Gianandrea Noseda

È cresciuto a Sesto San Giovanni diviso tra istituto tecnico e conservatorio A trent’anni dirigeva a San Pietroburgo dopo il crollo del comunismo Poi il Regio nella Torino post-industriale. Anche per questo il “maestro operaio”, ora ospite fisso al Met di New York, è uno degli uomini più ascoltati in fatto di lirica: “La crisi”, dice, “o la subisci o la usi. Come fecero Beethoven e Mahler”. I risultati sono sempre più incoraggianti a un certo punto della stagione il teatro aveva più abbonati della Juventus 

È cresciuto a Sesto San Giovanni diviso tra istituto tecnico e conservatorio A trent’anni dirigeva a San Pietroburgo dopo il crollo del comunismo Poi il Regio nella Torino post-industriale. Anche per questo il “maestro operaio”, ora ospite fisso al Met di New York, è uno degli uomini più ascoltati in fatto di lirica: “La crisi”, dice, “o la subisci o la usi. Come fecero Beethoven e Mahler”. I risultati sono sempre più incoraggianti a un certo punto della stagione il teatro aveva più abbonati della Juventus 

New York. «La crisi, o la subisci oppure la usi». È strano parlare subito di economia davanti alla pizza margherita di Fiorello, all´angolo tra Broadway e la 63esima strada, pochi minuti dopo che un applauso trionfale ha salutato il calare del sipario all´ultima replica del Macbeth di Verdi. Ma il maestro Gianandrea Noseda è reduce da un´altra prova, quasi altrettanto impegnativa della sua direzione alla Metropolitan Opera. È stato intervistato dalla più celebre anchorwoman specializzata sull´economia e la finanza, Maria Bartiromo della Cnbc. Una rete tv che trasmette in diretta da Wall Street e fa opinione sui mercati globali. La Bartiromo è solita interrogare capi di Stato e ministri economici, tecnocrati del Fondo monetario e banchieri. Noseda è il primo direttore d´orchestra “lanciato” dalla Cnbc. Tema dell´intervista: l´austerity e l´opera lirica.
Un test più difficile che dirigere il Macbeth? «Di certo ero teso, imbarazzato: l´angoscia di dover riassumere un´intera situazione nazionale in quattro minuti, e non nella mia lingua». Non solo se l´è cavata bene, ma è giusto che la situazione della nostra lirica finisca nel tg economico della Cnbc: di certo qui a New York l´opera è uno dei prodotti di esportazione che ancora rappresentano al meglio l´immagine dell´Italia. Ma se il linguaggio di Verdi è universale, più difficile è tradurre per il pubblico americano la profonda diversità delle nostre istituzioni culturali. «Il Met vive per il 98 per cento di fondi privati – dice Noseda – Quella delle donazioni fiscalmente deducibili è una ricetta che qui funziona a meraviglia, ma non è realisticamente esportabile in Europa. Noi dobbiamo trovare un sistema misto, un nuovo equilibrio tra fondi pubblici e risorse private, se i privati credono davvero ai valori della nostra storia e della nostra cultura».
Noseda, che farà il suo debutto alla Scala dirigendo Luisa Miller il 6 giugno, a New York non si lascia “schiacciare” dalla soverchiante potenza economica del Met, ha qualche ragione di ottimismo sull´Italia. Racconta l´esperimento che sta facendo al Teatro Regio di Torino, di cui è direttore: «Abbiamo aumentato gli spettacoli, abbiamo investito sulle tournée all´estero, abbiamo avviato la cooperazione discografica con Deutsche Grammophon. I risultati sono incoraggianti, a un certo punto della stagione i nostri abbonati hanno superato quelli della Juventus. Il pubblico c´è, anche tra i giovani, il fuoco della passione per la lirica è ancora lì che soffia sotto la brace, bisogna trovare le formule giuste per risvegliarlo. Il modello americano è irraggiungibile, il Met ha i mezzi per mettere in scena tre opere diverse ogni settimana, tutto l´anno. Ma anche noi possiamo muovere qualche passo nella loro direzione. I tagli ai fondi pubblici? Non bisogna solo aspettarsi che cambi qualcosa dall´alto, dobbiamo darci da fare coi mezzi che ci sono, però Mario Monti ama l´opera, questo mi fa sperare bene, il governo precedente non dimostrava alcun interesse».
Il discorso scivola verso l´immagine dell´Italia negli Stati Uniti («è passato abbastanza poco tempo dal cambio di governo, ma qui a New York già avverto un atteggiamento profondamente diverso nei nostri confronti») e Noseda si rifà al laboratorio torinese: «Per me che sono lombardo, è una città d´adozione, ma è stato meraviglioso incrociare nella mia vita la vicenda di questa Torino rinata con la cultura. È una città seria, ha attraversato con grande maturità tutta la transizione post-industriale, la crisi della Fiat, ha lavorato per conquistarsi e costruirsi vocazioni nuove, ha avuto un atteggiamento positivo anche nei momenti più bui della crisi. Nel mio campo la crisi ci ha perfino aiutato: capisci che devi lottare contro gli sprechi, essere competitivo in un settore musicale che è diventato decisamente globale. Del resto nella storia l´arte è fiorita sempre in mezzo alle prove più difficili: Beethoven ha dato il meglio di sé mentre l´Europa viveva i traumi del Congresso di Vienna, la musica di Mahler fiorì in un periodo tragico che preparava la Prima guerra mondiale. Le crisi sono terribili ma per l´arte sono anche delle fasi di grande fecondità. Verdi e Schostacovich sono altri due compositori che hanno saputo attingere dalle tragedie un materiale d´ispirazione, di creatività, e così facendo hanno contribuito a cambiare la società in cui vivevano».
