Dieci sentenze dal 1974: il caso giudiziario più lungo d’Italia
Dieci sentenze dal 1974: il caso giudiziario più lungo d’Italia
BRESCIA — Ormai sembra proprio finita, anche se formalmente ancora no. Mancano le motivazioni del verdetto di ieri, e verosimilmente la Cassazione. Poi c’è un’indagine aperta al tribunale dei minori, a carico di un sedicenne dell’epoca il quale — secondo un testimone che ha taciuto il particolare per diversi lustri — avrebbe confessato di aver partecipato all’esecuzione della strage. Ma dopo cinque istruttorie e dieci sentenze finite tutte con assoluzioni o proscioglimenti (tranne una, la condanna del «colpevole perfetto» Ermanno Buzzi, un neonazista strangolato in carcere alla vigilia del processo d’appello) sono in pochi a sperare.
Quella di piazza della Loggia è la vicenda giudiziaria su fatti di terrorismo più lunga nella storia d’Italia: il 28 maggio saranno passati 38 anni. Il record di piazza Fontana, coi suoi 36 anni tra l’esplosione e l’ultima pronuncia, è già stato battuto lasciando senza responsabili accertati otto morti e cento feriti. Dopo il nuovo tentativo fallito, intorno al tavolo di un’antica osteria della città familiari delle vittime e avvocati di parte civile provano a mandar giù l’ennesima delusione. Non che sia stata una sorpresa, però anche se ti aspetti il peggio quando arriva fa sempre male.
«Con un po’ di coraggio, almeno Maggi e Zorzi li potevano condannare, le motivazioni dell’assoluzione in primo grado sono talmente assurde che non ci voleva granché a ribaltarle», commentano: «Vedremo che cosa scriveranno questi altri giudici, speriamo che almeno loro non arrivino a ignorare il contesto in cui scoppiò la bomba, e a negare la storia».
Già, la storia. La strage di Brescia compare nei manuali dei licei, anche se è ancora cronaca. Arrivò quattro anni e mezzo dopo piazza Fontana, e forse — insieme all’eccidio sul treno Italicus, due mesi dopo, 12 morti e 48 feriti — segnò la fine di un unico disegno, con in mezzo altre stragi, da Peteano alla questura di Milano. Tutte connesse tra loro, nei moventi e nei protagonisti. A Milano e Brescia coincidono perfino alcuni imputati, e le «fonti di prova».
Manlio Milani il 28 maggio del ’74 era lì, in piazza della Loggia, dove vide saltare in aria la moglie Livia e un gruppo di amici con i quali, la sera prima, aveva deciso di partecipare alla manifestazione antifascista indetta dai sindacati. Da allora la sua vita è scandita dai processi, le sue presenze alle udienze sono diventate quasi un’abitudine, come quelle allo stadio di un tifoso con l’abbonamento. E nonostante gli esiti giudiziari sconfortanti, mentre manda giù una minestra calda mette in tavola le certezze storiche raggiunte: «Ci fu un disegno eversivo, ma anche istituzionale, messo in atto nel contesto politico italiano dei primi anni Settanta, ovviamente inserito in quello internazionale. Che ha potuto contare su una serie incredibile di coperture e depistaggi, scattati fin dalle prime ore, da cui derivano le assoluzioni di oggi. C’è la prova che gli apparati dello Stato seppero quasi subito chi organizzò l’attentato, ma hanno taciuto e nascosto la verità».
Si riferisce al lavaggio della piazza con le autobotti due ore dopo lo scoppio, ai cestini dei rifiuti svuotati con troppa fretta e a tanti altri intralci alle indagini. E poi alle bugie degli uomini dei servizi segreti, da Miceli e Maletti in giù: dissero che nei loro archivi non c’era nulla sullo scoppio, mentre avevano almeno le veline con le informazioni della «fonte Tritone» (l’odierno imputato Maurizio Tramonte) che quasi nell’immediatezza dei fatti indicavano il coinvolgimento dei neofascisti veneti. Rimasero nei cassetti per quasi vent’anni. È facilmente immaginabile che battere quella pista a poche settimane dall’esplosione, magari potendo contare sui reperti spazzati via dagli idranti, avrebbe portato a tutt’altri risultati.
«Dietro questa realtà acclarata — continua Milani — c’è una catena di ricatti che lega gli uni agli altri, dagli esecutori ai rappresentanti degli apparati, fino ai responsabili politici. Le coperture e i depistaggi sono il risultato di questi collegamenti occulti, che negano la trasparenza e mettono in pericolo i presupposti della democrazia. Io temo che questo meccanismo funzioni ancora oggi, su diverse questioni, e se non viene denunciato e smantellato la vita di questo Paese rimarrà sempre inquinata dal gioco dei ricatti».
Qualcosa, forse, poteva venir fuori nei primi processi, se ci fosse stato un atteggiamento più deciso nel denunciare certe ambiguità istituzionali. «Credo che subimmo una certa timidezza del Pci dell’epoca che non voleva rischiare di compromettere il rapporto con la Dc. Ma fino a quando la ragion di Stato o della politica avrà il sopravvento sulla ricerca della verità?», si chiede Milani, presidente dell’Associazione delle vittime di piazza Loggia e anima della Casa della Memoria, fondazione dov’è raccolto tutto ciò che è possibile sapere sulla strategia della tensione e il terrorismo nero in Italia; a cominciare dai milioni di pagine processuali in cui si annidano i motivi di troppi delitti senza colpevoli. Mentre mangia e parla, il telefonino squilla di continuo: tutti gli chiedono un commento o un’indicazione, e lui risponde a tutti. È la missione della sua vita, che consiste anche nel dare un senso alle sconfitte: «Le sentenze si devono rispettare pure quando si ritengono ingiuste. Si possono criticare e bisogna spiegarne il motivo, senza delegittimare nessuno. I magistrati seguono le loro regole, fanno il loro lavoro».
I testimoni di un’ingiustizia come la strage impunita del 28 maggio 1974 ne fanno un altro. E continueranno a farlo. «Anche se io sono un po’ stanco», mormora Manlio Milani. Ma domani mattina, alle 8.30, sarà di nuovo a parlare agli studenti di un liceo.
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