All’inizio il partito nato nel 1921 fu nel cono d’ombra sovietico Ma anche nei momenti più bui ebbe sempre una sua identità
All’inizio il partito nato nel 1921 fu nel cono d’ombra sovietico Ma anche nei momenti più bui ebbe sempre una sua identità
Che posizione occupa, nell’affresco di Silvio Pons sul comunismo come Rivoluzione globale, il comunismo italiano? Ad un primo esame, vien subito di rispondere: posizione marginale, e in definitiva subalterna. A un paradigma che è quello che domina l’intero volume di «guerra civile internazionale», o di «tregua armata» (o pacifico-imperiale) incarnata da tutto il comunismo novecentesco. Contro il «campo» capitalista dopo l’Ottobre 1917, e malgrado la pace di Brest-Litovsk.
Certo Pons conosce bene la «qualità» della variante italiana dell’originario bolscevismo leniniano: Gramsci, Togliatti, Berlinguer. E in generale tutta la specificità dell’«italo-comunismo». Dalle riformulazioni gramsciane della rivoluzione gradualistica ed egemonica in occidente. Alle vie strette, e in sottofondo «buchariniane», percorse da Togliatti all’ombra di Stalin. Fino alla novità berlingueriana (sconfitta) dell’Eurocomunismo. E nondimeno questo ci pare di cogliere quella «specificità» per Pons non ebbe mai modo di incidere nella vocazione «clausewitziana» del bolscevismo, vista nelle sue declinazioni sovietica, e poi cinese. Restò un appendice, un importante varietà nazionale nel cuore dell’Europa e della guerra fredda, con l’Italia come faglia di confine. Ma pur sempre un’appendice. Salvo l’Eurocomunismo, come s’è detto. Tema che occupa una decina di pagine sul finale del libro, e che in fondo è l’unico vero «onore delle armi» dell’autore alla storia del Pci. Vediamole queste pagine, prima di aggiungere qualche altra considerazione sul resto.
Dunque, tra il 1974 e il 1979 tra la Rivoluzione dei Garofani a Lisbona e l’invasione in Afganisthan il Pci era stato l’unico partito comunista a «tesaurizzare» la spinta del 1968, e a tenere aperta una prospettiva politica alternativa. Tutto l’Eurocomunismo per Pons è un grande tentativo di fondare, dentro l’Europa, una «terza via» di governo al socialismo per via democratica. Né comunista classica, né socialdemocratica. Né antisovietica, né antiamericana. È un’innovazione, che presuppone la centralità dell’Europa tra i «blocchi». Il superamento della guerra fredda. E un intenso rapporto con il socialismo europeo: ai limiti del revisionismo. La novità va a sbattere contro l’espansionismo sovietico nel Corno d’Africa e in Medioriente. E contro l’offensiva Usa sui diritti umani. Gli Ss sovietici, con relativo riarmo occidentale, fa il resto. E il rapimento Moro chiude la partita: il Pci è sconfitto e si arrocca. Fino all’estinzione nel 1989. Dopo i lampi della «questione morale», e il mondialismo radicale dell’ultimo Berlinguer. Che con lo «strappo» però, espresse un ulteriore rifiuto di quella «logica di campo» narrata da Pons in tutto il suo saggio.
Due osservazioni conclusive. Su Togliatti. Che fu ben più che un abile tattico sottotraccia. E del quale non viene mostrato bene quel sottofondo buchariniano e «destro» che fu decisivo a influenzare Stalin. Prima, nel passaggio di fase dalla svolta sul «socialfascismo» del 1928, all’antifascismo inaugurato dal VII congresso dell’Internazionale del 1935. E poi molto più univocamente di quanto Pons non annoti nell’intuizione originale della «svolta di Salerno». Elaborata da Togliatti addirittura all’indomani del 25 luglio 1943 (come da lettera a Dimitrov del 30 luglio 1943) e poi tenuta ferma sino al 12 gennaio 1944, salvo un arretramento tattico. Dovuto alle resistenze antimonarchiche dell’antifascismo italiano, e a temporanei irrigidimenti dell’Urss nel contenzioso diplomatico con Badoglio. Insomma, il Pci aveva una sua idea della «rivoluzione globale». E c’era. Anche quando non si vedeva.
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