Quel futuro negato a una generazione di knowledge workers

I fatti dell’ultima primavera spagnola sono noti. Un anno fa, le immagini erano sotto gli occhi di tutti. Il successo del movimento fu clamoroso. Nel giro di pochissime ore, sull’onda delle rivolte avvenute sull’altra sponda del Mediterraneo, l’iniziativa di poche centinaia di persone bucava gli schermi di tutto il mondo e rimbalzava sulla prima pagina dei quotidiani internazionali. Il movimento aveva creato un’iconografia facilmente riconoscibile, che suscitava nello spettatore un moto di identificazione immediata.

I fatti dell’ultima primavera spagnola sono noti. Un anno fa, le immagini erano sotto gli occhi di tutti. Il successo del movimento fu clamoroso. Nel giro di pochissime ore, sull’onda delle rivolte avvenute sull’altra sponda del Mediterraneo, l’iniziativa di poche centinaia di persone bucava gli schermi di tutto il mondo e rimbalzava sulla prima pagina dei quotidiani internazionali. Il movimento aveva creato un’iconografia facilmente riconoscibile, che suscitava nello spettatore un moto di identificazione immediata. (…) Nel lessico degli indignati, il ritorno della piazza deve essere interpretato come occupazione dello spazio pubblico, ossia come appropriazione fisica e/o virtuale di un territorio negato dalla politica «ufficiale», in cui si manifesta la volontà di insediarsi, di accampare. L’affermazione del movimento riguarda dunque la presenza e la ri-politizzazione di uno spazio disertato dalla politica. Sono innumerevoli le testimonianze di indignati che hanno vissuto questo gesto come un’esperienza incomparabile, costitutiva di nuove identità personali e collettive. Non dobbiamo però lasciarci sedurre dal calore delle testimonianze. L’apparente familiarità dei linguaggi potrebbe trarci in inganno. Come spesso accade in politica, i piani di lettura sono diversi e intrecciati fra loro. L’ambiguità non riguarda soltanto l’interpretazione dell’ingente quantità di materiale testuale e visivo prodotto, ma anche i contorni e le finalità del nuovo soggetto politico. Il gesto degli indignati mette alla prova alcune categorie fondamentali sulle quali si fondava la ricostruzione dei processi di partecipazione politica. Si dissolve il confine tra lo spazio virtuale e lo spazio fisico, e, di conseguenza, cambiano alcune strutture fondamentali di socializzazione, a cavallo tra la sfera pubblica e la sfera privata. Nella piazza degli indignati, lo scambio comunicativo assume i caratteri dell’immediatezza, della spontaneità, della diffusione virale che di solito vengono attribuiti alla comunicazione in rete. A sua volta, il dibattito in rete tende a imitare le convenzioni della conversazione orale. Agorà virtuale e agorà reale si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Nasce in questo modo una comunità politica nuova, una comunità immaginata, come lo è qualunque altra comunità politica.(…) Occorre dunque chiarire chi fossero gli indignati e da dove venissero. A meno di specificare attentamente i termini, sembra chiaro che questo non è un movimento di classe. È piuttosto un movimento trasversale che riguarda i giovani e gli immigrati, i disoccupati e i precari, ma anche molte altre categorie di persone, i cui interessi non sono facilmente conciliabili: «gente comune» che si ritrova a pagare un mutuo che raddoppia o triplica il valore dell’immobile acquistato, lavoratori pubblici che hanno perso una buona parte del loro salario e hanno visto peggiorare velocemente le proprie condizioni di lavoro, oppure cittadini di ogni condizione che cominciano a subire i tagli nelle prestazioni sociali. Dalle diverse indagini di campo pubblicate non emerge con chiarezza il profilo dell’indignato tipico. Forse perché tale profilo non esiste proprio. Molti indignati erano giovani, ma non giovanissimi (l’età media era di 33 anni), con un alto livello di istruzione (il 66% erano laureati o iscritti all’università), molto di sinistra (in una scala in cui l’estrema