Quello che Videla non dice

L’Argentina è di nuovo chiamata a fare i conti con il suo passato dopo che il generale Jorge Rafael Videla, il simbolo più perverso del regime militare del ’76-’83, ha per la prima volta confessato i suoi peccati, anche se per (indecentemente) rivendicarli. A 86 anni e con due ergastoli da scontare (più un terzo in arrivo), non è per pentirsi o chiedere scusa che nella sua cella ha concesso al giornalista Ceferino Reato un’intervista diventata ora un libro appena uscito in Argentina, Disposicià³n Final, un’assonanza certo non casuale con soluzione finale.

L’Argentina è di nuovo chiamata a fare i conti con il suo passato dopo che il generale Jorge Rafael Videla, il simbolo più perverso del regime militare del ’76-’83, ha per la prima volta confessato i suoi peccati, anche se per (indecentemente) rivendicarli. A 86 anni e con due ergastoli da scontare (più un terzo in arrivo), non è per pentirsi o chiedere scusa che nella sua cella ha concesso al giornalista Ceferino Reato un’intervista diventata ora un libro appena uscito in Argentina, Disposicià³n Final, un’assonanza certo non casuale con soluzione finale.
Nel libro Videla non rivela niente che in questi 30 anni le Madri e le Nonne della Piazza di Maggio e la giustizia argentina (riemersa dal letargo complice dopo l’avvento dei Kirchner nel 2003) non abbiano già denunciato e provato. Ma l’effetto “prima volta” c’è.
E’ la prima volta che Videla riconosce che la dittatura instaurata con il golpe del ’76 uccise «7 o 8 mila persone» (in realtà furono 30 mila). Videla, Viola, Massera – la prima giunta militare -, e i loro “mandanti” (perché c’erano dei mandanti), volevano evitare i contraccolpi del golpe di Pinochet in Cile. «Per non provocare proteste dentro e fuori il paese, si arrivò alla decisione che quella gente ‘desapareciera’, scomparisse», «i desaparecidos non sono né vivi né morti», «non c’era altra soluzione, nel vertice militare eravamo d’accordo che quello era il prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione e che era necessario non renderlo troppo esplicito per evitare che la società ne prendesse coscienza. Bisognava eliminare un bel mucchio di persone che non si poteva portare davanti alla giustizia e neanche fucilare». Ma il vecchio macellaio non rinnega niente, è tranquillo perché «Dio sa quello che fa e perché lo fa. Io accetto la volontà di Dio e credo che Dio mi abbia sempre tenuto per mano». Tranquillo per mano al suo dio, giustifica l’uso della tortura (ribadendo l’influenza della “dottrina francese” nella guerra in Algeria); sostiene che le desapariciones erano addirittura legali grazie ai decreti del presidente peronista ad interim Italo Luder (primo messaggio) «che ci diedero la licenza d’uccidere», per cui il golpe non sarebbe stato necessario e addirittura «fu un errore».
Ma c’è una frase, nel libro, che può forse spiegare perché Videla si sia deciso a parlare: «Vi siete fermati troppo presto, avreste dovuto ammazzarne altri mille o 10 mila». A dirglielo sarebbero stati degli «imprenditori argentini», di cui (per ora?) non fa i nomi. Ma il (secondo) messaggio è chiaro: «Se ne lavarono le mani. Ci dissero: ‘Fate quello che dovete fare’ e poi ci diedero addosso».
Quel che ha detto il macellaio Videla, con messianica brutalità, si sapeva. Quel che potrebbe e dovrebbe dire sarebbero i nomi dei “mandanti”, quella rete civile – l’establishment economico (a cominciare da Martinez de Hoz, il ministro dell’economia della dittatura) e politico, imprenditoriale, sindacale e giudiziario, la gerarchia cattolica – che sguinzagliò le bestie in divisa e che, al contrario dei militari, è stata risparmiata da processi e condanne. Finora.

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