Oltre 76 milioni di ettari di terre fertili nei paesi in via di sviluppo, pari a circa la metà dell’Europa occidentale, sono nelle mani di un migliaio di ricchi investitori. L’accaparramento di terre è un fenomeno di cui questa rubrica ha parlato spesso. Ora però c’è una stima precisa delle dimensioni: a farla è «Land Matrix», il primo database completo e aggiornato sul fenomeno del land grabbing, appena messo on line dalla International Land Coalition, una coalizione internazionale di organizzazioni non-governative e di ricerca (http://landportal.info/landmatrix).
Oltre 76 milioni di ettari di terre fertili nei paesi in via di sviluppo, pari a circa la metà dell’Europa occidentale, sono nelle mani di un migliaio di ricchi investitori. L’accaparramento di terre è un fenomeno di cui questa rubrica ha parlato spesso. Ora però c’è una stima precisa delle dimensioni: a farla è «Land Matrix», il primo database completo e aggiornato sul fenomeno del land grabbing, appena messo on line dalla International Land Coalition, una coalizione internazionale di organizzazioni non-governative e di ricerca (http://landportal.info/landmatrix). Secondo Land Matrix dunque sono 1.008 i contratti già stipulati dal 2000 a oggi per l’acquisizione di 76.329.194 ettari di terra nei Paesi in via di sviluppo, di cui la metà soltanto nel continente africano. Il maggior numero di contratti (310) riguarda terreni in Africa orientale, e quasi metà (48%) della terra acquisita in totale si trova in Africa, mentre il primato dell’area più vasta ceduta agli investitori appartiene all’Indonesia con circa 9.5 milioni di ettari, seguita dalla Repubblica Democratica del Congo con 8.1 milioni di ettari di terre già vendute. Tra i maggiori acquirenti figurano il governo dell’India, la compagnia di telecomunicazioni cinese Zte International e la Indah Kiat Pulp & Paper, la più grande multinazionale della carta già accusata di deforestazione in Indonesia, che hanno acquisito in tutto oltre 10 milioni di ettari. I contratti riguardano soprattutto progetti minerari, grandi produzioni agricole o piantagioni di monocolture (palma e soia). Vengono stipulati in gran parte per progetti agricoli (690 contratti, per 50.2 milioni di ettari di terra fertile), di cui il 30% per la coltivazione di piante a scopo alimentare e il 20% per bio-combustibili o mangimi, mentre il resto riguarda coltivazioni utilizzabili per scopi alimentari o industriali, come ad esempio olio di palma e canna da zucchero. Al secondo posto figurano gli investimenti nel settore forestale (94 contratti per 12.7 milioni di ettari). Secondo i ricercatori della International Land Coalition – che comprende tra gli altri associazioni come Action Aid, Amnesty International, Cgiar, Crocevia – i contratti meno importanti possono essere sotto-rappresentati nel database ma tutti sono stati controllati. Gli esperti fanno inoltre notare che dal 2009 sembra esserci stato un forte calo nel numero degli investimenti, ma che ciò è attribuibile più a una riluttanza da parte dei ricchi investitori a fornire informazioni su questo enorme trasferimento di risorse naturali dai paesi poveri, che a una reale diminuzione del fenomeno. Dai dati emerge infatti che nell’ultimo decennio l’acquisizione di terre fertili nei paesi in via di sviluppo è aumentata in modo esponenziale, favorendo l’esproprio dei terreni alle comunità locali e mettendo a rischio l’ecosistema. Per questo, secondo gli autori del database, una mappatura potrebbe rappresentare una fonte di informazione pubblica e trasparente molto utile per analizzare e circoscrivere il fenomeno. Anche perché, oltre a grafici e mappe interattive, Land Matrix offre video, chat, forum di discussione, e topic groups su ambiente, diritti, sicurezza alimentare. Sostenuto da sponsorizzazioni che includono agenzie dell’Onu come la Fao o l’Unep, il portale Land Matrix non è un semplice contenitore di dati ma si propone come uno strumento multimediale sul fenomeno del land grabbing, il più completo creato finora. Neanche la Banca mondiale è mai riuscita a monitorare in modo così ampio il fenomeno, pur avendo tutti gli strumenti necessari, né in realtà ha mai prospettato soluzioni al problema e soprattutto alle conseguenze che avrà in futuro in termini di sicurezza alimentare e diritti umani.
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