sinistra vale 0, e l’estrema destra 10, la media si trovava sul 1,67), non coinvolti precedentemente in organizzazioni di carattere politico o sociale (tra i giovani, si arrivava al 92% di non-partecipazione), mediamente soddisfatti o non del tutto insoddisfatti con il funzionamento sistema politico, non erano particolarmente disinformati e addirittura molto informati attraverso la rete, non necessariamente disoccupati (il 52% dichiarava di avere un lavoro), e senza particolari difficoltà economiche (il 70% riteneva di trovarsi in una situazione buona o molto buona). Gli indignati sapevano di essere, in fondo, dei privilegiati. Si sentivano i «Robin Hood» dei tempi nostri. Temevano il declino delle loro condizioni di vita, ma soprattutto esprimevano la propria solidarietà con i molti concittadini che non avrebbero mai raggiunto il benessere che era stato promesso loro, o che erano destinati a perderlo dopo averlo sfiorato. Questa era appunto la situazione degli immigrati, dei nuovi disoccupati, dei precari «milleuristi», dei giovani anche benestanti ma senza aspettative, dei pensionati costretti a dare una mano ai figli, ma anche della larghissima e crescente nuova classe dei working poors . Se questa è la media sociologica, ciò non significa che le diverse categorie di indignati si discostassero da essa in maniera proporzionale. Il movimento si articolava a grappoli e deve pertanto essere descritto come una costellazione maggioritaria di minoranze . (…) A un anno di distanza, il movimento sembra avviato verso il declino. Il tono degli interventi nel primo anniversario confermava questa impressione. Nonostante il tentativo di dare rilievo alle iniziative in corso, cui i partecipanti erano invitati fin troppo calorosamente a partecipare, non di rado il tempo verbale volgeva al passato. Si è detto che l’ondata di indignazione non è passata in vano, perché nel frattempo la politica istituzionale è diventata più sensibile, e più attenta, ai temi caldi del movimento. Questo nesso causale è difficilmente dimostrabile. È sicuramente vero che dopo la fine del 15M c’è stato un rifiorire dei movimenti associativi e di quartiere, di piccole occupazioni, di associazioni di auto-difesa di categorie particolarmente vulnerabili di consumatori. Ma questa è soltanto una piccola parte delle diverse componenti sociali confluite nella grande ondata di indignazione che attraversò l’opinione pubblica spagnola. Sarebbe fuorviante parlare di avanguardia. Sono piuttosto gruppi minoritari, nei quali si ritrovano, per così dire, i sopravvissuti del movimento. Tuttavia, c’è ancora qualcosa di paradossale nel discorso sul «futuro» degli indignati e della loro indignazione. Forse è appunto il caso di ricordare che una delle piattaforme confluite nel movimento si chiamava, e si chiama ancora, «juventud sin futuro». Questa assenza di futuro, di un futuro possibile, abitabile, sostenibile, è stata la principale fonte di indignazione. Nel movimento ha preso forma un vuoto, quello che ha lasciato alle sue spalle quell’implicita rinuncia ad ogni orizzonte futuro che si è diffusa dall’inizio dell’ultima grande crisi sistemica del modello neo-liberistico. L’accettazione generale di questo stato di cose racchiude in sé il trionfo storico di un modello di giustizia sociale alternativo a quello dominante, in una buona parte del mondo, durante la fase centrale del secolo scorso. È una trasformazione ideologica che non può non essere descritta nei termini di una lotta per l’egemonia. Essa ha dato un contributo decisivo alla demolizione di quel consenso costituzionale sul quale poggiavano le democrazie avanzate e ha comportato una clamorosa esasperazione degli squilibri sociali. È nata una nuova classe di declassati, che rischia di essere assorbita e neutralizzata, ma non rappresentata, da una politica senza orizzonti. Perché è noto che le rivolte dei poveri, vecchi e nuovi, non producono rivoluzioni.

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