 800 posti ex novo. Basterebbe lavorare nelle strutture che già ci sono. Non è questo il problema, è un problema culturale.

Un problema culturale. Crede che l’opinione pubblica italiana sia pronta ad accettare l’idea che il carcere non deve avere un intento afflittivo?

I mass media hanno delle grandi responsabilità su questo aspetto. Vale per molte leggi e la riforma penitenziaria non fa differenza, anzi. Sulla formazione dell’opinione pubblica influisce il modo con il quale viene proposta. Noi abbiamo la riforma del 1975 che, pur in ritardo rispetto alla Costituzione, ha scelto di cambiare il settore. Non è una riforma nel solo interesse del detenuto, ma di tutti i cittadini. Restituire alla libertà un soggetto meno arrabbiato di quello che è entrato in carcere è un obiettivo utile a tutta la società. Questo scopo, dai media, non è mai stato comunicato. Sul carcere, sempre, si tende a una comunicazione di tipo morboso. Sono stati sempre messi in rilievo gli episodi negativi o gli elementi impressionanti. Perché, oggi, a far capire davvero la situazione delle carceri italiane non si è fatto. La colpa non è dell’opinione pubblica, perché non è una colpa non avere gli strumenti di conoscenza su una singola realtà. Bisognerebbe cambiare il modo di comunicare. Siamo al livello minimo storico: forse è il momento giusto per lavorare sull’idea che la persona che finisce in carcere mantiene inalterati determinati diritti. L’opinione pubblica dovrebbe essere aiutata a riflettere su questo punto, non dimenticando mai che tutti siamo liberi così come tutti possono finire in carcere. Delle prigioni dove vengono rispettati i diritti minimi delle persone è qualcosa che interessa tutta la società. Chi sbaglia paga, ma resta una persona. Questo è il passaggio culturale fondamentale che il nostro Paese tarda a fare.

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