Gli aspiranti sovversivi del Pcpm condannati senza essere terroristi

Milano/ IN TRIBUNALE URLA CONTRO ICHINO PRIMA DELLA SENTENZA
Condanne pesanti – fino a 11 anni – per le «Nuove Br». La difesa: «Smentite le tesi dell’accusa»

Milano/ IN TRIBUNALE URLA CONTRO ICHINO PRIMA DELLA SENTENZA
Condanne pesanti – fino a 11 anni – per le «Nuove Br». La difesa: «Smentite le tesi dell’accusa» MILANO.  Per la seconda sezione della corte d’appello di Milano, gli undici esponenti del Partito Comunista Politico-Militare (Pcpm) condannati ieri non sono terroristi ma semplici sovversivi. Questa distinzione, che non è di lana caprina, tuttavia non è bastata ad evitare pene decisamente molto pesanti alle cosiddette «Nuove Brigate Rosse» che sono in carcere dalla fine del 2006.
Siccome attraverso l’uso distorto delle parole si inventano e si determinano storie e strategie, bisogna fare qualche precisazione. La dicitura brigatista «Nuove Br» è una invenzione dei media, i condannati non si sono mai detti brigatisti, quanto al Pcpm non è mai esistito, casomai quel partito era l’obiettivo da raggiungere, forse un domani, e magari anche con le armi (gli imputati hanno pubblicato dei documenti dove si teorizza la necessità di una rivoluzione anche armata).
A questo punto, all’avvocato della difesa, Giuseppe Pelazza, viene spontaneo domandare cosa abbiano fatto queste cosiddette «Nuove Brigate Rosse» per prendersi undici condanne che vanno dagli 11 anni e mezzo (invece dei 14 richiesti) per Claudio Latino fino ai 2 anni e 4 mesi; al presunto ideologo del gruppo, Alfredo Davanzo, è toccata invece una condanna a 9 anni. Andando a memoria, l’avvocato Pelazza ricorda un tentato furto ad un bancomat di Albignaseco (Pd), una esercitazione con delle armi – «vere, non giocattoli» – durata 8 minuti in un campo nel Polesine e alcune telefonate particolarmente livorose contro il giuslavorista del Pd Pietro Ichino, che comunque non sarebbe mai stato indicato come un obiettivo da colpire. Il giuslavorista però si è costituito parte civile contribuendo così a «pubblicizzare» oltre modo un processo che altrimenti sarebbe sparito dalle cronache. Ieri, per esempio, prima della sentenza, Pietro Ichino era in aula, una presenza che ha scatenato gli imputati che, secondo le cronache date in pasto ai media, e alle reazioni indignate degli amici politici, avrebbero nuovamente minacciato il giuslavorista. Prima con un «vergogna, vai a lavorare» e poi con la frase «questo signore rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema».
Gli avvocati della difesa, pur parlando di «pene spropositate», dicono che la sentenza di ieri ha smentito clamorosamente l’impianto accusatorio derubricando il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (art.270bis) in associazione sovversiva semplice (art.270), riducendo così anche se di poco le pene inflitte in appello nel giugno 2010 (e non è un caso se il primo verdetto era stato annullato dalla Corte di cassazione che chiedeva maggiore chiarezza proprio in merito alle contestazioni relative all’associazione con finalità di terrorismo). I giudici milanesi hanno anche stabilito un risarcimento pari a 100 mila euro per il senatore Pietro Ichino e 400 mila euro alla presidenza del Consiglio (entrambi si erano costituiti parte civile).
Ma entrare nel merito di questa sentenza serve a poco, visto che a tenere banco sono le parole di Ichino, che da dieci anni è costretto a vivere sotto scorta: «Queste persone vogliono decidere chi sia il simbolo dello Stato ed emanare sentenze di morte e di ferimento nell’ambito di una guerra che hanno dichiarato». A seguire le prevedibili e numerose dichiarazioni di solidarietà e di vicinanza di tutta la classe politica, indignata. Più o meno è sempre la stessa storia. Quando la crisi del sistema si fa dura, un po’ di insano allarmismo all’italiana non guasta mai. Tanto più se il «lupo» si traveste da partito politico militare che non c’è.

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