Violate e in armi donne alla guerra

Dal à40 al à45 Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico»: una storia che affiora. Vite straordinarie, le protagoniste di una «resistenza civile» che è tragica emancipazione

Dal à40 al à45 Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico»: una storia che affiora. Vite straordinarie, le protagoniste di una «resistenza civile» che è tragica emancipazione

Michela Ponzani GUERRA ALLE DONNE. PARTIGIANE, VITTIME DI STUPRO, «AMANTI DEL NEMICO». 1940-1945 Einaudi, pp. XVI-320, 25

Pochi anni fa, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che classifica lo stupro come un’arma di guerra. Definendolo uno strumento utilizzato «per umiliare, dominare, instillare paura, cacciare e/o obbligare a cambiare casa i membri di una comunità o di un gruppo etnico», l’Onu ha così ufficialmente indicato nella violenza sessuale contro le donne (realizzata all’interno di un contesto bellico) non solo un reato contro la persona, ma anche una violazione delle norme internazionali, inserendola – di fatto – nell’elenco delle pratiche proibite accanto all’uso di armi vietate, al terrorismo, alle torture sui prigionieri, ecc.
«Scoprire» adesso che lo stupro è un’arma può sembrare quasi irridente se si pensa a quella che è stata la storia. Tutte le guerre che hanno affollato la nostra epoca sono state segnate infatti da questo tipo di violenza: ovunque nel mondo per gli eserciti vittoriosi gli stupri sono stati l’occasione per l’esercizio di un potere assoluto, to-
tale, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica, privandoli del loro Stato, del loro territorio nazionale, ma anche di quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone l’intimità, distruggendo le famiglie.
E’ successo anche da noi. Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla «linea gotica», i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme; sull’Appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registrarono 262 casi di stupro ad opera dei «mongoli» (i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito tedesco). E poi la tragedia che investì le «marocchinate», le donne stuprate in Ciociaria e nel Lazio nella primavera del 1944. Dopo lo sfondamento della «linea Gustav», le truppe coloniali francesi si avventarono sul paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71? divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio 1944, oltre 600 donne furono violentate.
Di questi stupri, e più generale dell’ondata di violenza che investì le donne italiane negli anni della Seconda guerra mondiale, parla ora un bel libro di Michela Ponzani ( Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico». 1940-1945. Einaudi, pp. XVI-320, 25). Che però non si limita a sottolineare il loro ruolo di vittime. Consultando archivi, ascoltando testimonianze, inseguendo ricordi, scavando tra gli stereotipi che da sempre si addensano sul binomio donne e guerra, il libro ci restituisce lo scenario complessivo di una Seconda guerra mondiale che, non a caso, una volta Ernesto Galli della Loggia suggerì di chiamare «guerra femminile». Tra il 1940 e il 1945 si registrò un effettivo «protagonismo» delle donne.
Con gli uomini lontani, prima al fronte poi coinvolti nella bufera della «guerra civile», e poi ancora, diventati un bersaglio della «guerra ai civili» condotta dai tedeschi (ostaggi per le rappresaglie, manodopera da deportare…) ; con gli uomini segnati quindi da un’improvvisa e drammatica precarietà, costretti a nascondersi o a combattere, le donne si trovarono ad assumere, di fatto, il ruolo di protagoniste nella lotta per la sopravvivenza, per consentire alla loro famiglia di affrontare la fame, il freddo, la paura, le coordinate di un’esistenza collettiva che scandirono quello che allora, per tutti gli italiani, fu «tempo di guerra». Di qui, nelle testimonianze studiate da Michela Ponzani, il rifiuto di considerarsi vittime e la rivendicazione della propria forza in quanto donne e madri, unita alla consapevolezza di come allora l’eccezionalità della guerra abbia sovvertito antiche gerarchie di genere, rimescolando i ruoli tradizionali. Le donne che facevano la borsa nera per sfamare la famiglia; che nascondevano e proteggevano profughi e perseguitati; che usavano la loro femminilità per sfidare impunemente il dominio assoluto dei tedeschi, furono le principali protagoniste di quella che viene definita la «resistenza civile».
Per molte di esse tutto questo comportò anche l’uso delle armi. Alla fine, furono 35 mila le partigiane combattenti, e 20 mila le patriote; e furono 623 quelle cadute e fucilate. Dalla rivoluzione francese in poi, lo spazio pubblico, quello della politica e della cittadinanza, era riservato solo ai cittadini che potevano portare le armi. Agli uomini quindi, mentre le donne erano confinate negli interni della domesticità familiare. Le donne partigiane oltrepassarono questa soglia. Ma non fu una rottura definitiva. Quando finì la guerra, quando si affievolirono le condizioni eccezionali che avevano determinato quei comportamenti, tutto finì molto presto. Per molte, secondo una testimonianza riportata nel libro, il 25 Aprile 1945 fu come «un presagio di nostalgia per quello che stava finendo, quasi una tristezza per la normalizzazione che ci attendeva, per i sentimenti più tranquilli e senza tensioni alte che avrebbero ordinato la nostra vita. Che non sarebbe stata mai più straordinaria».

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