La lotta dei braccianti contro Liggio e i suoi sgherri

Corleone / UNA STORIA DI MAFIA E ANTIMAFIA

Corleone / UNA STORIA DI MAFIA E ANTIMAFIA CORLEONE. E il vino prodotto sulle terre dei boss oggi sfida l’«amaro del padrino» La bara ha i resti di un uomo che, 64 anni dopo il suo barbaro assassinio, ha finalmente ricevuto, nella forma solenne dei funerali di stato, l’omaggio che merita un eroe civile, quale è stato Placido Rizzotto, socialista, segretario della camera del lavoro di Corleone, assassinato da Luciano Liggio (assolto per insufficienza di prove) il 10 marzo del 1948. Il suo corpo fu gettato nella Rocca Busambra, la foiba della mafia corleonese, affinché di lui fosse cancellato ogni ricordo. Giuseppe Letizia, un bimbo di 12 anni che aveva assistito all’omicidio fu finito dal capomafia locale, il medico Michele Navarra, capo anche della Dc di Corleone, con un’iniezione letale. Giorgio Napolitano si china commosso per poggiare la medaglia d’oro al valore civile nelle mani della sorella di Placido, Giuseppa, una donnina fragile tutta vestita di nero. E mentre il vescovo Di Cristina sbaglia per due volte il cognome di Placido, chiamandolo «Rizzuto», e non nomina mai la mafia, tocca a Emanuele Macaluso e a Susanna Camusso ricordare la matrice di questo come degli altri 47 omicidi che rappresentano il prezzo altissimo pagato dal sindacato nella lotta alla mafia. Così Corleone e Portella Della Ginestra, dove il capo dello stato ha commemorato la prima strage di mafia, divengono l’epilogo di questo ventennale della strage di Capaci, racconto della storia di un paese in cui la violenza stragista mafiosa è intervenuta per determinarne gli assetti politici. Trascorsi 64 anni – nel corso dei quali il nome di questa cittadina arrampicata sulla montagna è stato associato alla più spietata delle cosche di Cosa Nostra, i corleonesi, appunto, oppure alla sagra del Padrino, don Vito Corleone – Corleone ha voluto riprendere il posto che le spetta nella storia della lotta dei braccianti e dei contadini contro il latifondo e i campieri mafiosi. C’è un fiume di sangue che è stato versato, come non si è mai stancato di raccontare nel corso di questi anni Dino Paternostro, segretario della camera del lavoro di Corleone, e autore di una bella biografia di Placido Rizzotto, una lotta aspra per il diritto a quella terra che la riforma del ministro comunista Fausto Gullo concedeva ai contadini ma che i latifondisti, spalleggiati dai campieri mafiosi, non volevano mollare. Placido Rizzotto è stato assassinato per aver guidato questa lotta, sfidando il giovane Luciano Leggio, detto Liggio, sotto la cui ala crescevano Totò Riina e Binnu Provenzano. Corleone, luogo simbolo, dunque, della mafia e dell’antimafia, fin nella coreografia, con il corteo che sfila con le rosse bandiere della Cgil davanti al bar che espone una foto di Al Pacino nel ruolo di don Vito Corleone per reclamizzare «L’Amaro del Padrino»; crocevia di vite che qui si sono incrociate scegliendo parti opposte. Dei boss abbiamo già detto, ma qui, dopo l’assassinio di Rizzotto, arrivano Pio La Torre a guidare le lotte dei contadini e un giovane capitano dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa: è lui che conduce le indagini sull’omicidio del sindacalista e accusa Liggio e i suoi sgherri. Da qui si dipana il filo di una trama che avvolge la storia italiana, una guerra nella quale per troppo tempo lo stato ha protetto i mafiosi e isolato e di fatto condannato a morte coloro che combattevano la mafia, tanto più quando questi, come La Torre e Dalla Chiesa, prima, Falcone e Borsellino poi, avevano compreso che bisogna colpire non solo l’ala militare della mafia ma sopratutto i suoi patrimoni. Per questo gli eredi di quelle lotte sono i giovani che lavorano le terre confiscate alla mafia e i cui prodotti saranno sui tavoli del Quirinale per la festa del 2 giugno. Un altro segnale simbolico di Napolitano che alla fine del suo settennato ha voluto restituire alla memoria comune i martiri antimafia. È bello che il vino Placido Rizzotto possa soppiantare l’amaro del Padrino.

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