Piazza della Loggia, altra strage senza colpevoli

BRESCIA. Tutti assolti al processo per la bomba che nel 1974 provocò 8 morti. I familiari delle vittime condananti a pagare le spese processuali

BRESCIA. Tutti assolti al processo per la bomba che nel 1974 provocò 8 morti. I familiari delle vittime condananti a pagare le spese processuali

BRESCIA. Tutti assolti, anche in appello. Piazza della Loggia torna ordinatamente tra le stragi «in cerca d’autore della storia repubblicana, insieme a piazza Fontana, l’Italicus e Ustica. Dopo quattro giorni di camera di consiglio, la Corte d’Assise di Brescia ha confermato l’assoluzione, già sancita in primo grado con formula dubitativa, per gli imputati del quarto processo per la strage del 28 maggio 1974: Carlo Maria Maggi. Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e Francesco Delfino per cui la procura aveva chiesto la condanna all’ergastolo.
Entro novanta giorni la corte depositerà le motivazioni della sentenza, ieri intanto in aula alla lettura del dispositivo è calato il silenzio. Increduli i parenti delle vittime, i pubblici ministeri, le persone rimaste ferite quel giorno. 38 anni dopo lo scoppio della bomba, che fece otto morti e più di cento feriti durante una manifestazione antifascista, era forse l’ultima speranza di ottenere una verità giudiziaria su un attentato che ha cambiato forse definitivamente il corso degli anni ’70 e la storia di un Paese costretto a fare i conti con la lotta armata.
In molti avevano riposto grandi speranze in questo quarto processo, ritenuto il più fedele alla «verità storica» acquisita ormai da anni, un processo per cui i pubblici ministeri Roberto Di Mattino e Francesco Piantoni hanno raccolto una mole impressionante di documenti, testimonianze, ricostruzioni. Quasi un milione di pagine che se non hanno permesso di accertare responsabilità penali «hanno avuto il merito – secondo il presidente dell’associazione familiari delle vittime Manlio Milani – di far luce sulle ragioni dell’impunità e sui meccanismi del depistaggio» che hanno insabbiato le indagini sulle stragi italiane dal ’69 all’80.
Una verità storica rappresentata persino nel profilo dei diversi imputati: gli ordinovisti veneti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, esponenti di una destra eversiva che vantava contatti con uomini delle istituzioni e che – secondo l’accusa – avrebbero pianificato l’attentato e procurato l’esplosivo; l’informatore dei servizi segreti Maurizio Tramonte, noto come la «fonte Tritone» del Sid, presente alle riunioni in cui si progettò la strage e lo riportò nelle note informative redatte per i servizi; il capitano dei carabinieri Francesco Delfino, che nel ’74 era a capo del reparto investigativo dei carabinieri di Brescia, cui vennero affidate le prime indagini sulla strage, indagini – sempre secondo i magistrati – sapientemente insabbiate, depistate e condotte su un binario morto.
Il mancato accertamento di singole responsabilità penali, non cancella però le precise responsabilità storico-politiche che nemmeno la corte d’Assise, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, si è sentita di escludere: la responsabilità di chi ordinò, pochi minuti dopo lo scoppio, con ancora i corpi, in detriti e il sangue caldo sul selciato, di lavare la piazza con gli idranti e gettare i reperti in sacchi dell’immondizia finiti poi in discarica «per evitare l’orrore che la vista del sangue – fu la giustificazione data un poliziotto – avrebbe generato nella popolazione». In realtà cancellando per sempre i preziosi reperti che avrebbero permesso di ricostruire il tipo di esplosivo e il detonatore impiegati per la strage, attribuendo a piazza della Loggia il suo destino di «piazza lavata». Le reticenze, le amnesie, i silenzi dei militari e degli uomini dei servizi come il generale Gianadelio Maletti, ex capo del Sid, che nel ’74 omise di riferire ai magistrati le informazioni in suo possesso «per proteggere la fonte», compromettendo così l’intera indagine; nel 2001 Malettti, interrogato al processo sulla strage di piazza Fontana, motivò con queste parole la decisione di non informare la magistratura: «Fino al 1974 nessuno ci aveva spiegato che il nostro compito era difendere la Costituzione».
Sul quadro storico pesa però la riforma del dibattimento processuale, che impone di produrre nuovamente tutte le prove nel processo; 38 anni dopo, secondo quanto ammette lo stesso procuratore Di Martino, «metà dei testi sono morti e ormai le carte sostituiscono le voci delle persone», basta un «non ricordo» per mandare all’aria l’intero impianto accusatorio. Il 16 novembre 2010 gli imputati erano già stati assolti ai sensi dell’articolo 530 secondo comma (la vecchia insufficienza di prove). Nelle motivazioni della sentenza si possono trovare parole che rappresentano quasi un monito: «Non si può pensare di trovare in un processo la verità di un avvenimento, mentre si può soltanto stabilire la verità processuale».
Resta però l’amarezza di quanti hanno creduto, per un attimo, che la giustizia potesse riconciliare il divorzio che molti a Brescia celebrarono in quegli anni con le istituzioni. «Stragi di Stato», ha ancora un senso forse ribadire oggi questa formula che può apparire desueta, ma sembra restituire la verità inconfessabile della strage di Brescia; la Piazza colpita al cuore, il movimento operaio e studentesco, il mondo della scuola, straziati sul selciato insieme alle otto vittime, Clementina Calzari, Livia Bottardi, Giulietta Banzi, Alberto Trebeschi, Bartolomeo Talenti, Euplo Natali, Luigi Pinto, Vittorio Zambarda.
Se per la cittadinanza può rimanere viva la memoria storica di quanto accaduto, non è abbastanza invece per familiari delle vittime condannati con questa sentenza anche al pagamento delle spese processuali. «La mancanza di una verità è una delle malattie che mina la storia democratica di questo Paese», è stato il commento del leader di Sel Nichi Vendola. Per l’ex pm Antonio Di Pietro, invece, si tratta di «un’ombra inquietante sulla storia nella nostra democrazia». Ma forse sarebbe stato opportuno aiutare la magistratura aprendo, come richiesto dai familiari delle vittime al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, gli archivi ancora coperti dal segreto di Stato.

 

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