Un libro autobiografico racconta la storia di Emilio Barbarani, console nel Paese sudamericano durante il golpe. Nonostante le minacce del regime riuscì a salvare 250 oppositori che si erano rifugiati nell’ambasciata italiana. La vicenda è stata a lungo segreta: ma a Santiago è considerato un modello da seguire. L’edificio della rappresentanza si trasformò in un ostello per disperati
Un libro autobiografico racconta la storia di Emilio Barbarani, console nel Paese sudamericano durante il golpe. Nonostante le minacce del regime riuscì a salvare 250 oppositori che si erano rifugiati nell’ambasciata italiana. La vicenda è stata a lungo segreta: ma a Santiago è considerato un modello da seguire. L’edificio della rappresentanza si trasformò in un ostello per disperati
I diplomatici non devono dimostrare di avere coraggio. Non è questo il loro compito. Ma può succedere in situazioni particolari che un diplomatico sia costretto a prendere dei rischi superiori a quelli normalmente dovuti. Nel 1974, a un anno dal golpe, il Cile sembrava sempre di più sprofondare in un buco nero di terrore e ferocia. A Santiago le ambasciate erano affollate di dissidenti, e la più affollata era quella italiana con una media di 250 cileni che aspettavano il visto di espatrio. Le vaste sale dell´edificio erano state liberate di tutte le suppellettili, mobili e quadri, era rimasto solo un enorme busto del Duce in pietra nera che veniva accarezzato dai rivoluzionari miristi. Si viveva nella promiscuità e nella sporcizia, con i bambini sdraiati per terra sui lettini dati dalla Croce Rossa. L´atmosfera all´interno era insopportabile e le donne dicevano che tra le torture dei militari fuori e lo spasimo dell´attesa per entrare in bagno dentro non sapevano cosa scegliere. I comunisti e i miristi si erano accordati per una tregua all´interno della residenza, ma le risse continuavano ad essere frequenti.
Emilio Barbarani, giovane e aitante diplomatico, ex console in Argentina, arrivò nella residenza in quei giorni: «Venni accolto da Chàvez, il capo dei comunisti, un uomo massiccio e taciturno che parlando esordiva sempre con lo slogan “El pueblo unido jamàs serà vencido”. Mi consigliò di guardare ogni sera sotto il letto prima di dormire e di chiamare un falegname di fiducia per cambiare la serratura della porta della mia camera da letto e di non parcheggiare mai la macchina nel giardino ma sul marciapiede accanto alla carretta dei carabineros, altrimenti al mattino accendendo il motore invece di andare in ufficio sarei andato al creatore. I rifugiati non erano solo politici: mescolati tra loro si potevano riconoscere delinquenti comuni e anche infiltrati della polizia. Bisognava stare attenti anche ai cecchini che sparavano da lontano per intimidire. Qualche tempo prima all´interno della residenza era stato ritrovato il cadavere di Lumi Videla, una giovane donna attivista del Mir che portava evidenti tracce di torture. L´indomani la polizia aveva accusato i nostri rifugiati di essere stati loro ad aver assassinato la ragazza al termine di un´orgia a base di droga. Era un´accusa inverosimile, ma poteva nascondere la volontà della giunta di trovare un pretesto per invadere l´ambasciata».
«Noi eravamo in una posizione debole. C´era un brillante ambasciatore che non era un ambasciatore. Tomaso de Vergottini era stato mandato in sostituzione del vero capo della missione, partito per Roma pochi giorni prima del Golpe dopo aver spedito un messaggio alla Farnesina dicendo che in Cile era tutto tranquillo. Tuttavia l´Italia non aveva riconosciuto la giunta militare e così de Vergottini non poteva presentare le sue credenziali. Dal punto di vista diplomatico contava quanto uno zero. Ma nello stesso tempo doveva contattare, secondo le indicazioni contraddittorie della Farnesina, tutti gli alti papaveri militari e polizieschi per ottenere i visti di espatrio dei rifugiati. Una specie di quadratura del cerchio. Chiedere consigli a Roma era inutile: nell´ultimo anno erano cambiati 4 governi con 4 ministri degli Esteri differenti e non si capiva chi comandava chi. L´unica cosa certa era che noi dovevamo arrangiarci. Quando si profilò la minaccia reale dell´invasione dei carabineros alla residenza dissi subito che mi sarei difeso ad oltranza con tutte le armi che avevo e andai dal Commissario politico dei rifugiati chiedendo se erano d´accordo. Ci fu una lunga discussione e alla fine venni autorizzato ad aprire la cassaforte e a distribuire le quindici pistole che erano custodite. Da allora ho girato sempre armato».
