Due testi di Gianfranco Draghi, interlocutore privilegiato di Cristina Campo Dedicati ad Alberti e a Simone Weil, gli scritti affrontano i principali temi che nutrivano la speranza di una rifondazione della civiltà europea «La sua lettera di oggi…è una di quelle che io porto con me per un periodo di tempo, come un prezioso scarabeo, un amuleto».
Due testi di Gianfranco Draghi, interlocutore privilegiato di Cristina Campo Dedicati ad Alberti e a Simone Weil, gli scritti affrontano i principali temi che nutrivano la speranza di una rifondazione della civiltà europea «La sua lettera di oggi…è una di quelle che io porto con me per un periodo di tempo, come un prezioso scarabeo, un amuleto». È uno dei molti passi rivelatori che si leggono nelle lettere di Cristina Campo a Gianfranco Draghi (Il mio pensiero non vi lascia, Adelphi 2011, pp. 273, euro 24). Citando questo e altri passi Margherita Pieracci Harwell nella sua bella nota a questa raccolta ci lascia intravedere un legame che, «forte delle sue radici nascoste, ‘può limitarsi a segni, cenni brevi e profondi, come ne corrono solo tra coloro che hanno lo stesso rituale’».
È una felice coincidenza che, in concomitanza con il bel volume adelphiano, sia uscito un prezioso libretto di Gianfranco Draghi, che fa emergere anche il volto – cioè la prosa e l’anima, il pensiero – di questo principale interlocutore della giovinezza di Cristina Campo, ancora attivo signore del pensiero vivo, in una varietà stupefacente delle sue forme: letteraria, filosofica, pittorica, psicoanalitica. Si tratta di due scritti che risalgono proprio a quegli anni, che anzi sembrano esprimere «il canto della giovinezza e insieme il canto dell’addio alla giovinezza» di cui parla Pieracci Harwell a proposito delle Lettere – ma di una giovinezza molto saggia e molto attenta, come dirà la stessa Campo.
Secondo la propria degnità – Leon Battista Alberti e Simone Weil (Raccolto Edizioni 2011, pp. 176, euro 18) mette insieme due scritti, rispettivamente del 1949 e del 1958, che riletti oggi stupiscono per la pregnanza e insieme l’agio con cui affrontano e illuminano le principali questioni che agitavano anche la giovinezza della nostra Repubblica, ma soprattutto nutrivano la speranza di una rifondazione della civiltà europea. Perché sono ancora le nostre questioni, tutte: fra morale, economia, politica e vita dell’anima. Attraversano l’intero ambito del pensiero pratico e del giudizio di valore, e parlano ai ragazzi di oggi ancora più evidententemente – nel generale silenzio degli intellettuali contemporanei su quello che più importa – di quanto parlassero ai ragazzi di ieri. Le utili note di Arturo Colombo, Filippo La Porta e Lucio Levi rendono ancora più agevole e arricchente questa lettura.
I testi sull’Alberti costituiscono forse la prima opera di respiro di Draghi – la tesi con cui si laureò nel 1948 con Eugenio Garin. Quanto alla Weil, il testo ristampato è fra i primissimi scritti dedicati in Italia al suo pensiero, le cui opere vedevano allora la luce nelle prime traduzioni italiane. Mentre Cristina Campo costruiva sul pensiero della Weil la sua etica e poetica dell’attenzione, Margherita Pieracci Harwell ne traeva ispirazione per un’opera saggistica e critica capace come nessun’altra di mostrare tutte le potenzialità della riflessione di Weil sulla bellezza. La lettura di Draghi rappresenta invece il lato filosofico-politico della prima ricezione del pensiero della filosofa francese in Italia.
Draghi notava del resto, in conclusione di quel testo, come il pensiero di Simone Weil si innestasse «nella linea più nuova del pensiero politico moderno» – e citava appunto, per suffragare questa osservazione «le varie pubblicazioni di Adriano Olivetti, presso Comunità». Un Olivetti che stava appunto provando a realizzare la «santità nuova» di cui scrive Simone Weil: «Oggi non è sufficiente essere santi; è necessaria la santità che il nostro presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti… Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa».
Accanto a Olivetti, Draghi citava Denis de Rougemont, Alexandre Marc, Lewis Mumford, Max Picard, Berdiaev, Aldous Huxley, e infine i Manifesti e le Antologie del federalismo di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Luigi Einaudi. Nello stesso spirito menzionava infine “l’ideale congiunzione con Danilo Dolci” e “l’influenza della Weil (su) un uomo come Ignazio Silone».
Occorrerebbe in questo contesto ricordare ancora, fra gli amici di Cristina Campo, Nicola Chiaromonte che discuteva alla pari con Milos, Camus, Hannah Arendt, Mary Mc Carthy… Ma come quadrano con la «santità nuova» l’incertezza e il coraggio dell’Alberti, figura universale dell’Umanesimo italiano e fiorentino? Come nella santità di Simone Weil Draghi coglie l’elemento della modernità e del progetto di un’economia e di una politica capaci di ovviare allo sradicamento contemporaneo e di rendere all’uomo la dignità e il gusto della sua condizione finita (della sua abitazione, del suo lavoro, della sua ricerca, della sua Città), così nell’universalità del genio rinascimentale egli coglie la radice etico-pratica: e in essa individua la «santità» – altrimenti poco perspicua – della «santa masserizia».
Un passo oltre nella ricerca di quegli storici e teorici del capitalismo, i Max Weber, i Werner Sombart, i Lujo Brentano, i Max Scheler che hanno disputato se nella «Masserizia» albertiana (cioè nei quattro Libri della Famiglia, il suo capolavoro in volgare, scritto fra il 1433 e il 1441) possa essere in nuce una versione non protestante dello spirito del capitalismo.
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