Nei periodi di maggiore incertezza, o perfino di angoscia, quale migliore rifugio abbiamo se non la cultura? In fondo proprio New York lo ha dimostrato. Gianandrea e la moglie Lucia quando sono qui a Manhattan (in media per due mesi all´anno) affittano un appartamento di Placido Domingo, nello stesso quartiere dove abito io: questo “villaggio” dell´Upper West compreso fra Central Park e il Lincoln Center, il cui cuore pulsante sono le grandi istituzioni culturali come il Met, la sala sinfonica Avery Fisher Hall, la scuola di balletto e teatro Julliard, e più a Nord il campus di Columbia University. Qui l´amore dell´opera lirica porta i segni di una storia che è già antica, per una nazione giovane come l´America: il Met fin dal primo Novecento attirava Enrico Caruso, Arturo Toscanini e Gustav Mahler. Cent´anni dopo, quando nel 2008 i demoni di Wall Street precipitarono questa metropoli e il mondo intero nella più grave crisi economica da tre generazioni, l´economia cittadina fu salvata almeno in parte grazie alla tenuta dell´industria culturale. «È un debito enorme quello che abbiamo con la cultura – dice Noseda – e quanti errori si potrebbero evitare attingendo alla saggezza dei classici. Compreso Shakespeare, per il quale Verdi aveva una venerazione. Il Macbeth, per esempio: che lezione terribile sul demone del potere, sui suoi effetti distruttivi sulla psiche umana».
È singolare la biografia di Noseda, classe 1964. Il maestro “operaio”, in un certo senso: perché cresciuto a Sesto San Giovanni, in quella che fu considerata a lungo la Stalingrado d´Italia, roccaforte del Pci e della Fiom. «Io lì ho fatto l´istituto tecnico – dice – Studiavo come perito industriale in parallelo con il conservatorio, in un mondo segnato dalla cultura operaia dei metalmeccanici della Falck e dalla dottrina sociale della chiesa, un tessuto sociale dove la centralità del lavoro era una religione condivisa. Città straordinaria, Sesto San Giovanni, magari non sarà la più bella, però era un microcosmo dell´Italia di Peppone e Don Camillo…»
Dalla Stalingrado d´Italia la sua parabola è proseguita verso la Russia vera, dove Noseda lavorava a San Pietroburgo fin dagli anni Novanta (è poi diventato il primo direttore ospite del Teatro Mariinsky). «Ricordo la povertà estrema della Russia nella prima transizione post-comunista – racconta – e i sacrifici dei colleghi musicisti che mi ospitavano: rinunciavano alla loro razione nella mensa, pur di regalare a me qualche caloria in più. Ma che mondo straordinario: ho incontrato delle anziane guardarobiere russe con una capacità di lettura fantastica, conoscevano i loro autori meglio di me».
Ora Noseda fa parte di quell´esclusivo jet-set di grandi direttori d´orchestra che vivono come dei nomadi globali. Quando ci vediamo all´ultima replica del Macbeth è arrivato di recente dal Giappone, sta per ripartire per Toronto e Pittsburgh. «Al jetlag sono abbastanza allenato, ma il peggio è quando arrivi dall´Estremo Oriente in America: una lotta continua per non crollare di sonno durante le prove». L´America lo affascina «ma non al punto da volerci vivere sempre: sono attaccato alla mia terra, le radici sono importanti per me, dopo tanto girovagare sento il bisogno di ritornare nella nostra casa di Meina sul Lago Maggiore: tremila anime. Un luogo meraviglioso che con Lucia scoprimmo quando diventai direttore del Festival di Stresa».
Dell´importanza delle radici parliamo anche con Lidia Bastianich, la celebre chef italoamericana che ha assistito al Macbeth ed è con noi a mangiare la pizza da Fiorello (dove incute ai camerieri più soggezione che se fosse Michelle Obama). La Bastianich in America ha creato un impero di alta cucina grazie alla sua maniacale devozione per le “ricette degli antenati”; ha conosciuto Noseda a Torino in un altro tempio della qualità italiana, Eataly al Lingotto. Cultura e gastronomia: sembra uno stereotipo, eppure qui sul mercato americano queste restano forze formidabili per l´immagine dell´Italia. Del resto, se Noseda è qui come guest conductor (direttore ospite), il Met è sotto la guida permanente di un altro italiano, Fabio Luisi. «Luisi l´ho conosciuto – dice Noseda – quando andammo insieme in tournée col Met in Giappone. Fu la prima grande tournée di un teatro di questa importanza mondiale ad arrivare in Giappone dopo la tragedia di Fukushima. E chi c´era a portare il Met dagli Stati Uniti al Giappone? Due italiani. Vorrà pur dire qualcosa».

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