«L´attacco non è mai avvenuto. L´Italia e il Cile avevano 2 posizioni diametralmente opposte. Da parte nostra bisognava capire quale contatto andava scelto e quale percorso era percorribile con più probabilità di successo. Una volta ad un ricevimento avevo incontrato il famoso colonnello K., uno degli uomini più potenti del paese, uno dei capi della DINA, l´onnipossente agenzia dei servizi segreti. E io come de Vergottini non ero accreditato. Durante l´incontro nel suo studio pochi giorni più tardi feci millantato credito, fingendo una sicurezza che non avevo e dando fondo alle mie capacità istrioniche. Avevo capito che se non mostravi i denti i militari non avrebbero nessuna esitazione ad eliminarti. Attaccai con una certa determinazione il comportamento della giunta dicendo che non era degno di un paese civile e nemmeno della tradizione dei soldati cileni che non contemplava massacri e esecuzioni sommarie. E lui rispose che noi italiani eravamo tutti comunisti o subornati dai comunisti e dovevamo essere trattati come meritavamo. Poi andò alla scrivania, aprì un cassetto, e tirò fuori dei soldatini di piombo con le divise delle SS che mise in fila per farmi capire meglio l´antifona».
«Ci sono stati molti momenti difficili. Quando arrivarono i visti per l´espatrio accompagnai personalmente quelli che partivano in aereo. All´aeroporto venni intercettato dal comandante dell´area che mi disse di aver notato cecchini appostati con fucili ad alta precisione. La polizia non era d´accordo sui permessi di espatrio concessi ad attivisti dei partiti di sinistra già condannati a morte ed erano pronti a eseguire loro la sentenza, da lontano. Lui non voleva stragi nel suo aeroporto e sperava che mi dessi da fare per impedirlo. Fu una partenza drammatica. Avevo detto a tutti di mescolarsi con gli altri passeggeri in modo da impedire ai tiratori di scegliere con accuratezza il bersaglio. Ma all´ultimo momento un cretino salì da solo in cima alla scaletta dell´aereo facendo grandi gesti della mano per salutare i parenti, rimanendo completamente scoperto. Tentai di coprirlo con il mio corpo attendendo che i cecchini sparassero. Non dovevano essere della tempra dello Sciacallo di Forsyth che tentò di uccidere de Gaulle, perché nessuno sparò. E i rifugiati riuscirono tutti ad imbarcarsi senza danni».
«Un altro momento difficile fu durante la partenza dell´ultimo mirista chiamato Emanuel rimasto a Santiago per fare da guardia alle donne nella residenza mentre tutti erano andati via. Eravamo d´accordo che sarebbero venute 2 auto di scorta a prenderlo, ma all´ora convenuta non c´era nessuno. In quel momento incrociai un alto ufficiale dei carabineros che conoscevo. Vedendomi fece una faccia sorpresa e disse: “Barbarani ero informato della vostra partenza, ma come mai siete ancora qui?”. -“Ne so meno di lei.” – risposi. La faccia del militare da sorpresa diventò preoccupata. “Bisogna fare una telefonata immediatamente. Posso entrare per trovare un telefono?”. Io dissi se era pazzo. Voleva entrare in ambasciata in divisa, dove c´era gente che era stata torturata da loro? Lo avrebbero fatto fuori subito. -“Barbarani non perdiamo tempo, l´aereo non aspetta. Mi scorti dentro. E visto che lei è armato se qualcuno mi attacca faccia finta di difendermi!”.
Così aprii il cancello, passammo per il giardino, raggiungendo un primo salone, fortunatamente non incontrammo nessuno. Poi attraversammo un secondo salone, arrivando nella biblioteca completamente vuota. Trovato il telefono il carabinero si mise a telefonare mentre io uscì dalla stanza ponendomi di guardia davanti all´entrata con la pistola in mano mentre pregavo Dio di non far apparire nessuno. Dopo due minuti il carabinero ricomparve e lo portai fuori dall´ambasciata. Qui c´era il capo dei comunisti Chàvez che mi disse: “Dottore lei è matto, matto da legare, noi la tenevamo d´occhio, noi sapevamo tutto di questa operazione segretissima. Sapevamo anche che qualcuno lo voleva morto. Quando è entrato in ambasciata il militare noi eravamo tutti pronti a intervenire se lei e il poliziotto foste stati aggrediti. Noi comunisti abbiamo sempre saputo in anticipo tutto».
Barbarani rimase a Santiago due anni. Quando partì per un´altra destinazione, tutti i rifugiati, oltre 750, erano già all´estero sani e salvi. Emilio Barbarani tornò in Cile, dove è considerato un eroe, nel 1998 come ambasciatore. Queste vicende sono narrate in un avvincente libro, scritto 40 anni dopo e uscito in questi giorni intitolato “Chi ha ucciso Lumi Videla?”. (Mursia Ed., 19 euro).
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