Quelle verità  negate nel labirinto infinito dei misteri d’Italia

Da Piazza Fontana all’Italicus, nessun condannato.  Magistrati lasciati soli e ferite ancora aperte: verità  sempre più lontane nonostante ci sia chi non ha mai smesso di scavare  

Da Piazza Fontana all’Italicus, nessun condannato.  Magistrati lasciati soli e ferite ancora aperte: verità  sempre più lontane nonostante ci sia chi non ha mai smesso di scavare  

«Non fu», è questa l´amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell´agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo.
Nuovi indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c´entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieri è stato ripetuto alla fine del processo d´appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell´ordigno sull´Italicus, il 4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb. Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera».
Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l´abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l´ombra nera del Minotauro, e non entra nell´identikit.
C´è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni ´70 e ´80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati – si diceva – quelli che c´erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c´è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l´obiettivo è l´allora ministro dell´Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti. L´autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce. È anche informatore dei servizi segreti Sid e Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s´è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d´accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d´aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica. Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l´aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell´Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l´ultima strage – l´ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del ´93 – è circondata dall´ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesi e un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l´anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungo i binari, si conta un´altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti – si sente ripetere – vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?

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